SOCIETÀ

La scure negazionista di Trump sul cambiamento climatico

Prendiamone atto: il cambiamento climatico e il cambiamento politico viaggiano ormai a braccetto. Nel senso che, mai come in questa fase, l’affermazione di una forza politica (e del suo “credo”) rispetto a un’altra può, e sempre più potrà in futuro, condizionare gli sforzi collettivi intavolati nel tentativo, tardivo e probabilmente disperato, di mitigare gli effetti del riscaldamento globale. Prendiamo Donald Trump, fresco di rielezione alla Casa Bianca. Le sue prime nomine hanno già dato il segno di quel che sarà il suo mandato, all’insegna del più esasperato e ostentato negazionismo. Il ruolo di segretario del dipartimento dell’Energia è stato affidato a Chris Wright, amministratore delegato della Liberty Energy, società di fracking con sede a Denver. Wright è un convinto sostenitore dello sviluppo del petrolio e del gas, compreso l’utilizzo della “fratturazione idraulica”, una tecnica di estrazione particolarmente dannosa per l’ambiente (qui un approfondimento), ma che Trump considera un pilastro fondamentale per far raggiungere agli Stati Uniti il “dominio energetico nel mercato globale”. Lo scorso anno Wright, uno dei principali finanziatori della campagna elettorale a favore del candidato repubblicano, aveva pubblicato un video su Linkedin nel quale sosteneva che «non esiste alcuna crisi climatica», e che i termini “crisi climatica”, “transizione energetica”, “inquinamento da carbonio”, “energia pulita o sporca” sono tutti «inganni distruttivi che causano ansia ai bambini». Abbastanza logico il punto di congiunzione con il futuro presidente Usa, che in campagna elettorale aveva riesumato lo slogan “drill, baby, drill” per esprimere la sua intenzione di spingere sempre più sulle trivellazioni e sostenere così l’aumento della produzione di petrolio e gas (gli Stati Uniti producono già oggi più di 13,4 milioni di barili di petrolio al giorno, più di qualsiasi altro paese al mondo, con una previsione in crescita a 13,6 milioni entro la fine del 2025), anche utilizzando metodi non convenzionali, e di espandere i progetti di trivellazione sui terreni federali. Perché il primo e principale negazionista è lui, Donald Trump, uno che, nell’ormai lontano 2012, dichiarò al mondo che «il riscaldamento globale è un concetto inventato dai cinesi per impedire all’economia americana di essere competitiva», uno che considera l’innalzamento del livello dei mari un fatto positivo «che porterà ad avere più proprietà fronte oceano».

Dove poteva pescare i suoi collaboratori se non nella sua cerchia più ristretta?

Cancellare le norme dell’EPA

Ma non è finita qui: il prossimo amministratore dell’EPA, l’Agenzia federale per la protezione dell’Ambiente, sarà un altro negazionista climatico, Lee Zeldin, ex deputato e grande sostenitore di Trump. Il suo mandato sarà, come ha spiegato lo stesso presidente appena eletto, «eliminare i vincoli che frenano l’economia e limitano il potenziale industriale degli Stati Uniti», promettendo «decisioni di deregolamentazione giuste e rapide per liberare il potere delle imprese americane». Zeldin potrebbe inoltre ostacolare l’autonomia dei governi statali ed esercitare pressioni su quegli stati progressisti (la California su tutti) che già in passato si sono distinti per imporre standard ambientali più rigorosi rispetto a quelli federali. Durante la campagna elettorale, come ricordava pochi giorni fa il New York Times, «Trump ha già promesso di ”uccidere” e “cancellare” le norme e i regolamenti dell’EPA per combattere il riscaldamento globale, limitando l’inquinamento da combustibili fossili dai tubi di scappamento dei veicoli, dalle ciminiere delle centrali elettriche e dai pozzi di petrolio e gas. In particolare, Trump vuole cancellare la norma climatica più significativa dell’amministrazione Biden, progettata per accelerare la transizione dalle auto a benzina ai veicoli elettrici». E cosa dire del vicepresidente J.D. Vance, un altro esponente della lobby dei combustibili fossili? Le sue parole non lasciano dubbi: «Sono scettico sull’idea che il cambiamento climatico sia causato esclusivamente dall’uomo». Come se la scienza fosse semplicemente un’opinione, “un’idea” appunto, e non il frutto di lunghi studi, analisi e rigorosi approfondimenti che hanno portato a una determinazione condivisa da migliaia di scienziati che, per mestiere si potrebbe dire, osservano la realtà. In questo scenario la ciliegina sulla torta è Elon Musk, il multimiliardario sudafricano, fondatore di Tesla e di Space X, che attualmente gioca a fare il presidente-ombra degli Stati Uniti (sulla campagna di Trump ha investito circa 200 milioni di dollari, ora pretende il suo tornaconto).

Date tutte queste premesse la domanda è: cosa ne sarà a partire dal prossimo 20 gennaio, data dell’insediamento formale di Donald Trump alla Casa Bianca, della politica ambientale degli Stati Uniti? Fino a che punto il futuro presidente repubblicano e la sua squadra saranno in grado di ridimensionare, o addirittura di far deragliare, le iniziative a sostegno del clima intraprese dall’amministrazione Biden? Mentre si susseguono gli allarmi («Siamo sull'orlo di un disastro climatico irreversibile»), l’ultimo dei quali è il rapporto Emission Gap 2024 dell’Unep, il Programma delle Nazioni unite per l’Ambiente («Scongiurare il disastro è ancora possibile ma il tempo sta scadendo»). In attesa della prova dei fatti, i primi segnali dagli Stati Uniti sono tutt’altro che positivi. Come spiega Michael B. Gerrard, professore alla Columbia Law School, in un articolo pubblicato dalla Yale Environment 360, la rivista online dell’omonima, prestigiosa università del Connecticut: «Le elezioni del 5 novembre sono state il risultato peggiore per la regolamentazione del clima. Trump ha promesso di abrogare l’Inflation Reduction Act del 2022, la storica legge sul clima (375 miliardi di dollari stanziati), approvata con i soli voti dei democratici, che ha aumentato drasticamente il sostegno federale alle tecnologie per l’energia pulita e ai veicoli elettrici. E il presidente eletto si è già impegnato a ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, a revocare una regolamentazione chiave volta a ridurre le emissioni delle centrali elettriche e a ritirare una serie di regole volte a frenare il cambiamento climatico e l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. Tuttavia - prosegue il professor Gerrard - i segni di luce rimangono. I rapidi progressi nella tecnologia e nell’economia dell’energia pulita hanno creato uno slancio che può essere rallentato ma non fermato, con il costo del solare che è diminuito a livello globale di oltre la metà dal 2016. Gli stati e le città conservano ancora molta capacità di ridurre le emissioni e di prepararsi al peggioramento degli impatti fisici del cambiamento climatico». Energy Innovation, un think-tank di politica climatica con sede a San Francisco, lo scorso agosto ha pubblicato i risultati di una ricerca sostenendo che le emissioni negli Stati Uniti potrebbero essere superiori di 1,7 gigatonnellate nel 2030 sotto la presidenza Trump. E che, al contempo, l’interruzione degli investimenti effettuati dall’amministrazione Biden potrebbe comportare la perdita di 1,7 milioni di posti di lavoro entro il 2030.

Trasporti e centrali elettriche

Uno degli snodi più delicati riguarda il settore dei trasporti, vale a dire automobili, camion, aerei commerciali, ferrovie, navi, che resta la principale fonte di emissioni di gas serra negli Stati Uniti, con il 28% del totale (dati aggiornati al 2022): soprattutto i veicoli leggeri (57% del totale), poi camion e trasporto pesante (23%), aerei (9%), navi e barche (3%) e ferrovie (2%). L’amministrazione Biden chiedeva alle case automobilistiche di spostare almeno il 35% della produzione verso i veicoli elettrici entro il 2032, proprio per incoraggiare una graduale eliminazione dalle strade dei veicoli alimentati a combustibili fossili. Norme giudicate “troppo severe” dalle case automobilistiche e dalla stessa amministrazione Trump che, si prevede, sarebbe intenzionata a indebolire drasticamente questi standard. Un’altra questione controversa riguarda le centrali elettriche e a carbone, che stando a quanto certifica l’EPA è la seconda fonte di emissione di gas serra. Negli Stati Uniti ce ne sono circa 225 ancora in funzione, e sono anni che le amministrazioni a guida democratica (con la pausa della prima presidenza Trump) tentano di obbligarle a dotarsi di impianti più “puliti” e tecnologicamente all’avanguardia (il più recente è la CCS, acronimo di Carbon Capture and Storage, in grado di garantire la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2). Nel 2024 l’EPA ha emesso una nuova norma che dispone la chiusura degli impianti che non abbiano installato la nuova (costosa) tecnologia. Una norma contestata, anche a livello legale: è molto probabile che Trump decida di abrogarla.

Scrive ancora il New York Times: «Forse più di molte altre agenzie federali, l’EPA è stata un bersaglio particolare per Trump, che incolpa le normative ambientali di ostacolare una varietà di industrie, tra cui l’edilizia e le trivellazioni di petrolio e gas. Durante il suo primo mandato, il presidente americano ha ritirato più di 100 politiche e regolamenti ambientali. Il presidente Biden ne aveva ripristinati molti e rafforzati diversi. Alcune persone del team di transizione di Trump sostengono che l’agenzia per l’Ambiente (che si occupa della protezione dell’aria, dell’acqua e della salute pubblica, che ha vietato i pesticidi tossici, oltre a rafforzare le protezioni per la sicurezza chimica) abbia bisogno di un restyling totale e stanno persino discutendo di spostare la sede dell’EPA e i suoi 7.000 lavoratori fuori da Washington». Quanto alla politica energetica, diversi analisti ritengono che Donald Trump potrebbe favorire il nucleare a discapito delle rinnovabili. Secondo il sito Morningstar «il presidente eletto, nonostante il suo sostegno ai combustibili fossili, potrebbe finire per essere favorevole all’energia nucleare, non tanto perché è una fonte di energia pulita, ma per il suo obiettivo, come ha promesso durante la sua campagna, di “portare agli americani l’energia e l’elettricità al più basso costo sulla Terra”».

Se ci sarà un limite alle future azioni di Trump in materia ambientale, non sarà certamente per questioni morali o etiche, ma per ragioni di segno strettamente economico: vale a dire fin dove si deciderà di “frustrare” gli interessi dell’industria delle rinnovabili. Heather O’Neill, presidente e CEO di Advanced Energy United, un’associazione di imprenditori che sostiene l'industria dell’energia avanzata degli Stati Uniti (valore potenziale di 238 miliardi di dollari) mette le mani avanti: «I leader statali sanno bene che l’energia avanzata è una dinamo, che crea posti di lavoro e riduce le bollette per milioni di americani. I continui investimenti in tecnologie energetiche avanzate - dall’eolico al solare, al trasporto elettrico, alle soluzioni distribuite e alle grid-edge solutions - saranno ancora eccellenti opportunità per la nostra economia, per soddisfare il crescente fabbisogno energetico e per ridurre i costi energetici delle famiglie». Come dire: occhio a non tirare troppo la corda.

Separare l’azione per il clima dalla politica

E se ne accorgeranno anche, per fare un solo esempio su mille, gli agricoltori del Wisconsin (uno degli swing state, gli stati in bilico, dove Trump ha vinto con l’1% di vantaggio su Harris) che negli ultimi anni hanno ricevuto quasi un miliardo di dollari dall’Inflation Reduction Act, la legge sul clima che ora Trump vuole abrogare, proprio per aiutarli a proteggere la loro attività e a ridurre gli effetti dell’impatto ambientale. Interessante al proposito il parere di Li Shuo, ricercatore presso l’Asia Society Policy Institute, che ribalta il piano di osservazione del fenomeno: «Le recenti elezioni statunitensi dimostrano perché l’azione per il clima deve separarsi dai cicli politici. I costi delle energie rinnovabili, come l’eolico e il solare, sono diminuiti così drasticamente che ora sono molto competitivi rispetto ai combustibili fossili. La forza trainante dell’azione globale per il clima non sarà più la politica, nazionale o internazionale: la forza motrice essenziale diventerà l’economia reale». Come dire: saranno i mercati a decidere, ad avere voce in capitolo, a orientare le scelte.

Trump, con ogni probabilità, uscirà nuovamente dagli Accordi di Parigi. Come potrebbe tentare di ritirare gli Stati Uniti dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il trattato del 1992 che costituisce la base per i colloqui internazionali sul clima: «Il riverbero di un tale passo si farebbe sentire in tutto il mondo», scrive The Conversation. «Sebbene l’Accordo di Parigi non sia giuridicamente vincolante e si basi sulla fiducia e sulla leadership, la posizione assunta dalla più grande economia del mondo influisce su ciò che gli altri paesi sono disposti a fare. E consegnerebbe il mantello della leadership climatica alla Cina». E c’è chi si dice convinto che quella di Trump sulle politiche ambientali non sarà una completa conversione a U. Tra questi c’è John Podesta, attuale consigliere per il clima dell’amministrazione Usa, che ha recentemente partecipato alla COP29: «Stiamo affrontando nuovi venti contrari? Assolutamente sì. Ma non torneremo al sistema energetico degli anni Cinquanta. Non c’è alcuna possibilità che questo possa accadere. Le battute d’arresto sono inevitabili, ma arrendersi sarebbe imperdonabile. Questa non è la fine della nostra lotta per un pianeta più pulito e sicuro. I fatti sono sempre fatti. La scienza è pur sempre scienza».

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