SOCIETÀ

Non c'è pace per Cuba (tantomeno con Trump)

Sono bastate poche ore di presidenza a Donald Trump per cancellare, con un brusco tratto di penna, la decisione presa in extremis da Joe Biden, lo scorso 14 gennaio, di rimuovere Cuba dall’elenco degli stati sponsor del terrorismo. Tecnicamente si chiama “rescissione”, e fa parte di quel pacchetto di ordini esecutivi emessi dal nuovo inquilino della Casa Bianca per porre rimedio a norme, precedentemente in vigore, ritenute dannose, e perciò revocate. L’inserimento di Cuba nella black-list risaliva al gennaio 2021, uno degli ultimi atti firmati da Trump durante il suo primo mandato. Quindi nessun disgelo, seppur fragile, nei tormentati rapporti con l’isola, come si poteva ipotizzare appena la scorsa settimana, quando la precedente amministrazione americana aveva raggiunto un accordo (raggiunto grazie alla mediazione del Vaticano) che prevedeva anche il rilascio graduale, da parte di Cuba, di 553 prigionieri, gran parte dei quali dissidenti arrestati per aver partecipato alle clamorose proteste del 2021 a L’Avana, Santiago e in altre città. Proteste pacifiche, ormai definite come 11J (11 July, luglio, il giorno della manifestazione spontanea), per chiedere un cambiamento delle condizioni di vita, per protestare contro la carenza di cibo, di medicine, contro i continui black-out. Le autorità cubane reagirono con ferocia, per reprimere, per impaurire, arrestando indiscriminatamente i manifestanti (qui un report di Human Rights Watch che testimonia centinaia di violazioni dei diritti umani, tra molestie, detenzioni arbitrarie, abusi, pestaggi, torture).

Il governo presieduto da Miguel Díaz-Canel aveva confermato lo scorso 16 gennaio il rilascio di oltre 100 prigionieri, la maggior parte dei quali in libertà vigilata, a condizione che mantengano una “buona condotta”, secondo le indicazioni della Corte Suprema del Popolo. L’ong cubana Prisoners Defenders ha aggiornato martedì scorso il numero a 150, pubblicando sui social un video con i nomi e i dettagli dei prigionieri finora rilasciati. Storie che s’intrecciano tra loro: dalla ragazza di 24 anni, Reyna Yacnara Barreto Batista, condannata a quattro anni di carcere per aggressioni e disordini pubblici, alle sorelle gemelle Lisdani e Lisdiani Rodríguez Isaac, 26 anni, condannate entrambe a 8 anni per oltraggio, disobbedienza, aggressione e diffusione di epidemie (all’epoca erano in vigore restrizioni alla circolazione dovute al Covid). Il nome più noto tra i rilasciati è quello di José Daniel Ferrer, leader del gruppo di opposizione Unione Patriottica di Cuba (UNPACU), che durante gli anni di detenzione è stato sottoposto a torture: «È tempo che i cubani, sia all’interno del paese che all’estero, si uniscano in un unico fronte e dimostrino al mondo la nostra incrollabile determinazione a raggiungere la nostra libertà e trasformare Cuba in una nazione giusta e prospera alleata con l’Occidente», ha dichiarato il dissidente attraverso il suo account X. Ferrer, che è stato rilasciato lo scorso 16 gennaio dal carcere Mar Verde di Santiago, ha assicurato che continuerà da Cuba la sua battaglia: «Preferirei morire piuttosto che accettare di lasciare il paese o rompere il mio impegno nella lotta per la democrazia. Lotterò per la libertà di tutti i prigionieri politici». L’arresto di Ferrer, all’epoca, aveva scatenato un’ondata di proteste internazionali.

Libertà in cambio del silenzio

Cosa ne sarà di loro, ora che Trump ha mandato all’aria il tentativo di disgelo, e degli altri dissidenti cubani che speravano di ritrovare la libertà, è presto per dirlo. «La mia paura è che mi portino di nuovo in prigione», aveva confessato alla Bbc Lisdiani Rodríguez, poche ore dopo la sua scarcerazione. «Mi hanno detto di mantenere la calma e di chiedere il permesso alle autorità se voglio spostarmi in altre province. Il giudice è venuto di persona a dirci che avevamo la libertà condizionale, ma non la piena libertà, perché possono decidere di revocarla. Ci stanno usando a loro vantaggio». Il fondatore di Prisoners Defenders, Javier Larrondo, ha precisato che i 150 sono stati rilasciati attraverso pene alternative, come la libertà condizionale, ma mantenendo intatte le sentenze per tutti e con gravi minacce di ritorno in carcere se dovessero esercitare la loro libertà di espressione, stampa, riunione o associazione. «Devono tacere se non vogliono tornare immediatamente in prigione, questa è la minaccia», ha riassunto Larrondo. Il presidente cubano Díaz-Canel, che ha sempre negato con fermezza qualsiasi sostegno al terrorismo, ha accusato Trump di voler soltanto «rafforzare la crudele guerra economica contro l’isola. Questo atto di derisione e di abuso conferma il discredito delle liste e dei meccanismi unilaterali di coercizione del governo degli Stati Uniti». Sul suo account X ha poi aggiunto: «Il reintegro di Cuba in quella lista è un atto di arroganza e di disprezzo della verità». Il nuovo segretario di Stato americano, Marco Rubio, 53 anni, figlio di immigrati cubani e primo ispanico a ricoprire il prestigioso incarico, è invece convinto che Cuba meriti di essere inclusa nella black-list degli stati sponsor del terrorismo (al momento in compagnia di Iran, Corea del Nord e Siria). E anzi, è pronto a stringere d’assedio l’isola favorendo l’embargo economico e sostenendo l’opposizione al regime castrista. Secondo Newsweek, Rubio potrebbe presto diventare “il peggior incubo per Cuba”.

Va detto che Joe Biden, se davvero aveva intenzione di promuovere un dialogo costruttivo e “di prospettiva” con il governo cubano, avrebbe potuto muoversi per tempo, senza aspettare l’ultimo secondo della sua presidenza. Peraltro, stringendo l’accordo per la liberazione dei prigionieri politici, ma senza toccare “el bloqueo, l’embargo economico che da anni colpisce duramente l’isola, un blocco che, secondo i funzionari del governo cubano, «viola il diritto alla vita, alla salute, all’istruzione e al benessere di tutti i cubani». Una storia antica quella dell’embargo statunitense contro Cuba, che risale al 1960, in risposta agli espropri di aziende e altre proprietà di cittadini statunitensi sull’isola disposto dal governo rivoluzionario di Fidel Castro, che si insediò nel febbraio del 1959, dopo aver spodestato il dittatore Fulgencio Batista, sostenuto dagli Stati Uniti. L’embargo, negli anni, è stato apertamente condannato dalla stragrande maggioranza della Comunità internazionale, ma le risoluzioni sono state sempre respinte per l’opposizione di Stati Uniti e Israele (nel 2019 anche del Brasile, nel primo anno della presidenza Bolsonaro). L’ultimo appello dell’Onu agli Stati Uniti per porre fine all’embargo economico, commerciale e finanziario risale all’ottobre 2024, quando il ministro degli Esteri dell’Avana ha sostenuto che il blocco («una violazione flagrante, massiccia e sistematica dei diritti umani del nostro popolo e il sistema di misure coercitive unilaterali più completo e duraturo mai applicato contro qualsiasi paese») è «equiparabile a un crimine di genocidio».

Embargo e povertà

Al di là delle definizioni, la situazione economica di Cuba è realmente drammatica. Per tutto ciò che manca (cibo, medicine, elettricità, acqua potabile, investimenti) e per ciò che raccontano i principali indicatori economici (due anni consecutivi di contrazione del Pil, un’inflazione al 27%, calo del reddito del 70% negli ultimi 10 anni, con la valuta locale, il peso cubano, in caduta libera). Lo scorso luglio il governo cubano ha dichiarato di dover applicare “un’economia di guerra” per far fronte alla crisi. E poi c’è la piaga, sempre più profonda, della povertà. Un rapporto pubblicato la scorsa estate dall’Osservatorio Cubano dei Diritti Umani (OCDH, con sede a Madrid), titolato The state of social rights in Cuba, affermava che l’89% della popolazione cubana vive in condizioni di estrema povertà. E che l’86% delle famiglie vive “ai margini della sopravvivenza”, mentre oltre il 60% di quelle famiglie non ha sufficienti risorse per acquistare i beni essenziali per sopravvivere. Secondo la ong Cuba Siglo 21 «il collasso del sistema di governo cubano è evidente. Nel 2024 il regime ha dovuto affrontare un peggioramento senza precedenti della crisi multi-sistemica che lo colpisce. Le industrie sono paralizzate, con cali delle esportazioni, dei ricavi delle rimesse, del turismo e dei servizi medici. Il debito estero ha raggiunto livelli insostenibili. Il regime cubano sta affrontando il suo momento più critico in poco più di sei decenni. Mentre l’élite al potere sta perdendo terreno, le forze democratiche devono ancora concordare una strategia efficace». Anche secondo l’economista cubanoCarmelo Mesa-Lago quella attuale è «la peggior crisi che Cuba abbia mai affrontato».

C’è, infine, un’altra questione strettamente legata a Cuba che né Joe Biden né i suoi predecessori, nonostante le promesse, sono mai riusciti a risolvere: la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo Bay. Era il 22 gennaio 2009 quando Barack Obama, al suo secondo giorno di presidenza, firmò un ordine esecutivo “al fine di chiudere prontamente le strutture di detenzione a Guantánamo, compatibilmente con la sicurezza nazionale e gli interessi di politica estera degli Stati Uniti”. Sedici anni dopo, nulla è accaduto. Pochi giorni fa Al Jazeera ha pubblicato un intervento firmato dall’attivista e scrittore Mansoor Adayfi, yemenita, detenuto per 14 anni a Guantanamo senza che nei suoi confronti sia stata mai avanzata alcuna accusa formale. «La continuazione dell’operazione di Guantanamo non è solo un fallimento della politica, ma una macchia morale per gli Stati Uniti», scrive Adayfi. «Al suo apice, Guantanamo ospitava circa 680 uomini e ragazzi, molti dei quali erano stati venduti come “terroristi” alle forze statunitensi in cambio di una retribuzione. Questo è quello che è successo a me. Ad oggi, 15 uomini rimangono a Guantanamo. La prigione funziona ancora con un costo annuale di circa 540 milioni di dollari».

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