SOCIETÀ

Tu ed io siamo d’accordo, ci capiamo?

Secondo i moderni e contemporanei manuali di giornalismo, linguistica, italianistica, grammatica e secondo l’Accademia della Crusca è preferibile limitare l’uso di un elemento fonico come la cosiddetta d eufonica al solo caso di incontro fra vocali identiche. Quando una a oppure una e oppure forse anche una o vengono usate come preposizione o come congiunzione, prima della parola successiva che inizia con la stessa vocale viene consigliato di aggiungere alla vocale precedente la quarta lettera del nostro alfabeto, l’epitesi d, per rendere più comoda e dolce la pronuncia o la stesura, più facile e piacevole l’ascolto oppure la stessa lettura. Eppure.

Scorriamo insieme lo splendido articolo 54 della Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.»

Godiamo insieme una bella filastrocca di Rodari, In fila indiana, una delle tante in cui si potrebbe rintracciare l’esempio di una d aggiunta all’incontro fra vocali diverse, e gli esempi sono presenti anche nella meravigliosa serie di articoli dedicati qui al grande scrittore: 

Filastrocca in fila indiana

per la tribù dei Piedi di Rana,

per la tribù dei Piedi Neri,

per gli Apaches, gran guerrieri,

per i Navajos, i Mohicani,

gli Irochesi ed altri indiani,

compresi quelli del mio quartiere

che fanno la guerra tutte le sere,

poi se la mamma chiama “Carletto”!

fanno la pace e vanno tutti a letto.

Non si tratta di errori grammaticali, sia chiaro; né per il testo costituzionale né per gli scritti di Rodari. Oggi, tuttavia, un editor o un redattore li correggerebbe (forse) e consentono, comunque, di ragionare un poco su usi e abitudini della nostra lingua, sull’evoluzione storica dello stile, sull’autocontrollo di chi scrive, sull’importanza delle parole (spesso sottolineata, anche qui. Oppure di riflettere sull’encomiabile artistico lavoro dei traduttori, per la maggior parte grandi artigiani professionisti, che trasferiscono in italiano discorsi in diretta o testi scritti in altre lingue; tocca a loro tenere in debito conto questioni di correttezza dello stile che non rientrano nella qualità letteraria dell’originale, esercitarsi in assonanze elettive. 

La preposizione a e le congiunzioni e e o, sia nello scritto che nel parlatopossono assumere le forme ad, ed, od per ragioni eufoniche: infatti l’assenza dello iato rende più facile la pronuncia e più scorrevole la lettura. Grammaticalmente l’aggiunta della d eufonica non è mai obbligatoria e, storicamente, più frequente quando la d viene interposta fra due vocali uguali: ad Assunta, ed Edoardo, od Ortenzia. Nella storia della letteratura sono, comunque, numerosi sia gli esempi in cui l’identica lettera e lo iato vengono mantenuti in prosa e poesia (Leopardi, Manzoni, Pascoli, D’Annunzio), sia l’uso fra vocali diverse fra loro (De Amicis, Deledda, Verga, Pirandello, ancora Pascoli). Esistono, inoltre, addirittura parole univerbate che traggono origine da locuzioni in cui era impiegata la d eufonica come adagio (da non confondersi con quelle che presentano, invece, ad come esito della preposizione latina, adatto). Oggi è praticamente unanime l’invito a limitare l’uso della d eufonica ai casi in cui essa è posta fra due vocali uguali ed, eventualmente, solo ad alcune locuzioni in parte cristallizzate quali ad ogni istante, ad esempio, ad ogni modo, varie ed eventuali, salvo errori od omissioni e simili. Secondo alcuni potrebbero fare eccezione, perché ormai consolidate dall’uso, sequenze fisse come tu lui lei ed io, dare ad intendere, appunto ad eccezione; ad altri di noi “tu ed io” non piace.

L’esigenza dell’aggiunta nasce dal parlato e si è riflessa nello scritto, deriva dal desiderio di ascoltare suoni più gradevoli all’udito o, per altri versi, da difficoltà di pronuncia in italiano. La eufonica resta, così, anche quando c’è una virgola fra le due vocali (ma non quando c’è un vero inciso o la lettera h parzialmente eufonica, aspirata nei termini inglesi o tedeschi) e sembra preferibile evitare la sequenza di due vocali consecutive. Eufonia, euphonìa in greco significa buono o gradevole suono, suono armonico. Il suo opposto è cacofonia (ovvero ‘suono sgradevole’), un effetto che in realtà si verifica davvero nella sensibilità diffusa solo quando c’è una sequenza di due vocali uguali (lentamente siamo arrivati a questa generale opinione). In italiano trova la sua origine nella struttura originaria delle consonanti finali interessate delle basi latine et (da cui l’italiano e), ad (italiano a) e aut (italiano o). E, non a caso, appare in quasi totale disuso ormai da qualche decennio anche l’aggiunta alla congiunzione o, che dà vita alla forma od, suona male.

L’uso della d eufonica non è mai obbligatorio, chi dice o scrive “Assunta e Edoardo” non fa un errore grammaticale. E nemmeno chi dice o scrive “Assunta ed Ortenzia”. La forma contemporanea stilisticamente corretta è però solo “Assunta ed Edoardo”; meglio saperlo nella misura in cui riflettiamo o rileggiamo (o ci rileggono) prima di rendere pubblica una frase. La proposta di limitare l’uso ai casi di incontro della stessa vocale risulta una semplificazione coerente con molti altri processi di semplificazione cui è sottoposta la nostra lingua. E, casomai, deve restare eufonica, non diventare cacofonica, come talora si verifica quando la presenza nella parola successiva di altre t e d (e, in particolare, delle sequenze ad o ed) renderebbe l’aggiunta della d sgradevole all’ascolto e alla lettura (fino a adesso non ho poi nominato quanto avviene in case e edifici privati).

C’è stata una lunga evoluzione per giungere a definire (comunque non da dittatori o re, con pene e per sempre) le regole di correttezza stilistica, ciò riguarda anche la d eufonica. Come noto e ovvio, a partire dall’Ottocento e, ancor più, nel Novecento la lingua italiana ha conosciuto profonde trasformazioni; nuove parole, nuove strutture, nuove combinazioni, ma vecchio e nuovo convivono sempre finché perlopiù alcuni arcaismi diventano “ufficialmente” scorretti e, altrettanto, vale per alcune invenzioni o sperimentazioni. Le nostre scelte non sono tutte obbligate, dipendono anche dalla cultura, dal gusto e, talora, dalla situazione comunicativa, da quanto vogliamo farci davvero capire bene dagli interlocutori udenti e lettori che, a loro volta, inevitabilmente entrano in dinamiche di accordo o disaccordo con noi.

L’italiano contemporaneo è molto meno ostile allo iato di quanto lo fosse l’italiano letterario di base fiorentina. Sotto l'influenza latina e toscana, l'utilizzo della d eufonica venne considerato stilisticamente opportuno nella maggioranza dei contesti comunicativi, secoli fa si consigliava l’uso pedissequo e massiccio anche fra vocali diverse. Il cambiamento del gusto regolamentato dello stile è stato lento e differenziato. Se rileggo quanto ho pubblicato decenni fa rintraccio un abuso pure da parte mia, sembrava a me e a tanti più colto e leggiadro aggiungere quella consonante per congiungere ogni vocale apparsa e ripetuta all’inizio delle successive parole, quante più volte possibile. Oggi, al contrario, sembra fastidioso proprio la frequente estensione ricorsiva dell’impiego ai più diversi contesti, lo percepiamo spesso come un verboso burocratico orpello. E, quando compare varie volte nella stessa pagina o nello stesso discorso, urta. 

Le regole dell’eufonia e della cacofonia sono soggette al gusto e alla sensibilità del tempo, sono variate e variano di epoca in epoca. Anticamente riguardavano anche il “né”, la negazione diventava ned, credo valesse anche quando studiavo negli anni sessanta, poi quella forma è praticamente scomparsa. Ancora più tempo è trascorso da quando si rintracciava pure per se (sed, Marco Polo) e per che (ched, Iacopone da Todi); di tali usi più antichi si trova traccia in qualcheduno e ciascheduno, ormai poco comuni. Inoltre, oltre che con la sempiterna d, il fenomeno o gli espedienti eufonici hanno riguardato in passato altre lettere come la r e la (ricordiamolo “per iscritto”). Bisognerà fare prima o poi una storia letteraria dell’uso dell’eufonia nella lingua italiana.

Riassumendo: meglio oggi limitare l’uso della eufonica e restringerlo alle vocali identiche. Il vero consiglio riguarda, comunque, il pensiero prima e accanto alla parola, orale o scritta che sia. Nel caso della d eufonica questo significa provare a pronunciare la frase, vedere come ci suona, mettersi dal punto di vista di chi legge o ascolta, ragionare sugli strumenti e i generi di trasmissione del pensiero. Faccio un esempio: in una poesia o in una canzone, l'aggiunta della deufonica aumenta di una sillaba la lunghezza del verso o del ritornello, può essere funzionale a variare il contesto ritmico della frase, non rispettare la regola stilistica può essere un piccolo prezzo da pagare per l’efficacia complessiva. D’altra parte, l'uso indiscriminato della d eufonica può dar luogo, nella comunicazione orale, a fenomeni di polisemia e ambiguità semantica, causati dall'omofonia, pensiamo ad alcune espressioni formalmente eguali nella comunicazione orale e diverse per scrittura e significato: "ad ornare" e "adornare"; "ad una" e "aduna" (terza persona del verbo adunare), "ad empiere" e "adempiere", "ad enologia" e "adenologia". In altri casi, tali polisemie possono essere scongiurate da accorti raddoppiamenti fonosintattici, che, tuttavia, si presentano con diverse intensità nei vari parlanti, con una variabilità legata soprattutto alle aree geografiche e alla sensibilità individuale. L’importante è non fare come capita, dotarsi di disciplina, affinare lo stile.  

La maggior parte delle cose che diciamo e scriviamo potrebbero essere formulate in modo più conciso e chiaro. Poi non ne abbiamo tempo o voglia, d’accordo. Perlopiù sono rivolte ad altri, ci rendono agenti in pubblico (anche fosse solo un’altra persona accanto a me). Rispettarsi e rispettarla impongono di decidere cosa davvero comunicare, anche con gesti e silenzi certo. La correttezza e la coerenza attengono a tutti questi elementi. Non è questione di buone maniere, è questione di sostanza. Né il problema è essere letterati, vogliamo che comunichino meglio analfabeti e stranieri, muti ciechi sordi, ognuno con le sue abilità e disabilità, competenze e incompetenze, soprattutto tutti gli umani sapiens a vario titolo differenti. La Costituzione dice “disciplina e onore” per ogni funzione pubblica, non scordiamolo mai a atteniamoci sempre a questa regola; nella misura in cui siamo in mezzo ad altri capiamoci, dotiamoci anche di uno stile corretto e condiviso. Per starci meglio, insieme.

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