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Tumore al seno. Mortalità in calo, ma dati da interpretare con cautela

Secondo i risultati di un recente studio condotto sulla popolazione inglese, i tassi di mortalità entro cinque anni per le donne con un tumore al seno sarebbero diminuiti di due terzi nell’ultimo ventennio. Da questo lavoro di ricerca, pubblicato su BMJ, emerge che per le pazienti diagnosticate dopo il 2010 le prospettive di sopravvivenza entro i primi cinque anni siano decisamente migliori rispetto a quelle diagnosticate durante gli anni Novanta.

Nell’ultimo ventennio le possibilità diagnostiche e terapeutiche per il trattamento del tumore al seno sono aumentate notevolmente, ma non è facile individuare con precisione l’entità del miglioramento i questione, né i fattori che lo determinano. Di questo si occupano gli studi di epidemiologia, che servono a monitorare la quantità di persone che si ammalano, che guariscono e che muoiono, ovviamente a seconda delle cure che ricevono, della prevenzione, della precocità della diagnosi e delle caratteristiche demografiche e genetiche. Queste stime servono a orientare la ricerca e la pratica clinica con l’obiettivo di massimizzare l’efficacia dei trattamenti e, in ultima istanza, di migliorare il più possibile la qualità della vita dei pazienti.

Tramite l’analisi dei dati sulle pazienti oncologiche registrate dal sistema sanitario inglese, gli autori dello studio citato poc’anzi hanno monitorato nel tempo le condizioni di salute di circa mezzo milione di donne (512.447, per l’esattezza) alle quali è stato diagnosticato un carcinoma mammario invasivo precoce tra il 1993 e il 2015. Sulla base delle evidenze raccolte stimano che per le pazienti con diagnosi recente il rischio di mortalità entro cinque anni dalla diagnosi sia uguale o inferiore al 5%.

Ma quanto sono significativi e come vanno interpretati questi risultati? La loro diffusione, amplificata in qualche caso da una semplificazione mediatica che calca la mano sui toni entusiastici, rischia di portare a conclusioni affrettate e fuorvianti. Conclusioni che peraltro non aiutano le pazienti ad affrontare con maggiore consapevolezza una diagnosi e un percorso di cura. Di fronte a questo tipo di studi la cautela sia nell'interpretazione che nella comunicazione sono d'obbligo. 

Abbiamo chiesto alla dottoressa e giornalista scientifica Roberta Villa, che da anni si occupa di divulgazione su temi di salute e medicina, di commentare i risultati in questione per approfondire, in particolare, i metodi attraverso i quali si valuta un miglioramento di tale portata e le accortezze di cui tenere conto quando si tratta di interpretare e comunicare risultati del genere.

“L’entità del miglioramento si valuta attraverso la misurazione di molteplici fattori”, spiega Villa. “Tra questi, la quantità di tumori individuati precocemente rispetto a quelli identificati nelle fasi successive della malattia. Nel corso degli anni, grazie all’organizzazione di programmi di screening, alla progettazione di apparecchiature sempre più sensibili e a una maggiore consapevolezza rispetto all’importanza della prevenzione, è aumentato il numero di tumori individuati in fase precoce, causando la percezione che le percentuali di sopravvivenza dopo un certo numero di anni dalla diagnosi siano aumentate moltissimo. La diagnosi precoce, insieme all’evoluzione delle terapie e alla prevenzione delle recidive, migliorano innegabilmente le prospettive di guarigione dei pazienti. Il problema, per quanto riguarda le valutazioni epidemiologiche, è dovuto al fatto che i progressi tecnologici e metodologici in questione hanno causato anche un aumento delle sovradiagnosi e delle diagnosi anticipate.

Il concetto di sovradiagnosi (che è diverso da quello di falso positivo) viene usato per descrivere un caso in cui l’individuazione del tumore non influisce, di fatto, sulla sopravvivenza del paziente, la cui aspettativa di vita non viene aumentata né ridotta dalle cure ricevute. Ciò avviene, ad esempio, per i casi di cancro al seno nelle donne già anziane, nelle quali il tumore non avrebbe comunque il tempo di evolversi al punto da diventare letale. Un rischio analogo riguarda l’anticipazione della diagnosi, che avviene quando la diagnosi precoce non posticipa, di fatto, la data di morte di un paziente, ma allunga solamente la durata del periodo di malattia.

Insomma, gli studi epidemiologici devono sempre tenere conto del fatto che, per una certa quota di pazienti ancora vive a cinque anni dalla diagnosi oncologica, la sopravvivenza non è dovuta alla prevenzione, all’individuazione precoce, o all’efficacia dei trattamenti, ma al fatto che il tumore non avrebbe comunque influenzato le aspettative di vita. Sarebbe perciò un errore considerare le sovradiagnosi come successi, poiché i trattamenti ricevuti non migliorano la qualità di vita né prolungano la sopravvivenza dei pazienti. Al contrario, causano ansia e trattamenti medici prolungati”.

Non è possibile stabilire se una diagnosi precoce rappresenti una sovradiagnosi per ogni singolo caso. Questo concetto, infatti, è applicabile esclusivamente ai grandi numeri. Solo attraverso studi epidemiologici condotti su vasta scala e sul lungo periodo è possibile raccogliere dati statistici sufficienti per stimare la percentuale delle sovradiagnosi e orientare i programmi di prevenzione e la pratica clinica per ridurli. “Nello studio condotto sulla popolazione femminile inglese, che si concentra esplicitamente sui casi di tumori invasivi, si è tenuto conto dell’importanza di valutare le diagnosi al netto delle sovradiagnosi”, continua Villa. “La validità della ricerca in questione è data anche dal vasto campione di pazienti su cui si è basato: una popolazione di 500.000 donne è in grado di fornire delle informazioni significative”.

È essenziale tener presente che ogni risultato scientifico, anche se ottenuto attraverso lavori di ricerca meticolosi, è intrinsecamente soggetto a limitazioni. Gli autori stessi evidenziano, innanzitutto, la difficoltà di chiarire le ragioni dietro il calo di mortalità registrato. “È particolarmente difficile risalire alle cause del miglioramento, poiché negli ultimi vent'anni non solo sono aumentate le opzioni terapeutiche e la diffusione della prevenzione, ma sono cambiate anche le abitudini e gli stili di vita della popolazione”, afferma Villa. “Numerosi fattori possono contribuire alle variazioni nel tasso di incidenza di una malattia nel tempo e alla sua correlazione con fattori specifici, rendendo difficile identificare le ragioni precise di queste tendenze.”.

Un altro limite di questo studio è dovuto a una scelta di campionamento per cui non sono state considerate le pazienti con cancro bilaterale, pregresso o metastatico. “L'esclusione di alcune tipologie di pazienti in favore di quelle con condizioni iniziali più favorevoli è sicuramente un fattore di cui tenere conto nell’interpretazione degli esiti dello studio”, commenta Villa. “Di conseguenza, i tassi di sopravvivenza rilevati nella ricerca potrebbero non applicarsi ai gruppi di pazienti esclusi”.

Oltre all’interpretazione dei risultati e dei limiti di questo e altri studi analoghi, è altrettanto importante saperli comunicare al vasto pubblico.

 “Una comunicazione sanitaria efficace è quella che evita allarmismi inutili, offre spazio alla speranza e presenta informazioni accurate, oggettive e in linea con i risultati della ricerca”, sostiene Villa. “Nel caso specifico, è cruciale evitare di asserire che il 95% delle donne con diagnosi oncologica guarisce entro cinque anni; è più corretto affermare, invece, che tale percentuale di donne è ancora in vita dopo tale periodo. L’affermazione precedente espone infatti il fianco a due trappole comunicative: da un lato, potrebbe provocare un senso di sfiducia nella medicina e nella comunicazione sulla salute in generale in coloro che hanno visto i loro cari morire poco dopo cinque anni dalla diagnosi; dall'altro, si rischia di fornire al pubblico informazioni fuorvianti”.

Andrebbe inoltre specificato che il campione di pazienti da cui sono stati tratti i dati per la ricerca era composto esclusivamente da persone registrate dal sistema sanitario inglese e in larga parte donne bianche. "Al di là della sovrarappresentazione di questa componente della popolazione (tenendo conto che l'Inghilterra è di per sé un paese abbastanza multietnico) si tratta dunque di un campione omogeneo per quanto riguarda l'accesso ai servizi sanitari, la ricezione di campagne di sensibilizzazione e le opportunità terapeutiche”, commenta Villa. “Pertanto, lo stesso studio, se replicato in altri contesti, potrebbe produrre risultati diversi.

È infine importante segnalare l’esistenza di diverse varianti dello stesso tumore, come nel caso del cancro al seno. Mentre per alcune di esse i tassi di sopravvivenza sono mediamente più alti, come ad esempio quelle in cui i recettori degli estrogeni sono positivi, offrendo un bersaglio alle terapie specifiche, per altri tipi di tumore, come quello triplo negativo, la sopravvivenza entro i primi cinque anni dalla diagnosi è ancora scarsa. Nonostante ciò, è proprio su queste varianti si concentrano gli sforzi della ricerca scientifica che – ricordiamolo – dagli anni Novanta ad oggi ha compiuto passi da gigante e continua anno dopo anno a sorprenderci con risultati un tempo inimmaginabili.

Insomma, a prescindere dall’argomento specifico, bisogna sempre tenere conto del pubblico che riceve le informazioni sanitarie, che può comprendere pazienti, familiari e persone che hanno perso un loro caro a causa di una patologia. Chi si occupa di comunicazione sanitaria ha la responsabilità di rispettarne sia i sentimenti, sia il diritto a un’informazione di qualità”.

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