SOCIETÀ

Tunisia, il naufragio politico delle elezioni

C’è un limite oltre il quale, o per meglio dire al di sotto del quale, è lecito chiedersi se il termine “democrazia” abbia ancora senso. Le elezioni parlamentari che si sono svolte lo scorso fine settimana in Tunisia hanno determinato un risultato senza precedenti in termini di partecipazione popolare: appena l’11,2% degli oltre 9 milioni di aventi diritto si è recato alle urne, vale a dire circa un milione di persone. Un naufragio politico per il presidente tunisino Kais Saied, ex professore universitario di diritto, 64 anni, musulmano conservatore, salito al potere a sorpresa nel 2019, che da allora, e con metodi assai controversi, ha tentato di sradicare la corruzione dalla politica ingaggiando una lotta senza esclusione di colpi con i partiti, soprattutto quelli d’ispirazione islamica che a lungo hanno tenuto le redini del governo, a suo dire responsabili del fiorire della corruzione e del degrado economico e sociale nel quale la Tunisia è progressivamente scivolata. Inizialmente i partiti laici (che in passato non sono mai riusciti a trovare un equilibrio, una sintesi o una qualche forma di unione che permettesse loro di governare) l’hanno anche appoggiato nella sua battaglia. Ma i metodi aspri, sempre più autoritari, adottati da Saied hanno via via eroso anche questo sostegno. A luglio 2021 il presidente aveva improvvisamente deposto il capo del governo e licenziato i ministri della Difesa e della Giustizia, sospendendo l’attività del Parlamento e assumendo lui stesso la guida del potere esecutivo. Una mossa giustificata dall’articolo 80 della Costituzione tunisina (quella stilata nel 2014 sulla scia della rivolta del 2011,che diede il via alla stagione delle “primavere arabe”), che consentiva la sospensione dei lavori del Parlamento in caso di “pericolo imminente”. Due mesi dopo aveva presentato una modifica alla legge elettorale, con l’esplicito divieto delle candidature provenienti dai partiti politici: soltanto individuali, e senza sostegni alle spalle (al punto che, in queste elezioni, diverse circoscrizioni sono rimaste senza candidati. Poi a luglio del 2022, Saied ha sottoposto la sua nuova costituzione al voto dei tunisini, con un referendum (senza quorum) che è stato snobbato da quasi il 70% degli elettori: nella nuova carta costituzionale, comunque entrata in vigore, si stabilisce una sorta di iper-presidenzialismo, con un drastico ridimensionamento del peso e dell’indipendenza delle altre istituzioni, dal Parlamento (passato da 217 seggi a 161) alla magistratura. 

Mai così pochi alle urne

Ma gli strappi così bruschi, in democrazia, raramente pagano. Il risultato è che praticamente tutti i partiti politici sono ormai schierati contro il Presidente, che pure aveva lanciato un appello ai cittadini prima del voto, invitandoli a «…cogliere questa opportunità storica per riconquistare i vostri diritti e sbarrare la strada a chi ha rovinato il Paese». Evidentemente non è bastato, evidentemente non è stato creduto. E quella impercettibile percentuale finale di votanti (inizialmente si parlava addirittura dell’8,8%, percentuale poi corretta al rialzo dall’Autorità elettorale) suona oggi come la peggiore delle bocciature per l’operato di Saied. «Si tratta comunque della più bassa affluenza di qualsiasi elezione nella storia moderna, addirittura inferiore al 18% registrato nel 2015 ad Haiti e al 19% nel 2019 in Afghanistan», ha rilevato Abdullah Khurram, ricercatore di Torchlight, una piattaforma specializzata nella previsione dei rischi politici emergenti. «Ci sono seri dubbi sulla legittimità di queste elezioni». Gli ha risposto a stretto giro Farouk Bouasker, presidente dell’ISIE, l’ente pubblico tunisino che presiede le elezioni: «Nella legge elettorale non è indicata una soglia necessaria per la convalida di questi risultati. Quindi lavoreremo con quel che abbiamo». Ma quel che hanno è, oggettivamente, ridotto quasi a nulla. Il principale puntello su cui Saied aveva costruito la sua immagine di “riformatore” del sistema politico tunisino, nella sua lotta inflessibile alla corruzione, era proprio nella schiacciante maggioranza (72% dei voti) con cui vinse le presidenziali del 2019. Ora quella dote, e quel sostegno popolare, è evaporato, non c’è più. Il popolo tunisino gli ha voltato le spalle. 

Mentre l’opposizione, vale a dire quasi l’intero arco dei partiti politici, riprende fiato e coraggio. A partire dal Fronte di salvezza nazionale, una coalizione di schieramenti che comprende anche quello d’ispirazione islamista Ennahda e che fin dall’inizio ha invitato i suoi elettori a boicottare il voto. Il suo presidente, Ahmed Nejib Chebbi, ha detto che con questo risultato il presidente Saied «ha perso ogni legittimità legale», accusandolo di «aver tentato un colpo di stato» contro la democrazia tunisina. «Quello che è successo oggi è un terremoto», ha dichiarato Chebbi pochi minuti dopo la chiusura dei seggi. «Da questo momento consideriamo Saied un presidente illegittimo e chiediamo le sue immediate dimissioni». Anche secondo Ghazi Chaouachi, principale esponente del Democratic Current party, Saied «dovrebbe accettare la sconfitta e farsi da parte». Saida Ounissi, ex parlamentare di Ennahda, è drastico nel suo giudizio: «I numeri non mentono: quella di oggi è stata una delle più grandi prove per vedere se la popolazione sosteneva o meno il colpo di stato del 2021. Oggi la gente è preoccupata per i problemi economici e le riforme sociali. Non è un problema di istituzioni o di politica, si tratta di prendere decisioni economiche: questo è quel che dovremmo fare in Tunisia, e che non abbiamo in questo contesto autoritario». Nel frattempo un giudice ha ordinato l’arresto dell’ex primo ministro Ali Larayedh, vicepresidente di Ennahda: è formalmente accusato di terrorismo. Secondo gli oppositori si tratta di un arresto “politico”.

Crisi economica e un prestito all’orizzonte

Ma Kais Saied non sembra avere alcuna intenzione di fare un passo indietro. Anzitutto perché il processo elettorale sembra destinato a rimanere in una situazione di sostanziale impasse ancora a lungo: il nuovo Parlamento, al più presto, entrerà in funzione non prima di marzo 2023 (la commissione elettorale ha assegnato appena 23 dei 161 seggi: gli altri saranno decisi in un ballottaggio previsto all’inizio di febbraio). Ed è perciò che il Presidente continua a tenere un profilo basso. Nell’unica dichiarazione pubblica rilasciata finora nel dopo elezioni, si è limitato a criticare chi lo attacca per la bassa affluenza alle urne: «Il tasso di partecipazione – ha detto - non si misura al primo turno, ma dopo due turni». Ma c’è un altro indizio che spinge a ritenere improbabile un passo indietro di Saied. Lo scorso ottobre il  Fondo Monetario Internazionale ha annunciato di aver raggiunto un accordo (ancora da ratificare) per un prestito di 1,9 miliardi di dollari a favore della Tunisia, proprio per contrastare il deterioramento delle condizioni economiche del paese, ulteriormente aggravate dalle conseguenze della pandemia e dalla guerra in Ucraina (l’inflazione viaggia su una base annua superiore al 9%, la disoccupazione è oltre il 15%, c’è carenza di prodotti alimentari di base come latte, olio e zucchero). E ottenere quel prestito per Saied è un traguardo, anche se sarà vincolato al rispetto di rigorose e dolorose riforme economiche. Che potrà ratificare assai più facilmente con un Parlamento più debole e più “controllabile”.

Si legge nella bozza di accordo dell’FMI: «Le autorità (tunisine) dovranno migliorare l’equità fiscale, ridurre le spese e creare spazio fiscale per il sostegno sociale. Con un programma di contenimento dei salari, l’eliminazione di sussidi generalizzati, garantendo un'adeguata protezione mirata ai segmenti più vulnerabili». La traduzione è il solito programma “lacrime e sangue”, che sempre va in scena quando organismi internazionali prestano denaro a un paese in difficoltà: riduzione della spesa pubblica, drastica riforma fiscale, nuove regole per i servizi pubblici e per le imprese statali. Nel lungo termine c’è la promessa per un futuro migliore: ma l’immediato presente si traduce in tagli e sacrifici che per i tunisini saranno difficili da accettare. Ed è per questo che anche l’UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail), il più potente sindacato tunisino, che pure all’inizio aveva sostenuto l’ascesa di Kais Saied, ora ha deciso di voltare le spalle al Presidente. Il leader sindacale, Noureddine Taboubi, legge il clamoroso boicottaggio alle urne come «il segnale dell’enorme frustrazione e della disperazione dei tunisini. È tempo che la società civile e le organizzazioni nazionali svolgano il loro ruolo. Oggi il silenzio è un crimine: non vi lasceremo giocare con il paese e non avremo paura della prigione. Il popolo farà sentire la sua parola attraverso la lotta pacifica».

Il ruolo chiave, e la prudenza, degli Stati Uniti

Pacifica per ora, ma il rischio che nei prossimi mesi la tensione sociale possa crescere è altissimo, in assenza di indicatori che possano far diminuire il malcontento e la disperazione di grandissima parte della popolazione. Mentre assai più sfocata appare la situazione internazionale. Gli Stati Uniti, per fare un esempio, sono stati assai prudenti nel giudizio sui più recenti sviluppi politici (e non bisogna dimenticare che il voto americano sarà determinante per l’assegnazione, o meno, del prestito del Fondo Monetario). Dopo aver rimarcato che «la bassa affluenza alle urne rafforza la necessità di espandere ulteriormente la partecipazione politica», il Dipartimento di Stato americano ha sostenuto, in una nota firmata dal portavoce Ned Price, che queste elezioni «rappresentano un primo passo essenziale verso il ripristino della traiettoria democratica del paese». Sul punto la critica del Washington Post è stata particolarmente esplicita, non esitando a definire Kais Saied “un dittatore”: «La reazione dell’amministrazione Biden alle elezioni parlamentari in Tunisia equivale a un'alzata di spalle diplomatica», ha scritto l’analista Bobby Ghosh. «Il voto fittizio è stato il passo finale nel consolidamento del potere quasi assoluto di Saied. È iniziato nel luglio 2021, quando ha licenziato il governo eletto e sospeso il parlamento, poi ha accelerato lo scorso febbraio quando ha ostacolato la magistratura indipendente. Per buona misura, ha preso il controllo della commissione elettorale, imbavagliato i media e incarcerato gli oppositori politici. L’amministrazione Biden dovrebbe chiamare le elezioni parlamentari tunisine per quello che sono state: una pantomima. E smascherare il bluff di un dittatore».   

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012