CULTURA

Venezia 1600. Casanova, rocambolesche avventure in fuga dal tetto di Palazzo Ducale

Secondo la sua “Storia della mia vita”, Giacomo Casanova era nato a Venezia in una casa in Calle Malipiero nel 1725; figlio di una coppia d’attori, Gaetano Casanova e Zanetta Farussi, perennemente impegnati sulle scene di tutta Europa, era cresciuto in solitudine. La madre si era trasferita a Dresda quando era piccolo, e il padre era morto precocemente nel ‘33. Si dice che il suo vero padre non fosse però quello che gli aveva dato il cognome, ma il nobiluomo veneziano Michele Grimani, il cui fratello, l’abate Alvise, sarebbe diventato il suo tutore. La sua infanzia era così trascorsa con la nonna, alla quale era profondamente legato.

Fu proprio la nonna, consigliata dall’amico poeta Baffo, a decidere il trasferimento del piccolo a Padova nel 1734. Qui Giacomo iniziò i suoi studi, nei quali si rivelò ben presto brillantissimo; e qui fece anche i primi passi nella carriera che lo avrebbe reso ancor più famoso, quella del seduttore. Nel primo libro di “Storia della mia vita”, narrando i suoi anni padovani, Casanova intreccia infatti il racconto dei suoi sbalorditivi successi nel latino e nella filosofia con quello delle schermaglie amorose con Bettina, sorella del suo precettore.

“Viene da Padova dove ha fatto gli studi”, era la formula con cui venivo annunciato dappertutto e che appena pronunciata mi attirava la silenziosa attenzione dei miei pari per condizione ed età, i complimenti dei padri di famiglia e le carezze delle vecchie signore e delle altre che, pur non essendo vecchie, cercavano di farsi passare per tali per potermi baciare rispettando la decenza.
Giacomo Casanova, “Storia della mia vita”

Siamo al 1737. “Passai ancora un anno a Padova a studiare legge, materia in cui poi mi laureai a sedici anni, con una tesi in diritto civile De testamentis e con una in diritto canonico Utrum Hebraei possint construere novas Synagogas”, racconta Casanova. 

In effetti, i documenti conservati nell’archivio storico dell’Università di Padova ne confermano l’immatricolazione fra gli scolari “leggisti”, ma non ne registrano però la laurea, probabilmente quindi solo millantata dall’istrionico personaggio. Se infatti le carte testimoniano la sua frequenza fino al 1739, più tardi tacciono.

È quello l’anno, infatti, in cui Casanova dovette lasciare Padova per tornare a Venezia e intraprendere carriera ecclesiastica. L’anno successivo ricevette la tonsura e nel ’41 prese i voti: l’abito talare gli spalancò così la porta d’ingresso all’alta società veneziana, che gli sarebbe rimasta altrimenti chiusa date le sue modeste origini (nonostante la supposta paternità di prestigio).

Evidentemente però le sue inclinazioni libertine e lo spirito ribelle mal si sposano con la carriera scelta, tanto da resistere non più di tre giorni nella sede vescovile di Martirano, in Calabria, e da vedersi cacciare da quella del cardinale Acquaviva a Roma perché cacciatosi in un intrigo.

Lasciato l’abito religioso, indossa la divisa militare, ma ben presto si dimette. Per mantenersi, privo di mezzi com’è, suona il violino nei teatri veneziani. I piccoli espedienti finiscono quando entra nelle grazie dei patrizi Matteo Bragadin, Marco Dandolo e Marco Batbaro, creduloni affascinati dalle teatrali pratiche cabalistiche di Casanova; a lui concedono larghi aiuti finanziari, permettendogli per anni una vita più che agiata.

Questo dura finché la sua “attività” non diventa sospetta agli inquisitori di Stato e dunque fugge a Cesena, dove conosce Henriette, una dama che lì si nasconde dopo aver abbandonato il marito in Francia. È lei che nel cuori di Casanova lascerà l’impronta più forte e duratura; un’anima affine che comprende l’irrequietezza, la solitudine e la libertà di Casanova.

Il veneziano continua il suo peregrinare attraverso l’Europa, fermandosi a Parigi, dove frequenta il bel mondo e la casa reale; e poi a Dresda e a Vienna, per fare ritorno nella sua città natale nel 1753. Dopo ardite avventure, che coinvolgono clero e nobiltà locali, l’anno successivo si vede arrestare per “disprezzo pubblico della Santa Religione” e, due anni più tardi, incarcerare nei Piombi veneziani, la prigione di Palazzo Ducale nota per essere estremamente sicura.
Da lì invece riesce ad evadere il 31 ottobre del 1756. Il racconto della sua rocambolesca evasione diventa l’oggetto di straordinari racconti nei salotti europei e, poiché “stanco di raccontarla a voce”, anche di un libricino che diede alle stampe, oltre che di pagine delle sue memorie. Giacomo era riuscito a passare dalla cella alla soffitta e quindi al tetto; da lì, attraverso un abbaino, si era calato nelle stanze di Palazzo Ducale, dal quale era uscito attraverso la porta principale fingendosi un visitatore che era rimasto chiuso dentro, e defilandosi poi in gondola.

L’anno successivo lo ritroviamo a Parigi, dove si arricchisce gestendo una lotteria e diviene un incaricato del governo in missioni estere segrete; promette all’anziana marchesa d’Urfé di reincarnarla in un corpo giovane, ma rimanda di anno in anno l’esaudirsi di questa promessa; apre una fabbrica di tessuti, che a causa della sua cattiva gestione, in cui coinvolge decisamente troppo personalmente le venti ragazze dipendenti (che diventano tutte sue amanti), fallisce; la marchesa lo libera da una sopraggiunta incarcerazione e lui ricomincia così a viaggiare attraverso l’Europa.

Negli anni Sessanta la fortuna, che a lungo è stata sua amica, pare abbandonarlo. A Londra viene ingannato e derubato pesantemente da una prostituta, Mary Ann Charpillon, che lo porta quasi al suicidio e lo fa arrestare. A Varsavia si batte in duello alla pistola; sopravvive ma viene espulso dalla Polonia, dall’Austria e dalla Francia; viene imprigionato in Spagna e nel 1769 torna in Italia, dove peregrina fra diverse città fino a che un provvedimento di grazia gli permette di tornare nella sua Venezia nel 1774.

Sono finiti gli anni delle avventure spudorate e degli inganni teatrali. “Ho cinquatott’anni, sopravviene l’inverno” scrive in quegli anni, “Se penso a ritornare a diventare avventuriero, mi metto a ridere a guardare lo specchio”. Eppure, la vita che si è creato non gli permette sosta e lo ritroviamo segretario dell’ambasciatore veneziano a Vienna nel 1784 e bibliotecario del conte Waldstein in Boemia l’anno seguente. Lì si rifugia nelle lettere fino alla morte, nel 1798.

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