Gadget, la prima bomba atomica assemblata per il Trinity test. Foto: Contrasto Courtesy Everett Collection
La prima aveva un nome eufemistico, il Gadget, e venne fatta esplodere il 16 luglio del 1945 nel deserto di Jornada del Muerto, a una cinquantina di chilometri da Alamogordo, in New Mexico. Le altre meno famose, furono quasi un centinaio e vennero fatte esplodere fino al 1962 nei deserti interni degli Stati Uniti. A queste vanno aggiunte le due più tristemente celebri, Little Boy e Fat Man, che decretarono in modo spaventoso la fine della Seconda Guerra mondiale sul fronte pacifico. Le bombe atomiche sono il frutto del lavoro del Manhattan Project diretto da quel Robert Oppenheimer che Christopher Nolan ha portato sullo schermo del cinema con il volto di Cillian Murphy. Quella del 16 luglio fu la prima atomica a scoppiare, un esemplare praticamente identico a quello che il 9 agosto sarà sganciato su Nagasaki, in un’operazione che lo stesso Oppenheimer aveva battezzato “Trinity”, trinità, ispirato da un sonetto di John Donne: “Batti in breccia il mio cuore, trinitario Dio; ché tu / non hai fatto finora che bussare, spirare, splendere e cercar di emendare; / perch’io m’alzi e m’erga, rovesciami e piega / la tua forza a spezzare, battere, bruciare e fare di me nuovo”.
Oltre che per il film di Nolan, si torna a parlare del Trinity test per uno studio che è stato recentemente pubblicato su arXiv.org da un gruppo di ricercatori guidato da Sébastien Philippe. Il paper è la ricostruzione più dettagliata non solo dell’esplosione di Gadget, ma di tutti i test atomici condotti dall’esercito americano sul proprio suolo, grazie all’uso dei più avanzati modelli meteorologici e della capacità di calcolo dei computer attuali. Il risultato più eclatante che ne emerge è che Oppenheimer e i suoi colleghi, pur avendo timore di innescare la reazione nucleare incontrollata, hanno largamente sottostimato quanto lontano sarebbe arrivata l’irradiazione del fungo atomico. Per cominciare, secondo il gruppo di Philippe, l’altezza massima raggiunta è stata diverse volte maggiore di quella prevista, tra i 15mila e i 20mila metri. Ma soprattutto i radionuclidi, cioè le particelle instabili e radioattive generate dall’esplosione, non si sono limitate a ricadere nelle vicinanze del sito, ma hanno raggiunto tutti gli stati continentali americani (quindi tranne Hawaii e Alaska) e avrebbero raggiunto anche Canada e Messico.
Philippe, che lavora al Programma su Scienza e Sicurezza Globale dell’Università di Princeton, ha dichiarato al New York Times che si tratta di “una enorme scoperta ma, allo stesso tempo, non sorprende nessuno”. Lo studio, infatti, mostra attraverso l’analisi e la ricostruzione di tutti i 93 test atomici condotti tra il 1945 e il 1962 sulla superficie di New Mexico e Nevada (sono quindi esclusi i test sotterranei) come gli effetti delle bombe atomiche coprano aree molto più ampie di quanto si pensava allora e di quanto si è continuato a pensare per anni.
La localizzazione del sito del Trinity Test
Last night we released a major study mapping radioactive fallout from U.S. Nuclear Weapon Tests, beginning with the July 16, 1945 Trinity Test. Amazing collab between @PrincetonSPIA SGS and @shift7, in partnership with @CIRESnews and @EarthGenome. https://t.co/U54G9CTzS4 pic.twitter.com/XuMmfogmtB
— Sébastien Philippe (@seb6philippe) July 21, 2023
Il team che ha lavorato ai test americani è praticamente lo stesso che qualche anno fa ha utilizzato le stesse tecniche per studiare la dispersione in atmosfera delle particelle radioattive in seguito ai test nucleari francesi nel sito di Mururoa, nella Polinesia francese. In quel caso, i test analizzati sono stati 41, condotti tra il 1966 e il 1974 e hanno esposto la popolazione locale alle radiazioni senza che ne fossero consapevoli. Alla luce delle ricerche di Philippe, infatti, i 56 chilometri di distanza tra il sito del Trinity test e la base di Alamogordo e della città di Socorro sembrano pochi, troppo pochi, per garantire la sicurezza delle persone.
“ Una enorme scoperta ma, allo stesso tempo, non sorprende nessuno Sébastien Philippe
Gli studi sui test francesi hanno portato a un progetto, i Mururoa files, che oltre a rendere disponibile i documenti, sostiene anche le richieste di indennizzo e giustizia delle popolazioni locali. Allo stesso modo, la ricerca sui test americani potrebbe cambiare le sorti di coloro che negli Stati Uniti sono finora rimasti esclusi dalle compensazioni. Nel 1990, infatti, il Dipartimento di Giustizia americano ha promulgato il Radiation Exposure Compensation Act (RECA) che finora ha significato il pagamento di circa 2,5 miliardi di dollari di danni ai lavoratori vicini ai siti dei test per aver sviluppato leucemie o altre forme di cancro direttamente legate all’esposizione alle radiazioni.
Foto satellitare scattata il 26 maggio 1967 che mostra il sito dei test nucleari francesi a Mururoa
Molti abitanti dell’area del New Mexico, però, sono stati finora esclusi dal RECA, nonostante secondo le stime, nel raggio di 150 miglia dal sito della detonazione vivessero allora più di mezzo milione di persone che, come mostra la ricerca di Philippe e colleghi, sono state sicuramente investite dalle radiazioni. Come racconta il New York Times, infatti, questi risultati danno sostanza alle richieste portate avanti negli anni da popolazioni native di Nevada, Utah, Wyoming, Colorado, Arizona e Idaho che per il momento non sono state accettate.
Il prossimo futuro dirà se il nuovo studio sarà ritenuto una base sufficiente per le richieste di danni e compensazioni. Di sicuro, si tratta di un passo molto importante sul comprendere in maniera più completa il peso di quello che potremmo definire una sorta di “autobombardamento” americano, finora poco noto anche per motivi di segretezza. Ma c’è la possibilità che questo tipo di ricerche possano allagare anche altrove la platea delle popolazioni locali che chiedono da decenni il riconoscimento dei danni. È il caso, per esempio, dell’Algeria che durante gli anni Sessanta del secolo scorso, quando era ancora una colonia, è stata teatro di una serie di test francesi prima che venissero spostati nell’Oceano Pacifico. Situazioni in cui le ferite atomiche sono profonde e, spesso, intricate. Forse, quindi aveva ragione Oppenheimer a ispirarsi a Sonetto XIV di John Donne, che si chiude così: “Eppur caramente io t’amo, e vorrei essere amato, / ma son promesso sposo al tuo nemico; / divorziami, sciogli o spezza quel nodo nuovamente, / portami da te, imprigionami, ché io / se tu non mi fai schiavo, mai non sarò libero, / né casto sarò mai, se tu non mi violenti”.