CULTURA

Verso il ’22. Milioni di nuovi cittadini-contadini

A ogni soldato-non contadino corrispondono quattro soldati-contadini e mezzo. Per dare il senso concreto della frase fatta esercito italiano-‘esercito contadino’, mi servo dei recenti calcoli dello storico militare Marco Rovinello: una percentuale ricavata elaborando i dati su una classe-tipo della prima guerra mondiale, i nati nel 1884, richiamati alle armi a trent’anni.

Mussolini, per dire, che questa raccolta di voci del 1919-1922 ha chiamato come primo testimone, è dell’83; il secondo, Jahier, proprio dell’’84; il nostro corrispondente di oggi dal dopoguerra, Ardengo Soffici - un altro redattore delle riviste primonovecentesche, pittore e scrittore, e fra poco intellettuale militante del fascismo - è del ’79. Tornando a quella cruda percentuale: se sembra cruda, bisogna sapere che appena pochi anni prima, per mandare un non-contadino - borghese o operaio - alla guerra, ce ne sarebbero voluti 6 di contadini. Dunque, un progressivo ribilanciamento fra le classi era faticosamente in corso. Ma questa Storia della leva in Italia dall’Unità alla Grande Guerra di Rovinello (Viella, 2020) - sottotitolo – ha per realistico titolo Fra servitù e servizio. La mistica sublimerà la Servitù in Servizio: ma tutta l’Europa d’ordine guarda nell’Ottocento con preoccupazione a questa malvenuta invenzione della Rivoluzione Francese che è la leva, basata sul presupposto del cittadino in armi, mentre la restaurazione vuole di nuovo sudditi e non cittadini: non si sa di chi ci si può fidare, se gli dai le armi. Mercenari e delinquenti appaiono alla fine più sicuri dei cittadini-soldati, con i grilli della politica per il capo. Non hanno idee proprie, devi solo tenerli sotto, con la disciplina cieca e la forza. Quando si arriva al Maggio del ’15, ormai la coscrizione universale c’è; si punta sulla tradizionale passività contadina; e si tengono il più possibile alla larga dalle trincee gli infidi soldati politicizzati, quelli che volano con ali proprie verso un ‘sì’ alla guerra che - se la volontà gli gira - potrebbe convertirsi al no.

E allora eccoci a Caporetto, come chiarificatrice data simbolica e di rottura paragonabile a quella dell’Aspromonte (1862), con quella che possiamo vedere come una fucilazione differita di Garibaldi; e nettamente superiore, però, come portata e perché questo avvenimento è carico di memoria, l’altro invece di oblio.

Il Tenente Soffici ha voluto la guerra, era al comando della Seconda Armata, del generale Capello, proprio quella che è stata travolta -o forse ha ‘fatto’ Caporetto? Nel novembre del ’17 si aggira fra le rovine, si arrovella, raccoglie notizie, si sforza di collegarle e interpretarle. A un certo punto, quello che avrebbe fatto comunque in proprio, gli ordinano di farlo: vada, veda, indaghi; e riferisca. Cos’è successo veramente? E come sono, cosa pensano ora i soldati sbandati della loro ex-armata?

La ritirata del Friuli fa, quasi, storia dell’immediato, esce precocemente, nel 1919, con la prima ondata dei libri sulla guerra, può incidere sul modo di pensarla e dunque di entrare nel dopoguerra, quando il ‘che fare?’ del mondo contadino balza all’ordine del giorno per tutte le formazioni politiche. Le ultime pagine sono quelle che ora ci interessano: psico-sociologia spicciola, ma acuta. E si tenga conto che il toscano Soffici vive a Poggio a Cajano, non è un uomo di città che ignori tutto della terra. Quel mondo contadino messo d’un tratto e a forza in divisa, ora gli parla, gli comunica qualcosa, che Soffici - a differenza degli altri ufficiali-scrittori – sta ad ascoltare.

Mi ricordo di alcuni di quegli uomini sparsi per i coltivati, fissi a speculare la specie di una pianta, di un’erba a loro sconosciuta; raccogliendo e provando fra le dita esperte di contadino la terra di un solco per conoscerne la qualità, con un gesto e un’aria che intenerivano.

Era il ritrovamento, la riconquista della loro vita vera.

Ora, a questi uomini era stato detto che l’opera di morte era invano, e che per ritornare a questa pace bastava cessar di combattere. Che meraviglia se alcuni di loro hanno ascoltato la infame lusinga? Se altri hanno poi condiviso l’illusione?

E chi ci dice, poi - giacché - bisogna esser chiaro sino in fondo, vero? – chi ci dice, se oscuramente non è il genio dell’avvenire che agita il loro spirito?

Ove gli altri, i nemici, investiti dello stesso spirito, infiammati dalla stessa generosità e umanità amorosa, avessero fatto come alcuni di questi, e, buttate le armi, fossero tornati alle loro case. Non sarebbe stata la nascita , davvero, di un mondo nuovo, da quel punto? ( pp.243-4).

Interrogativo epocale. Il primo dopoguerra vede in campo anche l’opzione internazionalista.

Chi può escludere che dai campi si transiti, in maniera dirompente, direttamente a questa, saltando una fase di integrazione nello Stato nazionale? Oppure proprio la disciplina di guerra li ha finalmente fatti rientrare, o per la prima volta fatti entrare, in qualche cosa che sta fra la gabbia istituzionale e un progetto comune? Faranno da test le elezioni, che nel novembre ’19 danno il cambio alla Camera eletta nel 1913, la prima volta del suffragio quasi universale (maschile). Ora, voto più partecipazione alla guerra e abilitazione all’uso delle armi, che esito darà la miscela, cosa vuole, come si relaziona, chi è il cittadino-contadino? Passato il tempo in cui - come nei quadri oleografici dei pittori risorgimentali, i parroci, il proprietario terriero e il sindaco convogliavano i contadini ai voti plebiscitari delle origini. Ora ci sono le leghe, il sindacato, i partiti di massa. L’interrogativo di Ardengo Soffici plana dubbioso in questo groviglio.

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