CULTURA

Verso il ’22. La rottura storica avviata da un piccolo prete siciliano

Per  chiamare i ‘proletari’  alla politica e al socialismo c’eran voluti a fine Ottocento gli avvocati transfughi da onorate famiglie borghesi - magari figli di un prefetto, come Filippo Turati - e degli eterni studenti: gli spostati dalla condizione familiare e dalla classe di origine, variabile impazzita -a giudizio degli scienziati sociali dell’epoca - nel normale andamento della società.

Il ‘mondo cattolico’ ha altre, e ben  più folte e longeve risorse, di quel mondo ‘socialista’ allo stato nascente. Un fitto, secolare, collaudato tessuto socio-culturale e un apparato ecclesiastico, che può spostare e spostarsi secondo che cambino bisogni e convenienze. Una piramide autoritaria e gerarchica, che finisce in altissima punta - con il Vicario di Dio - e ha una larghissima base di reclutamento, che non esclude neppure i figli dei contadini. È questa la classe dirigente - pret-à-porter - che nel 1919 mette in campo un nuovo soggetto politico-sindacale di massa, il Partito Popolare Italiano e le leghe bianche.

Avvenimento dirompente, nella storia dell’Italia unificata. Nuovo, quel braccio politico, per modo di dire: nuovo ed antico. Nuovo, e importante, perché implica il superamento del negazionismo intransigente dello Stato liberale, contestato e vilipeso per quasi mezzo secolo, perché sottrattosi nella sua genesi risorgimentale alla volontà della Chiesa Romana - abituata col Papa - Re e coi Vescovi-Principi e Conti ad essere Stato e a far politica in proprio; antico e radicato perinsediamento, ‘popolare’ come forse nessun potere civile  ha saputo essere.

Appena  dieci o  quindici anni prima, dire ‘democrazia cristiana’ appariva un’infamia lessicale e  un ossimoro;  adessol’ossimoro è un altro. Chi  chiama alle libertà politiche  e alla partecipazione, non è lui stesso libero di sé, in ultima analisi, poiché nutrito e educato alla diversità, uomo in divisa incapsulato e che  si riconosce in una gerarchia, che deve a priori servitù a dogmi e poteri superiori ed extra-politici. Niente - è vero - può sminuire la rottura storica consentita e avviata da quel piccolo prete, per giunta meridionale, il siciliano don Luigi Sturzo; è l’uscita guidata dal silenzio storico di masse di milioni di uomini e l’entusiasmo della riconquista della patria guelfa da parte di uno stuolo di sacerdoti di città e campagna, una nuova generazione di giovani capi – religiosi, culturali, sociali, e nel dopoguerra anche politici -, e più cappellani che parroci: aprono e dirigono le sezioni del Partito Popolare, animano i contadini a rivendicare giustizia e miglioramenti sociali, danno coscienza di sé ai lavoratori, lanciano una folla di amministratori e di parlamentari.

Può darsi che in un’Italia ‘paese del Papa’ una mobilitazione legittimata e guidata dall’alto – parrocchia per  parrocchia – e mediata da simboli, luoghi e personaggi tradizionali, fosse l’unica o la più logica maniera per spostare comportamenti e convincimenti. ‘L’ha detto Don Odino!’- vale prima e vale dopo, per conservare e per innovare. Ma l’ossimoro - l’angoscioso ossimoro e cul-de-sac - sta in questo: che il PPI nasce subito grande e radicato, pronto per andare al potere, ma appena il Papa… fa un fischio, il leader nazionale del Partito si ricorda quello che primariamente è, un sacerdote; e - prigioniero del suo congenito dualismo - si piega.

La diplomazia vaticana ha deciso: per gli interessi della Chiesa meglio un socio ateo conclamato e opportunista senza princìpi come Mussolini che un‘Italia concorrente e, per quanto flebilmente, laica. Obbligo dunque per i credenti, e a maggior ragione i preti - senza tante storie - di immediata conversione a U. Don Sturzo si salvi pure l’anima andando in esilio, con due o tre dei suoi giovanotti, e De Gasperi si chiuda in biblioteca: forse sì o forse no - si vedrà - torneranno buoni in futuro. Gli altri, intanto, trangugino tutto, si facciano andar bene quel che passa il convento, l’Uomo della provvidenza. Parafrasando una famosa espressione: è l’Italia, bellezza.

Per esser giusti e articolare maggiormente il quadro: don Sturzo, per i suoi personali vincoli di obbedienza, con quasi tutti i suoi capitani e tenenti nelle infrastrutture del mondo cattolico, subisce il diktat pontificio e contribuisce a mandare a sbattere il Paese; ma dall’amore per il popolo, i bisogni di giustizia sociale, le ansie e gli assoluti dell’utopia cristiana, nascono anche uomini come Guido Miglioli, ala sinistra del Partito Popolare, "Bolscevico bianco", come in male e in bene lo si è potuto definire. “Avanti o popolo, con fede franca/ bandiera bianca, bandiera bianca /Avanti o popolo, con fede franca /bandiera bianca trionferà”- diceva l’inno mimetico da lui composto e fatto cantare nel 1919.

Proprio con questo titolo - Bolscevico  bianco, nella sua lunare lontananza dall’oggi – conclude una lunga ricerca Claudia Baldoli, in un libro recente, “Fra Cremona e l'Europa (1879-1954) (ed.Morcelliana). Suggestiva lettura di un itinerario cattolico di sinistra che si spinge sino agli anni Cinquanta, nel secondo dopoguerra. Diciamo ancora che Miglioli fa capo a Cremona; e fra guerra e dopoguerra Cremona – burrascoso crocevia politico - è già la città di Bissolati e la città di Farinacci. Il socialista riformista muore nel 1920, già l’anno prima liquidato politicamente, anche dal suo  discepoloribelle, ora  in  camicia nera ; attorno a Miglioli, i fascisti fanno terra bruciata, inibendogli la vita in città. Così l’eccezionale triade dialettica si dissolve, e Cremona diventa per venticinque anni la città del ras fascista più polemico e rissoso.

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