SOCIETÀ

I videogiochi sono politica: intervista a Matteo Bittanti

15 marzo del 2019, Christchurch in Nuova Zelanda: avvengono due sparatorie in altrettante moschee della città. I morti sono 51, i feriti 40. Si tratta di uno degli episodi più violenti della storia neozelandese recente e una recente analisi di due studiosi ne ha sottolineato l’aspetto di gamification (ludicizzazione). Branton Tarrant, l’autore delle aggressioni, ha trasmesso tutto in diretta su Facebook in un un video che ricorda da vicino l’esperienza che si può avere in un first person shooter, uno sparatutto in prima persona, cioè quei videogiochi in cui chi gioca interpreta un personaggio impegnato a uccidere orde di nemici, siano essi mostri come per esempio nella serie Doom o nazisti come nella serie Wolfenstein

La realtà che imita i videogiochi, quindi? Sarebbe facile bollare episodi simili come una degenerazione del rapporto tra videogiocatori e realtà, ma sfogliando Reset. Politica e videogiochi, il volume da poco uscito per Mimesis editore, in realtà si capisce presto che bisogna scavare più in profondità. Non basta, infatti, trovare parallelismi tra le meccaniche di popolari videogiochi ed eventi tragici come il massacro di Christchurch e farne seguire un allarme che si trasforma velocemente in titoli giornalistici che condannano i videogiochi come la causa della violenza. Certo, come ricorda il curatore del volume, Matteo Bittanti, nella sua introduzione la tecnologia non è mai neutra. Anzi, bisogna allargare lo sguardo: “il ludico non è neutrale, il ludico è politico”. Perché se non vale in una direzione, la semplificazione non vale nemmeno nell’altra e non ci si può nascondere dietro una frase come “è solo un gioco”. Ecco quindi il senso più profondo di un settore di studio e ricerca, i games studies, e di una raccolta di saggi come Reset che indaga espressamente il rapporto tra videogiochi e politica.

Il ludico non è neutrale, il ludico è politico Matteo Bittanti

Videogioco come addestramento

Pensando a Tarrant e agli altri aggressori armati della storia recente, verrebbe da pensare che per loro i videogiochi, e in particolare gli sparatutto in prima persona, sono stati una sorta di palestra. Ma lo stesso, scavando, si potrebbe dire di un videogioco apparentemente innocuo come Candy Crush. Nelle sue varie incarnazioni consiste sempre di una meccanica da puzzle in cui dobbiamo creare tris di caramelle fino a raggiungere a completare il livello. Ma gli obiettivi sono “ordini” da evadere, come se chi gioca fosse alla catena di montaggio di una fabbrica. Candy Crush è politico perché incarna appieno l’ideologia capitalistica. Ma si può andare ancora più a fondo. Chi gioca si impegna a pigiare tasti su di uno schermo di uno smartphone in un parallelismo con quello che milioni di persone fanno per lavoro di fronte ad altri schermi: Candy Crush come allenamento alienante in cui anche il tempo libero, i cinque minuti di relax di una partita, diventano funzionali al capitale. E ancora: non riuscire a raggiungere un obiettivo porta al “fallimento” del livello, perché non si sono evasi tutti gli ordini previsti: Candy Crush come incarnazione di una logica performativa tipica della società capitalista?

Ma se i videogiochi hanno un rapporto così stretto con la politica, in tutti i sensi, perché sono così spesso ignorati oppure trattati dai media mainstream con superficialità? Raggiunto via email, Matteo Bittanti, ci ha scritto che “studiando e insegnando media studies da molti anni, ignoro deliberatamente il giornalismo mainstream - quotidiani, telegiornali, network etc. - in quanto producono informazione di bassa qualità. Sono, a tutti gli effetti, armi di distrazione di massa. Non sono inutili, bensì dannosi, in modo analogo in cui alimenti altamente lavorati, ricchi di coloranti e conservanti, nuociono alla salute”. Reset è quindi una raccolta di studi sui videogiochi che è rivolta, oltre che agli studiosi del settore, a “un lettore disposto a mettersi in gioco e a riflettere sul mondo in cui viviamo” e “non è un libro sui videogiochi né, tanto meno, contro i videogiochi”.

 

All’assalto del Campidoglio

Uno degli episodi più evidenti dello stretto rapporto tra gioco e politica è stato la presa del Campidoglio da parte sostenitori di Donald Trump il 6 gennaio del 2021. Sono gamer e fanboy che escono dalle chat e dai forum online per un’azione eclatante, che mostra come - per parafrasare le riflessioni dello studioso di etica di Internet Luciano Floridi - non esista distinzione tra vita analogica e videogame, tra offline e online. Un episodio, quello dell’alt-right che penetra nei luoghi istituzionali della politica formale americana, che spinge immediatamente a pensare al collocamento di queste comunità nello spettro politico. Come ha sottolineato Alfie Bown, studioso di videogiochi citato da Bittanti nell’introduzione di Reset, è un fatto che pone direttamente alcuni interrogativi alla sinistra: “se Trump è saldamente collocato a destra mentre l’OMS esemplifica il centrismo normativo, c’è un aspetto del videogioco che dovrebbe preoccupare la sinistra progressista”.

Se Trump è saldamente collocato a destra mentre l’OMS esemplifica il centrismo normativo, c’è un aspetto del videogioco che dovrebbe preoccupare la sinistra progressista Alfie Bown

Molte comunità online di gamer sono collocate a destra, spesso estremamente a destra, e c’è un problema anche razziale nell’industria e nella comunità dei videogiocatori. I videogiochi appaiono quindi come un settore conservatore, mentre pare che la sinistra se ne tenga a distanza, nel bene e nel male. “Fermo restando che il ludico è politico perché la politica pervade ogni aspetto della nostra esistenza, più che videogiochi di destra e di sinistra, credo che sia più utile riflettere sulle ragioni per cui un certo tipo di utenza predilige un certo tipo di videogiochi”, afferma Bittanti. “Si potrebbe riflettere anche sull’ideologia sottesa alle specifiche meccaniche di determinati videogiochi nonché alle preferenze dei fans, così come è importante chiedersi chi e perché guida un mezzo di trasporto privo di senso come il SUV. Nel suo libro Contro la vostra realtà, Angela Nagle ha ricostruito le guerre culturali degli anni dieci del ventunesimo secolo prendendo in esame l’ideologia di 4chan e quella antitetica di Tumblr: è possibile ravvisare la medesima dicotomia nel contesto videoludico, nel quale si contrappongono in forma spesso violenta espressioni fasciste e libertarie versus principi neoliberisti”.

 

Videogiochi e geopolitica

Allargando lo sguardo alla storia dei videogiochi è facile individuare quali siano stati fino a pochissimo tempo fa i grandi centri di produzione: gli Stati Uniti e il Giappone. Dagli anni Settanta fino a qualche anno fa, erano questi due paesi, in una sorta di duopolio culturale ispirato al liberismo consumistico, a produrre quasi tutti i videogiochi, e sicuramente tutti i videogiochi più importanti. Oggi c’è un altro grande paese che si sta affacciando sul mercato mondiale, con intenti molto concreti di imporsi come grande polo produttivo: la Cina. Per capire come sta cambiando la geopolitica dei videogiochi, secondo Bittanti, basta guardare come ha reagito l’establishment politico statunitense a TikTok. “I videogiochi, al pari delle piattaforme di social media, sono straordinari catalizzatori di attenzione nonché strumenti privilegiati di sorveglianza e controllo sociale”, spiega. “Non si dovrebbe tuttavia pensare solo al videogioco in quanto oggetto e artefatto, ma al videogioco in quanto ideologia, a dispositivo disciplinante, a strumento soggettivante. Si pensi alle ramificazioni tossiche della ludicizzazione che rappresenta l’espressione “giocosa” del neoliberismo. Ogni ambito dell’esistenza è stato ludicizzato: il fenomeno è generalmente accolto come positivo e/o inevitabile. Non c’è stata coercizione, ma seduzione”.

Per rimanere all’ambito nostrano, e sottolineare come leggere i games studies sia oggi più che mai importante per comprendere la politica, basterebbe pensare al pensiero politico dell’attuale presidente del Consiglio italiano. Giorgia Meloni ha sempre sottolineato il ruolo fondamentale che hanno avuto sulla sua formazione i romanzi e l’universo inventato da J.R.R. Tolkien. Un universo sfruttato per narrazioni fortemente ideologiche, ma anche per la costruzione di giochi (di ruolo) e videogiochi che, dopo aver letto Reset, non possono non essere considerati anche come strumenti di formazione politica e ideologica, con un forte rapporto con la propaganda e con quella ludicizzazione che Bittanti ha costantemente indicato come uno degli aspetti più politici del presente. Lo metteva in luce poco prima della sua elezione Michel Guerrin su LeMonde: “Per Giorgia Meloni, Il Signore degli Anelli non è solo un romanzo amato ma un'agenda”.

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