CULTURA

Vite di videogiochi (a 8 bit): intervista a Ivan Venturi

Un ciclone. Verrebbe da dire che è un ciclone, non fosse che dove passa con la sua energia e la sua creatività Ivan Venturi non lascia il caos, ma ogni cosa si posa con una certa grazia in una serie di progetti concreti. Certo, con tutta quell’energia non può portarne avanti uno alla volta. Solo in questi ultimi mesi ci sono da registrare l’avventura spaziale Haunted Space (“completamente finanziata con le criptovalute”), lo sviluppo del videogioco di Dragonero in collaborazione con l’editore di fumetti Sergio Bonelli e l’impegno con la sua IV Productions nella formazione dei game producer del futuro in un percorso formativo alternativo a quello universitario. Senza dimenticare lo sforzo della Bologna Game Farm, un progetto di sostegno attraverso un bando (di cui è appena uscita la nuova edizione) per sostenere le  produzioni videoludiche. E chissà quante altre iniziative ci ha elencato, ma non abbiamo avuto la velocità sufficiente per appuntarci, come se a un certo punto la nostra RAM giornalistica si fosse saturata.

L’occasione per chiacchierare con uno dei pionieri del settore dei videogiochi è la pubblicazione di un libro, scritto dallo stesso Venturi, che si intitola Vita di videogiochi. Memorie (a 8 bit) di Ivan Venturi. Si tratta di un’autoproduzione già uscita nel 2016 e ora tornata di nuovo a disposizione in una extended play con delle aggiunte rispetto alla prima edizione ormai introvabile. Si tratta di un volume importante per il settore italiano dei videogiochi, perché mentre l’industria a livello mondiale sta continuando a macinare numeri da capogiro e ha superato per valore economico quella del cinema, molta della storia dei suoi protagonisti è ancora relativamente poco esplorata. Queste memorie hanno soprattutto un merito: ricordare la vicenda fondamentale della prima software house italiana, Simulmondo, a cui Ivan Venturi ha dato un contributo decisivo.

Tutto inizia con un videogioco sulle… bocce!

L’humus su cui cresce il primo germoglio dell’industria videoludica italiana è la Bologna di fine anni Ottanta, una città in pieno fermento per la grande quantità di menti creative che vi gravitavano attorno. “Era una roba incredibile”, racconta Venturi, “sembrava una piccola Londra dove c’era tutto quello che un ragazzo potesse desiderare”. Iniziative artistiche, voglia di sperimentare, il DAMS di Umberto Eco, la musica underground e non solo, i fumetti e un sacco di locali in un clima in cui “il weekend cominciava il martedì!”. Nel cuore dell’Emilia Ivan Venturi si appassiona ai videogiochi ma non si limita a giocarli: vuole farli. In quel frangente hanno un ruolo fondamentale le riviste specializzate che si rivolgevano agli utenti della galassia di console a 8-bit che erano da poco arrivate in Italia e poi al Commodore 64, un computer destinato a essere fondamentale per la storia dei videogiochi. Su quelle riviste, oltre alle recensioni e alle notizie, si pubblicavano anche listati di codice che chiunque poteva copiare pazientemente. In pratica, potevano costituire la base per l’autoformazione dei primi sviluppatori di videogiochi.

 

Proprio una rubrica di una rivista, MC Microcomputer, ha un ruolo decisivo nella nascita della prima software house italiana. L’autore è Francesco Carlà, giornalista specializzato nelle novità tecnologiche. Venturi e Carlà entrano in contatto: il primo, adolescente, stava provando a realizzare le proprie intuizioni creative sotto forma di videogiochi, il secondo, di una decina d’anni più vecchio, ha la visione d’insieme e l’esperienza per poter dare i consigli giusti. È l’inizio di una collaborazione che nel giro di pochi anni porta alla nascita di Simulmondo. E Bocce per Commodore 64, scritto e sviluppato da Ivan Venturi è uno dei primi titoli a essere pubblicato: “volevamo una simulazione sportiva che fosse sinonimo di italianità, ma allo stesso tempo originale”. È il 1987.

 

Il successo

Dopo il tentativo di una simulazione calcistica simil-3D di Italy Soccer ‘90, “una roba molto avanti sui tempi”, e altri giochi che fanno notare il nome di Simulmondo, il successo vero in termini di numeri arriva con i videogiochi con protagonista Dylan Dog dei primi anni Novanta. Il personaggio, o l’IP (Intellectual Property, come si dice oggi nel gergo del settore), era una garanzia. “Credo che l’albo in edicola vendesse forse un milione di copie”, ricorda Venturi a proposito di quello che è stato a tutti gli effetti un enorme fenomeno culturale tutto made in Italy. 

 

Ma il videogioco di quel periodo a cui Venturi è più legato è un’altro, F.1 Manager per Commodore 64 pubblicato nel 1989. “È probabilmente il gioco migliore che abbia mai fatto”, confessa. “L’ho fatto completamente da solo partendo da zero” e vendette circa 45 mila copie, cosa che lo ha reso una specie di colossal dell’epoca. “Ancora oggi incontro persone che mi raccontano di quanto hanno giocato a quel gioco: è una bella sensazione”. Ma è anche la realizzazione di un sogno. In un periodo in cui in Italia i videogiochi li facevano gli appassionati per hobby, Venturi non ha nemmeno vent’anni e la volontà di creare videogiochi perché gli piace, perché si diverte nel farlo, ma anche perché ne vuole fare un lavoro. E in quello spicchio di storia a cavaliere tra i due decenni ci riesce. Certo, “si lavorava tantissimo, 12 ore al giorno, tutti i giorni”,  ma fare videogiochi era davvero diventato un lavoro.

 

Dopo Simulmondo

L’azienda bolognese ha vissuto un decennio, o poco più, di grande fervore, dimostrando che era possibile trovare un proprio mercato, oltre la forza dei colossi americani o giapponesi che già all’epoca dominavano il mercato. Per Venturi, ci sono stati errori imprenditoriali, come distribuire i videogiochi in edicola e limitarsi al mercato italiano, che hanno forse accelerato la fine di Simulmondo, ma anche un ambiente italiano allora “retrogrado”, anche sul fronte dell’imprenditorialità. Ivan Venturi ha continuato a sviluppare videogiochi, anche se oggi non scrive più tanto codice, ma si dedica soprattutto all’attività di game director, la figura responsabile degli aspetti creativi di una produzione. Ma la passione non è mai diminuita, tanto che “nel tempo libero faccio videogiochi, senza pensare al mercato, ma per il divertimento di farlo”.

Nel corso degli anni ne ha realizzati tantissimi, ma non ha mai avuto la tentazione di andare all’estero, dove un talento come il suo avrebbe potuto facilmente trovare una collocazione in qualche grande software house. “Ne ho avuto l’occasione in passato”, confessa, “ma non mi sono mai riuscito a vedere lontano dalla mia Bologna, magari a lavorare in un capannone anonimo sperso nel nulla”. Ancora l’amore per la sua città, il luogo che lo ha visto crescere e diventare un professionista del settore, e che è stata anche la casa della prima software house italiana. 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012