SCIENZA E RICERCA

Viticoltura: una storia lunga 11 mila anni su cui oggi impatta il cambiamento climatico

La vite è una pianta molto sensibile al clima e il riscaldamento globale ha già cominciato a modificare la geografia delle produzioni vitivinicole, con effetti negativi su tanti territori tradizionalmente vocati e inaspettate opportunità per aree che in passato erano troppo fredde per poter ospitare vigneti.

Il complesso viaggio di questa pianta parte da lontano, così come i tentativi di decifrare come, quando e dove sono state addomesticate le viti da vino e da tavola. Alcune risposte a queste domande di lunga data sono adesso arrivate da uno studio, di recente pubblicato dalla rivista Science che gli ha dedicato anche la copertina.

Si tratta di un lavoro corposo, frutto di un'ampia collaborazione internazionale a cui hanno preso parte ricercatori provenienti da 17 paesi: gli autori hanno esaminato i genomi di migliaia di viti raccolte da tutta l’area terrestre eurasiatica e hanno scoperto che il primo addomesticamento delle uve selvatiche sarebbe avvenuto circa 11 mila anni fa, al termine dell’ultima era glaciale, dunque in concomitanza con l’avvento dell’agricoltura e ben 4000 anni dopo rispetto a quanto ritenuto da alcuni precedenti studi. Il vino sarebbe insomma più giovane. 

Ma l’aspetto più sorprendente emerso dalla ricerca è che in realtà gli eventi di addomesticamento, su diversi lignaggi dell'uva selvatica, sarebbero stati due: uno nella regione del Caucaso, che comprende l'odierna Armenia, Georgia e Azerbaigian, e uno nell'Asia occidentale. Le domesticazioni, in regioni che distano circa 1000 chilometri l’una dall’altra, sarebbero avvenute all'incirca nello stesso periodo e una possibile spiegazione, secondo gli autori della ricerca, può essere individuata nelle migrazione umana o negli scambi culturali.

Per eseguire questo lavoro, guidato dall’università di Yunnan (Cina) e dal Laboratorio di genomica vegetale di Shenzhen (Cina), con la collaborazione italiana delle università di Milano, Milano-Bicocca e di Reggio Calabria, e dell’Istituto di bioscienze e biorisorse (Cnr-Ibbr) di Palermo, i ricercatori hanno sequenziato il genoma di 3.500 viti raccolte da tutta l’area terrestre eurasiatica e hanno comparato il DNA di questi campioni con quello del progenitore della vite selvatica Vitis sylvestris. Nella costruzione di questo enorme set di dati - parliamo della più grande analisi genetica mai realizzata sulla vite - gli autori hanno incluso anche varietà antiche e locali e sono riusciti a scoprire che le domesticazioni sono avvenute al termine dell'ultima era glaciale, quando condizioni climatiche più miti e più stabili all'inizio dell'Olocene hanno facilitato l'agricoltura. 

Lo studio mette dunque in discussione le conclusioni di precedenti lavori sia posticipando l'inizio in cui i nostri antenati hanno cominciato a coltivare la vite, sia mostrando che nel lungo processo di diversificazione della Vitis Vinifera la domesticazione avvenuta nel Caucaso ha avuto una diffusione minore e un'influenza ridotta rispetto a quella che si è originata nel vicino Oriente. La vite dell'Asia occidentale in un primo momento sarebbe stata selezionata come fonte di cibo, per produrre quella che oggi definiamo uva da tavola, e sarebbe poi in seguito stata mescolata con uve selvatiche locali più adatte alla vinificazione: l'aumentare delle migrazioni dei gruppi umani e delle loro viti, anche attraverso rotte di scambio che andavano via via consolidandosi, avrebbe portato a ulteriori diversificazioni delle varietà di uva corrispondenti alle quattro principali linee di vite che iniziarono ad essere coltivate in Europa.

Come scrive in un approfondimento su Science Robin G. Allaby, professore dell'università di Warwick, "sebbene l'addomesticamento del Caucaso meridionale sia associato alla prima vinificazione, l'origine del vino nell'Europa occidentale è associata alla fecondazione incrociata (introgressione) tra le popolazioni selvatiche dell'Europa occidentale e le uve domestiche originarie del Vicino Oriente che erano inizialmente utilizzate come fonti alimentari". Un altro aspetto affascinante emerso dalla ricerca è che il continuo reincrocio con varietà selvatiche locali ha probabilmente reso le viti più resistenti alle malattie e più tolleranti agli stress idrici, ma al tempo stesso anche meno idonee per usi diversi dalla vinificazione. Questi adattamenti, indispensabili in risposta alle condizioni climatiche delle zone più aride, avrebbero quindi fatto acquisire più rilevanza alla produzione del vino in alcune zone di espansione umana. 

E con i cambiamenti climatici di oggi?

Come abbiamo visto le origini della coltivazione della vite sono state modellate dal cambiamento climatico alla fine del Pleistocene e dalle successive migrazioni umane. Ma cosa succederà al vino adesso che il riscaldamento climatico sta già cominciando ad impattare sul settore? Al tema è dedicato un ampio approfondimento pubblicato di recente su Current Biology e in cui si fa il punto sulla situazione attuale, con il riferimento ad alcuni studi che hanno messo in rapporto i dati sui raccolti  e i dati meteorologici oppure hanno modellato la risposta di alcune cultivar di uva da vino comunemente utilizzate a diversi scenari di aumento delle temperature, ma si analizzano anche possibili strategie di adattamento. 

"Associamo i vini di oggi alla metà meridionale più soleggiata dell'Europa, così come alle regioni del Nuovo Mondo che possono offrire un clima simile al Mediterraneo. Tuttavia, a causa degli impatti del cambiamento climatico le zone ottimali per la viticoltura stanno iniziando a spostarsi verso i poli", scrive Michael Gross.

Uno studio pubblicato nel 2016 su Nature Climate Change dal climatologo Benjamin Cook della Columbia University di New York e dall'ecologa Elizabeth Wolkovich dell'Università di Harvard, aveva analizzato i dati sui raccolti di oltre 400 anni, dal 1600 al 2007, in diverse regioni della Francia e della Svizzera, insieme a i dati meteorologici. A partire dal 1980 il cambiamento climatico era diventato evidente nei grafici e tutte le vendemmie avevano iniziato a mostrare un anticipo rispetto alla data media storica. Più recentemente, Ignacio Morales-Castilla dell'Università di Alcalá, in Spagna, e colleghi tra cui Wolkovich hanno modellato la risposta di 11 cultivar di uva da vino comunemente utilizzate al cambiamento climatico, considerando lo scenario in cui si riesca a mantenere l'aumento delle temperature sotto i due gradi e quello in cui invece si arrivi a quattro gradi. 

Il modello suggerisce che, se i viticoltori continuassero la loro attività come al solito, coltivando le stesse cultivar nelle stesse località, perderebbero il 56% delle attuali aree viticole nello scenario a due gradi e l'85% in quello in cui l'aumento delle temperature dovesse raggiungere i quattro gradi. Il passaggio a varietà di cultivar più adatte alle nuove condizioni potrebbe contenere le perdite ma "i potenziali di adattamento forniti dalla biodiversità esistente raggiungono i loro limiti se gli sforzi per frenare il cambiamento climatico non riescono a raggiungere l'obiettivo dei due gradi", osserva Michael Gross aggiungendo che "se l'adattamento in situ fallisce la coltivazione della vite sarà semplicemente costretta a spostarsi a latitudini e/o altitudini più elevate". E molti viticoltori dovranno trasferirsi di nuovo, come facevano i primi agricoltori e viticoltori che si adattavano e si muovevano con il tempo.

Abbiamo affrontano questi temi insieme ad Andrea Pitacco, docente del dipartimento Dafnae dell'università di Padova, in un'intervista che parte dalle ultime scoperte rese possibili dalla più vasta analisi genetica mai condotta sulla vite per arrivare poi agli impatti del cambiamento climatico e alle possibili soluzioni per proteggere questa coltura dalle alte temperature e dalla carenza idrica. 

"Non riesco a nascondere una mia personale preoccupazione perché l’accelerazione del cambiamento climatico è oggettiva e incontestabile e noi non abbiamo una capacità di adattamento altrettanto rapida. Ci sono interventi sul breve periodo per parare il colpo davanti alle anomalie meteorologiche e ci sono strumenti da impiegare nel medio-lungo periodo. Tra i primi la leva più importante non può che essere l’irrigazione: l’acqua è lo strumento con cui la pianta termoregola ed è lo strumento con cui il coltivatore può aiutare la pianta a termoregolarsi. A breve secondo me non potrà essere evitato il ricorso quantitativamente sempre più importante all’irrigazione in viticoltura. Poi c’è da lavorare sulla biodiversità: è noto che un sistema più biodiverso è più resiliente", spiega Pitacco. 

Intervista al professor Andrea Pitacco del dipartimento Dafnae dell'università di Padova. Servizio, riprese e montaggio di Barbara Paknazar

La domesticazione delle viti da vino e da tavola

"Fino a pochi anni fa si conosceva più del vino che della vite e si è risaliti a quello che succedeva nel Neolitico guardando già ai risultati enologici della coltivazione della vite. Lo studio da poco pubblicato su Science riguarda fasi precedenti e ricostruisce quello che accadde durante il Pleistocene cercando di risalire a quella che è stata la storia di Vitis vinifera sylvestris, il progenitore non ancora addomesticato della vite che ha origine nell’area del Caucaso e dell’Armenia ma poi si suddivide in due filoni: uno resta localizzato nel territorio del Caucaso e dell’Anatolia e uno invece irradia verso ovest formando le basi genetiche della Vitis vinifera sylvestris più occidentale ed europea, quindi anche italiana, francese e iberica", introduce il professor Andrea Pitacco.

Durante il Neolitico l’uomo inizia ad applicare tecniche di miglioramento genetico e di selezione, spingendo verso alcuni tratti specifici come l'ermafroditismo che rende più facile la produzione senza la necessità di piante maschili. "Le due linee così si separano: una resta quella orientale e tuttora mantiene una elevatissima biodiversità, l'altra è quella che si è mossa verso ovest e ha formato la base della viticoltura europea moderna".

Cambiamenti climatici: la viticoltura come caso di studio 

La vite ha accompagnato l'uomo lungo la rotta delle migrazioni sin da tempi molto remoti ma adesso il rischio è di dover spostare i vigneti dalle aree in cui sono tradizionalmente più radicati e in cui hanno assunto un valore rilevante anche dal punto di vista economico, oltre che sociale e simbolico. 

L'aumento delle temperature e la scarsità di precipitazioni stanno cambiando radicalmente il mondo della viticoltura: in mezzo secolo la data della vendemmia ha subito un anticipo di circa un mese e per un processo delicato come è quello della produzione del vino le conseguenze sono rilevanti perché spesso la maturazione precoce delle uve è adeguata solo a livello zuccherino, ma non lo è nella componente fenolica. 

"Osservare quello che sta succedendo alla vite e al vino offre anche l’occasione di capire cosa può succedere a tutta l’agricoltura. I primi timori sono emersi una trentina di anni fa, prima che l’IPCC certificasse quello che stava succedendo: il fatto che le maturazioni e le vendemmie fossero gradualmente anticipate è qualcosa che il viticoltore sa da molti anni. Nei primi anni ’60 la vendemmia era all’inizio di ottobre, oggi è anche 30 giorni prima", osserva il professor Andrea Pitacco.

I dati sulle serie storiche delle vendemmie si sviluppano nell'arco di diversi secoli e la loro analisi è stata utile anche ai climatologi per interpretare il cambiamento climatico. "Oggi siamo ad un nodo perché la viticoltura si è anche organizzata molto precisamente sul territorio nei diversi continenti in una strutturazione che è anche molto radicata culturalmente e amministrativamente. Negli ultimi anni ogni estate è stata una nuova prova e l’estate del 2022 è stata davvero estrema. Questi impatti stanno un po’ alla volta scardinando un assetto che si era trovato nel corso dei secoli", continua il docente del dipartimento Dafnae dell'università di Padova.

Verso una riscoperta della varietà tardive che in passato erano state scartate

Nel 2022 l'Italia ha mantenuto il primato globale nella produzione di vino, con oltre 50 milioni di ettolitri e la regione in cui si producono le quantità maggiori è il Veneto con circa 11 milioni di ettolitri. "Se il Veneto fosse considerato singolarmente sarebbe il quarto o quinto produttore al mondo", fa notare Pitacco aggiungendo però che proprio i vini più caratteristici di questa regione "sono particolarmente a rischio come tenuta della loro fisionomia storica. Vini leggeri, freschi che hanno una certa acidità brillante e accattivante sono oggi messi in crisi dall’aumento delle temperature e da un regime di precipitazioni che sta traballando".

L’uomo negli ultimi secoli ha implicitamente selezionato uve che avessero il carattere della precocità. "Oggi invece ci rendiamo conto che queste varietà così precoci non sono certamente le più adatte a sostenere questo diverso contesto climatico perché uve che maturano ad agosto non arrivano ad avere una complessità adeguata. L’uva non è semplicemente acqua e zucchero e il vino non è semplicemente acqua e alcool: uva e vino devono avere una serie di composti secondari che determinano la ricchezza organolettica e quindi anche il valore commerciale. Uve estremamente precoci, come accade oggi, implicano una perdita di quella complessità di colore, tannini, astringenza e acidità che ha fatto la qualità dei nostri vini storici", approfondisce Pitacco

Una possibile risposta può arrivare da un recupero di varietà che nel secondo dopoguerra erano state scartate perché non avevano i requisiti dell'agricoltura moderna ma che potrebbero resistere meglio a temperature più elevate e allo carenza idrica. A proposito di acqua il docente del dipartimento Dafnae dell'università di Padova ricorda che fino a pochi anni fa "la viticoltura in regioni come il Veneto non era considerata una coltura irrigua, lo era nel nostro meridione ma anche lì si irrigava poco. Oggi per cercare di mantenere gli standard qualitativi che il mercato richiede sarà inevitabile ricorrere all’irrigazione".

"Poi c’è da lavorare sulla biodiversità: è noto che un sistema più biodiverso è più resiliente. Noi veniamo da una fase di miglioramento genetico dal secondo dopoguerra in cui abbiamo semplificato la piattaforma varietale, spingendola verso risultati qualitativamente interessanti ma adeguati alle condizioni climatiche di 30-50 anni fa, non a quelle attuali. Dobbiamo cercare di tornare indietro il più rapidamente possibile e guardare a tipi, a biotipi, a varietà più tardive che negli anni ’50 e ’60 erano state scartate volontariamente e cercare di ricostituire una piattaforma ampelografica possibilmente più resiliente. Oltre al recupero della biodiversità naturale esiste anche la strada del miglioramento genetico ma ha tempi abbastanza lunghi, almeno quello tradizionale. Le tecniche più innovative possono avere tempi più accelerati ma non sono ancora del tutto sdoganate dalla normativa e in ogni caso è richiesto davvero un cambio di paradigma e dobbiamo sterzare verso varietà e tipi che alcuni anni fa venivano scartati e trascurati", spiega il professor Pitacco.

"Attualmente tanti gruppi di ricerca sono interessati al recupero di varietà esotiche: la Grecia ad esempio dispone di alcune varietà fortemente tardive, come lo Xinomavro, che oggi sono studiate in Francia per cercare di comprendere come queste vecchie uve esprimessero dei caratteri di tardività. Questi caratteri vanno capiti ed eventualmente introdotti, se possibile, nelle varietà più tradizionali e storiche. Non dimentichiamo che 12 varietà tradizionali coprono circa l’80-90% della produzione di vino: l’intero sistema vino mondiale si regge su un pugno di varietà. A fronte delle 3.000 varietà studiate nel lavoro di Science si può capire come ci sia un serbatoio bello grande da cui pescare. Bisogna però farlo in fretta per cercare di mettere in sicurezza un comparto che ha un notevole significato economico e anche sociale", conclude il docente. 

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