SOCIETÀ

What next? Ipotesi per il futuro di città e territorio: crisi ed opportunità, oggi e domani /2

Quali ipotesi per la città post-COVID-19?

Come si configurerà la citta dal 2021 in poi? Si può pensare che dopo due anni di repentino adattamento di popolazione e attività al nuovo regime della rarefazione, del distanziamento, dell’immobilità, dell’interruzione di ogni socialità, sia possibile tornare al precedente sistema cancellando questo evento e le sue conseguenze? O dobbiamo ipotizzare che questo evento segnerà una totale o parziale discontinuità con i modelli urbani precedenti e proporrà modelli coerenti con una tipologia di vita e di lavoro profondamente modificati dalla pandemia e dalle sue conseguenze, com’è avvenuto dopo le tragiche epidemie storiche periodicamente abbattutesi sui nostri territori? Le scelte che abbiamo fatto e stiamo facendo come cambieranno la vita nostra e dei nostri figli e nipoti?

Un autorevole storico, Yuval Noah Harari, autore di numerosi testi in cui già prima del 2019 venivano esplorate previsioni, timori, progetti alla ricerca di nuove formule per la salvezza del pianeta, se lo chiedeva in tempi non sospetti!

Tecnici, studiosi, politici, operatori in questi mesi ci hanno proposto riflessioni molto diverse e talora contrastanti, smentendo talvolta i loro stessi studi e progetti precedenti sulle prospettive per il futuro delle città. In particolare è attivo un interessante dibattito fra studiosi e operatori della progettazione architettonica e urbanistica su tre questioni significative, in merito alle azioni da porre in atto per assumere, sul futuro delle città, scelte responsabili. Tenterò di sintetizzarle qui di seguito.

Una prima questione: rinunciare alla città o difenderla?

Dilemma impegnativo e coinvolgente! I pessimisti (come lo scrittore francese Michel Houellebeque) sostengono che «il mondo dopo la pandemia sarà lo stesso, ma un po’ peggiore», ma non mancano anche coloro (come il canadese Greg Lindsay, direttore dell’Applied Research «New Cities») che pronosticano addirittura per la città un declino rovinoso.

Il pessimismo in realtà ha buone ragioni da addurre: eravamo già, e ancor più saremo al cospetto di una repentina crisi delle città come le abbiamo conosciute fino all’inizio del 2020. I grandi distretti degli affari sono stati completamente svuotati dallo smart working, e i loro grattacieli energivori e ambientalmente insostenibili, semivuoti, che per mesi svettavano in spazi rarefatti, stentano a ritrovare una loro identità plausibile, nonostante la vita urbana stia riprendendo i suoi ritmi ed i suoi riti. È possibile che a breve ci si ponga, in termini ancor più drammatici, lo stesso problema affrontato negli anni ’60-’80 con i grandi impianti industriali via via dismessi: cosa farne? come recuperarli? come trasformarli?

La prima risposta alla questione sulla possibile rinuncia a vivere nelle città, però, non può essere solo tecnica, ma deve essere soprattutto umanistica. Il nostro passato, e ancor di più il nostro futuro, sono fatti di città. Vale per il nostro Paese, che ne è particolarmente ricco, ma vale in generale per tutto il Continente europeo e per la nostra civiltà. Non possiamo rinunciare alla città e nemmeno alla “fortuita casualità” che va sotto il nome di “serendipity”, alla creatività che di questo contesto favorevole ha bisogno; all’interazione economica e sociale che si crea nella densità dell’ambiente urbano e che fa parte del nostro processo evolutivo, della nostra civiltà. Dunque la città andrà difesa, ma per difenderla andrà trasformata.

Non potremo e non dovremo favorire la fuga dalle zone più densamente abitate, né rinunciare a vivere, lavorare, studiare nelle aree urbane. Per difenderle, occorrerà andare oltre la “nuova normalità” post-COVID-19, non solo ricostruendo, ma ripensando la città, per ripensare anche la società. Riprogettandola, si dovrà curare che la sua tradizionale funzione di motore di sviluppo non coinvolga solo la componente economica, ma anche quella personale e umana, prendendo atto che “nessuno si salva da solo” e che la nostra ultima difesa, per la salvaguardia di tutti, è la forza della comunità, in un’ottica di città come “bene comune”, in grado di garantire ai propri abitanti i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione (come sostiene Salvatore Settis nel volume curato da Massimiliano Cannata «La città per l’uomo ai tempi del COVID-19», 2020).

Una seconda questione: come cambieranno o meglio come dovranno cambiare le città nel post COVID-19?

È chiaro che il virus comunque metterà in crisi, forse per sempre, il modello di vita urbano che abbiamo praticato fin qui e la città che abbiamo conosciuto fino a poco più di un anno e mezzo fa.

C’è una notevole concordanza sul fatto che occorrerà puntare su città più locali che globali, meno diseguali, più flessibili nelle forme e nel tempo, più capaci di adattamento alle mutabili condizioni che si presenteranno e che stentiamo a prevedere, più disposte a sperimentare soluzioni innovative, certamente più capaci di valorizzare lo spazio pubblico, la prossimità, lo smart working non solo per il lavoro, ma anche per la formazione, per le relazioni sociali, per la pratica della cultura e del tempo libero. Occorrerà far sì che le città diventino anche più inclusive e solidali.

Come farlo? Varie, e in parte contrastanti, le proposte dei tecnici – architetti, urbanisti, pianificatori, paesaggisti – sulle direzioni in cui muoversi. Ci si rende conto che, inevitabilmente, non sarà facile individuare anche solo degli orientamenti condivisi per dare ai politici delle linee strategiche sicure.

Certamente molti ritengono che la prima risposta da dare alla domanda di una città trasformata è il ribaltamento dello stereotipo, già molto discusso, che oppone centro e periferie, marca la differenza fra urbano e rurale, propone un approccio urbano-centrico. L’architetto Mario Cucinella, ad esempio, già proponeva di progettare «il centro in periferia», ovvero quartieri con tanti servizi, giardini, commercio e spazi per il co-working, che interpretino in modo nuovo il bisogno di terrazzi e aree pubbliche piacevoli e attrezzate. Questo orientamento, già presente nella domanda abitativa tradizionale, è oggi esaltato nella nuova ricerca di socialità sicura portata dalla pandemia. In questa ipotesi, alle città toccherà promuovere azioni di adattamento dello spazio, moltiplicando piste ciclabili, dehors, spazi pubblici, quei quartieri della fifteen minutes city in cui tutto ciò che ci serve sia raggiungibile in 15 minuti a piedi (come anticipato da Bertuglia, Greco e Vaio nella introduzione a questo dibattito il 22 febbraio 2021,), accelerando e rendendo durature soluzioni che già erano nell’aria così come sperimentazioni introdotte temporaneamente in questo ultimo anno e mezzo.

Non mancano però anche posizioni più estreme, sostenute da chi già prima della pandemia stigmatizzava le conseguenze dell’attuale malessere sociale e del collasso ecologico e soprattutto apprezzava le innovazioni consentite dagli sviluppi delle tecnologie informatiche. Su questa linea già nel 2019 la Mostra al Guggenheim Museum dedicata a «Countryside, The Future», curata da Rem Koolhaas, promuoveva l’opzione di una fuga dalla città e di un futuro da ricercare nella campagna. Oggi questa tesi appare rinforzata per effetto della necessità di diluire le relazioni sociali come misura di sicurezza. 

Certamente condividono questa opzione i sostenitori di futuri del tutto alternativi alla città come la conosciamo. Mi riferisco ai promotori delle “transistion towns”, centri abitati basati su un’esistenza “ecologica” che possa fare a meno del petrolio e dei suoi derivati, pensati e realizzati agli inizi del nuovo millennio dal designer Rob Hopkins (2004). L’elemento di forza di questi esperimenti, che hanno goduto di un temporaneo successo (a settembre 2013 si contavano 1130 iniziative in 43 paesi), è la messa in atto di buone pratiche quotidiane da parte dei cittadini, l’adozione volontaria di stili di vita sostenibili e la cooperazione fra persone, attraverso la creazione di reti di solidarietà che si attivino per il bene della città, secondo un progetto partecipativo. È evidente il carattere marginale e provocatorio di un esperimento come questo, ma fra i futuri possibili è utile richiamare anche questa utopia, oggi forse rivisitabile, che prospetta una transizione ecologica di grande attualità.

All’estremo opposto si colloca il pensiero di chi «ha passato la vita a progettare luoghi dove ci si confonde gli uni con gli altri, e dove si celebra il rito dell’incontro», come sostiene Renzo Piano (“Tutti in campagna”, su Robinson, supplemento di Repubblica del 19 novembre 2020), che per lunghi mesi ha visto, con rammarico e con rimpianto, questi luoghi ridotti alla chiusura e al silenzio. È evidente che chi ha progettato per una vita edifici e spazi per attrarre utenti e visitatori non può arrendersi alla necessità del diradamento. Se «vivere distanziati è vivere di meno», è duro rinunciare a una città fatta di luoghi dell’incontro, meglio adoperarsi – e su questo il consenso è ampio – per un mondo in cui siano evitati con saggezza tanto i centri congestionati quanto le periferie desolate, superando le dicotomie urbano-rurale, centro-periferia che favoriscono queste sperequazioni. E «questo mondo esiste già – dice Renzo Piano – basta progettarlo».

In questa linea si può collocare l’ipotesi intermedia che propone di ripensare la città riscoprendo la dimensione del borgo, dei piccoli centri, delle aree interne che costituiscono una risorsa trascurata di cui è costellato il territorio italiano, anche in prossimità delle metropoli e delle grandi città: un vero patrimonio territoriale del nostro Paese, da valorizzare e mettere a disposizione di chi vuole lasciare la pericolosa densità delle metropoli senza rinunciare al fascino dell’ambiente urbano. 

In numerose interviste e pubblicazioni i sostenitori di questa ipotesi (tra cui il più noto è Stefano Boeri) enfatizzano la necessità di venire incontro alla domanda di prossimità dei servizi al cittadino, emersa in occasione della pandemia, puntando sulle opportunità offerte da un sistema di borghi che soddisfi chi cerca di sfuggire alla alta concentrazione di popolazione, e nello stesso tempo consenta di recuperare un prezioso patrimonio di piccoli centri spopolati e talvolta abbandonati, dotandoli di servizi e di connessioni telematiche che li mettano in condizione di offrire una dimensione locale ma assimilabile a quella urbana. Puntare sulla riscoperta dei quartieri, su una mobilità leggera, su un nuovo rapporto tra residenzialità e spazi del lavoro, sulla migliore qualità di aria, verde urbano, servizi di vicinato può costituire una nuova strategia per il futuro di una città trasformata, basata su prossimità, sostenibilità, mobilità leggera. 

Sono stati improvvisamente e inopinatamente rilanciati, infatti, negozi di prossimità e servizi di quartiere; si è avvertita l’insufficienza dell’assistenza sanitaria di livello locale, sono diventati indispensabili spazi verdi anche di modeste dimensioni, piccoli parchi urbani, piazze. È anche questa la dimensione del “borgo in città” a cui fanno riferimento i progettisti come Stefano Boeri, che pensano al tragico evento della pandemia come una opportunità per ripensare al nostro rapporto con la vita urbana. 

È possibile dunque, scrive Stefano Boeri, pensare «a un patto, un’alleanza, un contratto di reciprocità tra città e sistema di borghi, per cui chi progetta di spostare la vita in un luogo diverso dalla città abbia la garanzia di essere all’interno di un circuito di economia circolare sull’agricoltura, la forestazione, il lavoro artigianale e il lavoro intellettuale legato alla grande città». 

E favorevoli a questa ipotesi non ci sono solo gli architetti, ma anche alcuni economisti, come Fabrizio Barca. Non sfugge però, a chi invita a lasciare la città per le aree interne e i borghi, il rischio che questa soluzione richieda interventi costosi, sia pubblici che privati, e che alla fine questi luoghi si trasformino in resort esclusivi per ceti sociali abbienti, come già è accaduto in alcune aree interne di prestigio. Per evitare ciò, occorrerebbe poter coinvolgere un mix sociale e generazionale, fino a prevedere, nelle utopie più estreme, anche soluzioni di insediamento di popolazione immigrata, nella linea del cosiddetto “modello Riace”.

Altri studiosi contestano del tutto le soluzioni che rinunciano a un futuro incardinato sulle città. Tra questi si colloca il sociologo Domenico De Masi che, pur rimarcando tutti i limiti del nostro modello socioeconomico annunciati già cinquanta anni fa dalle risoluzioni del famoso Rapporto del Gruppo di Roma sui “Limiti dello sviluppo”, evidenzia l’accelerazione che la pandemia ha prodotto nel rapporto tra tempo e spazio già introdotto da anni nella progettazione edilizia e urbana grazie alle tecnologie informatiche. Interrogandosi sugli effetti attuali e futuri dell’accelerazione prodotta dallo smart working (che prima della pandemia interessava 570 mila telelavoratori e durante il lockdown ben 8 milioni), De Masi conferma la sua nota tesi sui vantaggi portati dalla possibilità di sfruttare le opportunità offerte dal lavoro a distanza verso una «ricomposizione della vita urbana […]: vita e lavoro, lavoro e casa, casa e quartiere, quartiere e città» (webinar su Ascoltare l’Architettura, 8 giugno 2020: ). Grazie alla rivoluzione digitale, sostiene De Masi, si potrà concepire un diverso modello di città, di vita, di lavoro. Si aprono però inquietanti interrogativi sugli effetti connessi a questa rivoluzione tecnologica: come affrontare l’enorme costo fisico, economico, sociale che questa trasformazione repentina rischia di produrre? come farsi carico delle migliaia di metri cubi di uffici svuotati, dei milioni di posti di lavoro in mobilità, della diseguale distribuzione di questi effetti su luoghi, classi sociali, generazioni? Si prospetta, in questa ipotesi, una transizione non indolore!

Numerosi sono per contro, i professionisti della progettazione architettonica ed urbana (Carlo Ratti, ad esempio), che non credono all’effetto anti-urbano della diffusione delle tecnologie informatiche e alla preferenza dei cittadini per un’emigrazione in massa verso borghi e piccoli centri contando su un uso solo sporadico delle opportunità offerte dalle metropoli. Costoro sono convinti che le grandi città manterranno la loro attrattività e che la maggiore flessibilità offerta dalle nuove tecnologie digitali potrà essere sfruttata per lavorare sui loro punti di forza, inventando nuove soluzioni con cui evitare gli inconvenienti della congestione: ridurre i picchi del traffico, l’uso dell’energia, l’inquinamento ed usare in modo intelligente tutte le infrastrutture innovative per valorizzare la vita urbana rendendola effettivamente “smart”.

Ancora in questa linea si può richiamare la posizione di coloro che, come Cino Zucchi, riconoscono ai sistemi informatici il merito di fluidificare la vita e i rapporti sociali, ma ci sollecitano a cercare un equilibrio ragionevole fra l’eccesso nostalgico e la “tecnocrazia informatica”, ricordando che i tempi dell’architettura sono lunghi e il problema sta anche nel capire e pianificare i ritmi giusti di queste trasformazioni, perché “certamente non possiamo ricostruire la città ogni trent’anni”. 

In conclusione, mi sembra di poter trarre dagli stimoli che vengono dalla varietà di opinioni e posizioni sul futuro della città, una convincente lezione: è difficile capire come cambierà e ancor più è difficile pensare che si debba trovare un accordo generale su come potrà o dovrà cambiare, dopo la pandemia. Più ragionevole sarà restare aperti su ipotesi e percorsi diversi, progettando tanti futuri per la città, continuando a fare, confrontare, riprogrammare, sperimentare, usando la città “come qualcosa di fluido”. Probabilmente occorrerà rispondere alla crisi urbana con ripetuti tentativi ed errori, provando innovazioni e studiandone gli effetti, mettendo in pratica diverse idee in diversi luoghi, sfruttando le variegate potenzialità offerte dai luoghi e dalle loro condizioni evolutive, raccogliendo risultati e aggiustando percorsi. 

E perché non pensare, propone Stefano Boeri, a perseguire anche per le grandi metropoli della Cina, del Sud America, dell’Africa soluzioni che vadano incontro, secondo percorsi diversi e attenti alle consuetudini e esigenze locali, alle necessità messe in luce dalla pandemia, alla domanda di prossimità, al rifiuto dell’eccessiva densità, alle opportunità di una vita di piccola comunità, trasformando le metropoli in arcipelaghi di città medie? Perché non mettere in campo strategie capaci di adattarle a una società mista e intergenerazionale, di dotarle di spazi aperti e vita di quartiere, di mescolare co-housing a social housing e servizi in cui convivano classe media, giovani coppie e single? 

Dunque non una ricetta unica, ma tante sperimentazioni, sfruttando idee, capacità, tradizioni, strumenti diversi. 

 Una terza questione: come cambieranno gli spazi abitativi?

Certamente per trasformare la città occorrerà modificare anche il modello di uso degli spazi urbani e in particolare di quelli abitativi che abbiamo ereditato, per adattarli alle nuove necessità del mondo del lavoro e della famiglia. Si tratta di ripensare al ruolo di luoghi chiusi e aperti, perché si prestino a ospitare, in condizione di sicurezza sanitaria, non solo vita individuale e lavoro ma anche attività di cultura, intrattenimento, sport ecc., che avvenivano abitualmente in spazi chiusi mentre oggi (e forse sempre più in futuro) si stanno spostando verso spazi aperti, sia pubblici che privati. L’organizzazione degli spazi per l’abitazione, che nell’esperienza di ciascuno di noi ha dovuto repentinamente far fronte con soluzioni precarie alle evenienze poste dall’epidemia, andrà ripensata, anche per contribuire nel lungo periodo a evitare che si generino le condizioni che alla pandemia hanno dato origine.

Con l’emergenza COVID-19 l’esperienza abitativa di miliardi di persone è diventata la casa-mondo, in cui lo spazio privato ha preso il sopravvento sullo spazio pubblico. Abbiamo sperimentato come le soglie del nostro rapporto spaziale privato-pubblico siano state finestre, balconi, porticati che sono diventati lo spiraglio per il nostro sguardo verso il mondo esterno. Questi elementi di confine fra privato e pubblico ora possono essere ripensati come lo spazio di partenza per un nuovo progetto residenziale, proponibili come elementi esistenziali, come componenti strutturali in un nuovo progetto urbano (Luca Molinari, Le case che saremo. Abitare dopo il lockdown, Nottetempo, 2020). Per non parlare del nuovo ruolo dei cortili, dove ha trovato spazio, nel periodo più critico del lockdown, la socialità di condominio e di quartiere, ripescando dal passato un loro uso progettato ai tempi in cui il problema era la città industriale e la metropoli nascente, e il cortile era componente nodale della “unità di vicinato” che poteva fornire una soluzione innovativa all’urbanizzazione senza regole trainata dall’industrializzazione (Urbanistica Informazioni, n. 289, gennaio-febbraio 2020).

Che sarà, allora, della normalità che abbiamo dovuto lasciare alle nostre spalle e quali saranno gli spazi di vita e le modalità di convivenza che si profilano nel nostro futuro? È prevedibile che dovremo impegnarci intensamente, nel domani da costruire, per rinunciare al modello dell’alloggio minimo, per rivedere le condizioni di separazione, distanza e non contaminazione che abbiamo ereditato e che abbiamo dovuto repentinamente adattare, per progettare formule di casa-ufficio idonee alle nuove modalità di lavoro a distanza (Leonardo Caffo, Dopo il COVID-19. Punti per una discussione, Nottetempo, 2020).

Architetti, urbanisti, ricercatori di diversi paesi nel mondo confermano che la pandemia ha messo a nudo e accentuato, in ogni parte del mondo, il problema delle diseguaglianze anche nel modo di abitare, oltre che di vivere il territorio (si veda Urbanistica Informazioni, n. 289, 2020, dedicato a «Città e COVID-19. Riflessioni dal mondo»). Si impone la necessità di ripensare consuetudini e soluzioni abitative tradizionali così come di applicare modelli abitativi standard a luoghi e segmenti sociali diversi: anche la casa post-COVID non dovrà essere più quella di prima, dovunque!

Quali problemi per il territorio post-COVID? 

La pandemia, dice Lucio Bianco, può essere un’occasione per aggiornare anche il governo del territorio.

Per parte mia temo che questo sia soprattutto un auspicio!

Sono ancora poche le riflessioni sul rapporto fra epidemia e governo del territorio, e soprattutto mancano ipotesi sulle azioni che occorrerebbe intraprendere perché la pianificazione territoriale e urbanistica contribuisca a evitare le interazioni perverse tra le patologie sanitarie e i fattori sociali, ambientali o economici di cui si denunciano chiaramente le responsabilità nella situazione attuale e nel temuto, futuro ripetersi di crisi di sistema.

Le parole-chiave per una necessaria e urgente rigenerazione del nostro modello di vita (“sostenibilità, inclusività, resilienza, solidarietà”) implicano a maggior ragione un progetto per il territorio rivisto alla luce di un futuro post-pandemico.

E in questa direzione, quindi, a mio parere il dibattito sul futuro della città è “zoppo”, come accennavo nella Parte I di questo contributo: la rigenerazione urbana non è solo riqualificazione edilizia ma è anche riorganizzazione (o organizzazione?) del territorio; è intervenire sulla dotazione delle infrastrutture di mobilità, delle reti telematiche, dei servizi a supporto delle imprese; è anche messa in sicurezza del territorio da dissesto idrogeologico, sismi, catastrofi ambientali; è potenziamento e diffusione delle infrastrutture essenziali, come acqua, fognature, trattamento dei rifiuti ecc., che in molte parti del nostro Paese sono ancora largamente e colpevolmente insufficienti. Senza consistenti interventi in questa direzione e senza robuste politiche che ne assicurino il funzionamento adeguato, è difficile immaginare qualunque percorso futuro per il rilancio di una vita sociale.

Riportare il territorio, oltre che la città, al centro delle strategie di governo delle trasformazioni edilizie, urbanistiche, ambientali è certamente essenziale nei confronti del contrasto alla diffusione della attuale pandemia e delle sue conseguenze, ma ancor di più lo sarà a fronte dei temuti eventi catastrofici futuri che potrebbero essere generati dai tanti modi in cui può manifestarsi la rottura dell’equilibrio fra uomo e natura.

Se l’urbanistica e la pianificazione del territorio già da tempo si sono dimostrate discipline inadeguate a governare la complessità delle trasformazioni dell’ultimo mezzo secolo, a maggior ragione oggi non possiamo contare sugli strumenti che abbiamo ereditato dai precedenti decenni per uscire dalla crisi attuale e prevenire quelle future che incombono. Poiché per disegnare il futuro occorre capire il presente, andrà fatto un grande sforzo della ricerca urbanistica per rivedere e aggiornare con l’uso e il prevedibile ulteriore potenziamento delle tecnologie, sia gli strumenti per capire i processi in atto sia quelli per progettarne l’evoluzione. 

Certamente occorrerà puntare a nuove forme di pianificazione “non dirigista e integrata con il digitale” (come auspicava Sandro Balducci al 28mo Forum «Après le déluge», 11-12 settembre 2020, Santa Margherita Ligure) ma questa linea non sarà sufficiente. Sarà necessario promuovere un ruolo crescente del pubblico, rinforzare la capacità del territorio di prepararsi per tempo a eventi sempre più imprevedibili, accrescere la partecipazione degli attori del governo del territorio (istituzioni di ogni livello, università, imprese, organizzazioni della società civile), sperimentare modelli di governance in grado di alimentare e integrare le spinte dal basso. Per cogliere la pressione crescente verso la rigenerazione del nostro modello di vita, la pianificazione territoriale dovrà fare la sua parte, offrendo le opportunità adeguate (obiettivi, strumenti, metodi), perché si realizzino azioni coerenti con i diversi percorsi che i territori decideranno di intraprendere. Laddove si opterà per approfittare della spinta a fuggire dalla congestione, la strategia potrebbe essere quella di portare urbanità e qualità nelle aree periferiche delle metropoli e dei territori, promuovere il rilancio delle aree interne, ma anche riqualificare la città esistente. Per farlo sarà necessario stabilire attraverso piani e progetti di dimensione territoriale un rapporto di complementarità tra borghi, aree interne, territori extra-urbani e grandi città o metropoli.

Concordiamo tutti sull’affermazione che questa pandemia è l’occasione –forse l’ultima! – per metter mano al governo del territorio cogliendo l’opportunità della svolta critica che lo investe per promuovere una visione di «convivenza eco-sistemica equilibrata, non autodistruttiva e capace di innovazione» (Luca Imberti, in Urbanistica Informazioni_blog, maggio 2020). È altrettanto evidente, però, che per ottenere tali risultati si impongono un deciso aggiornamento dell’attuale assetto del governo del territorio, ormai quasi assente, e l’emanazione di un nuovo testo organico che superi una produzione legislativa sempre più frammentata in provvedimenti regionali. Non meno essenziale sarà disporre di strutture tecniche preparate ad affrontare i nuovi paradigmi della trasformazione territoriale, e di un ambiente culturale che stimoli l’ampliamento delle conoscenze e degli strumenti necessari a favorire la transizione verso nuove modalità di pianificazione, con il massimo coinvolgimento dei soggetti delle trasformazioni insediative.

A questo proposito si può ricordare che le associazioni professionali in cui si raccolgono gli studiosi, i professionisti e i tecnici delle scienze del territorio in questi ultimi mesi e nei mesi prossimi stanno concentrando, nelle loro occasioni tradizionali di dibattito (convegni, giornate di studio, congressi) l’attenzione sulla città dopo la pandemia e sul rapporto tra pianificazione e programmazione del territorio e sanità, per sostenere la necessità di puntare a qualità della vita della popolazione, benessere economico e sociale, rilancio locale sostenibile, ruolo della tradizione e dell’innovazione. E ancor più lo faranno nei prossimi mesi, in vista della possibilità di intercettare le risorse del PNRR attorno ai temi della riorganizzazione del territorio.

Non ci resta che sperare che si passi dalle analisi su cause e responsabilità alle prospettive di azioni con cui orientare la ripresa nei prossimi cinque anni in cui si avrà la possibilità, e l’obbligo, di utilizzare le ingenti risorse finanziarie europee per riguadagnare il molto tempo e le molte opportunità perdute negli ultimi decenni in cui si è rinunciato, di fatto, a guidare il territorio verso obiettivi virtuosi, sempre annunciati e mai realmente perseguiti.

Non mancano, in realtà, esperienze di innovazione nella gestione delle città già avviate precedentemente a questi due ultimi anni ed oggi ben riconducibili alle strategie virtuose nei confronti del contrasto alla pandemia e della ripresa post-COVID. Ricordo qui la vasta rete delle “smart cities”, che già puntavano su un forte contenuto tecnologico attraverso cui perseguire efficienza, innovazione e sostenibilità. Loro punto di forza è l’intervento sui trasporti, specie quello rapido di massa (bus, treni, tram, metro), nonché la riqualificazione energetica dell'edilizia civile, con particolare attenzione alle periferie ed alle aree di maggiore fragilità. Queste esperienze, che ben si prestano a promuovere obiettivi propri di un territorio sostenibile, tecnologicamente, ambientalmente e socialmente virtuoso (e dunque anche competitivo e attrattivo) e che in molti casi si sono rapidamente spinte ad includere il tema della partecipazione dei cittadini come attori centrali e attivi, si muovono nella direzione auspicata per una responsabile azione di rilancio del territorio dopo la pandemia. Promettono, infatti, di privilegiare azioni più locali che globali, di rendere le città meno diseguali, più flessibili, più adattabili alle condizioni che si presenteranno, di promuovere la sperimentazione di soluzioni innovative, capaci di valorizzare lo spazio pubblico, la prossimità, lo smart working, nonché di diventare più inclusive e solidali. Dunque sono esperienze di gestione ben convertibili verso gli obiettivi che oggi ci appaiono coerenti con una fase post-COVID. 

Quali prospettive ci sono però perché queste ipotesi di governo delle città si possano attuare a breve?

Nonostante molto si sia fatto negli ultimi anni in questa direzione in molti Paesi, secondo le stime della divisione UN Habitat perseguire questi progetti comporterebbe enormi investimenti in infrastrutture (circa 38mila miliardi di dollari in dieci anni, tra il 2020 e il 2030, il 43% del PIL mondiale annuo). Eppure, stima ancora l’UN Habitat, questo traguardo, certamente molto ambizioso, sembra raggiungibile, su scala mondiale, almeno in parte, perché la elevata capacità di investimento pubblica e privata globale complessiva, necessaria a rendere questi programmi concreti, è compatibile con le risorse finanziarie che i diversi Paesi, nel loro insieme, possono destinare a questo fine. E a maggior ragione questo obiettivo potrebbe essere perseguibile in Europa, perché in questa direzione si potranno orientare i fondi del bilancio comunitario 2021-2027, del programma di ricerca Horizon Europe e del finanziamento Next Generation EU.

Meno credibile appare però il raggiungimento di questi obiettivi per l’Italia: l’ultimo Rapporto ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) e il Rapporto del Centro nazionale di studi per le politiche urbane (urban@it) documentano come il percorso italiano verso l’Agenda 2030 dell’ONU, che appariva arduo prima della crisi, nel 2020 abbia registrato un peggioramento per 9 dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Senza un recupero del ritardo accumulato nell’implementazione dell’Agenda 2030, ripensare non solo la città ma anche il territorio alla luce delle esigenze post-pandemiche sarebbe velleitario. Promuovere l’auspicata transizione ecologica tecnologicamente supportata e sostenere i progetti di smart cities avviati, facendo convergere su questi le azioni da includere nel PNRR, sarà necessario. C’è da chiedersi, però: sarà sufficiente?

Prepararsi ai rischi futuri per città e territorio

C’è un ultimo tema che mi sembra necessario sollevare: la cosiddetta “preparedness” (quello che per l’aspetto sanitario è il “piano pandemico”) ovvero «una forma di pianificazione per trattare l’imprevisto lavorando sulla costruzione di scenari, sulla protezione delle infrastrutture critiche di comunicazione, sull’accantonamento di scorte di dispositivi, sulla messa in funzione di sistemi di allarme immediatamente attivabili, sul disegno di sistemi di coordinamento tra soggetti diversi e sulla verifica periodica del loro funzionamento» (come sostiene il sociologo della medicina Andrew Lackoff). La “preparazione” non si impone solo alla sanità, ma deve coinvolgere anche città e territori, i quali devono pianificare la costruzione di capacità di reazione di fronte a ciò che non sappiamo di non sapere, per contribuire a far sì che le comunità siano meglio preparate ad affrontare le future sfide e le loro conseguenze.

E le future sfide per l'intera vita biologica, ma anche per la vita sociale del pianeta dipendono ormai dall’information technology, dalla produzione, commercializzazione e talora “predazione” di quei big data che costituiscono il petrolio dell’era digitale. Un black-out delle reti metterebbe a rischio in breve tempo – come ha già rischiato di succedere – la vita delle città e dei territori nell’intero pianeta. Nel pensare al nostro futuro, è bene non trascurare questo rischio e preparare la pianificazione di una exit-strategy (l’equivalente di un piano pandemico) che affronti e mitighi tempestivamente ed efficacemente una nuova possibile crisi globale, quella della città post-COVID-19, resa vulnerabile dalla sua totale dipendenza da reti digitali congestionate e sovraccariche, nonché dal sospetto che qualche Paese possa aver scambiato massicce commesse di vaccini con la cessione di big data sanitari. La prossima crisi globale, dunque, potrebbe essere determinata non più da un virus biologico ma da un virus cibernetico che potrebbe produrre un casuale e involontario crollo tecnico (un cyber-crash) o, peggio, un pianificato attacco terroristico (una cyber-war) che blocchi le città!

E per preparare città e territori ai rischi ed alle sfide insiti nel controllo dei big data e dei sistemi di information technology da cui dipende interamente il suo funzionamento fisico e sociale, ci sarà bisogno di un approccio multidisciplinare e plurale, e di nuovi profili professionali, di planners dotati di competenze adeguate e flessibili per affrontare un compito impegnativo e imprevedibile, ma anche di una diffusa consapevolezza dei cittadini sull’uso di questi strumenti. Questa esigenza apre, sulla formazione di base e su quella permanente delle figure professionali, un fondamentale capitolo che andrebbe affrontato in modo complessivo, confrontandosi anche con le università, le associazioni, gli ordini professionale, le istituzioni culturali. 

I percorsi formativi hanno e avranno infatti un ruolo decisivo nel processo di rigenerazione di città e territorio capaci di auto-decidere, nella transizione verso un futuro di “città pensanti” (come propongono Ash Amin e Nigel Thrift in Vedere come una città, Mimesis, 2020).

Accanto all’imprescindibile intervento sulla scuola, occorrerà promuovere un cambio di mentalità, per produrre anche, e forse soprattutto, uno slancio di immaginazione con cui rimediare efficacemente agli effetti della pandemia e scongiurare in futuro il rischio di eventi non meno drammatici e già preconizzati (altre pandemie, crisi delle reti telematiche, catastrofi ambientali). Non basteranno a proteggerci da queste sciagure le modifiche tecniche e le nuove tecnologie e neanche gli interventi di mitigazione degli effetti devastanti che constatiamo ogni giorno. I disastri prodotti non solo dalla pandemia ma anche dal cambiamento climatico e dall’aumento delle diseguaglianze ci dimostrano che occorre immaginare un modello di vita diverso per reinventare le città e il territorio, per convogliare su questo progetto le risorse della deriva collettiva e soprattutto per promuovere un umanesimo ambientale e sociale guidato dalla forza dell’immaginazione.

Per suscitare e orientare questa immaginazione occorrono non solo tecnici ma anche politici migliori, capaci di proporre a cittadini e scienziati modelli di vita radicalmente nuovi con cui affrontare i gravi problemi che aspettano le generazioni future, visto che abbiamo 10-15 anni di tempo, prima che sia troppo tardi, per risolvere efficacemente i problemi chiave che finora abbiamo trascurato e che potrebbero finalmente rendere praticabili città verdi, energia sostenibile, contrasto al cambiamento climatico, riduzione delle diseguaglianze, innovazione tecnologica. Occorre immaginare una città e un territorio diversi, ma avere anche governanti lungimiranti e competenti, attori istituzionali e finanziari partecipi degli obiettivi della collettività, cittadini motivati e complici di queste strategie, disposti a ridiscutere i propri modelli di lavoro, di consumo, di mobilità, di abitazione, di uso del tempo libero. E per immaginare questo futuro e disporre di soggetti capaci di attuarlo (compresi i cittadini) il compito più importante torna ad essere affidato ai percorsi formativi, dalle scuole materne alle università, fino a quella formazione permanente che nel nostro Paese si può considerare un livello sconosciuto (Rob Hopkins, Immagina se…, Chiarelettere, 2020).

Alla fine, per progettare il futuro della città e del territorio post-COVID, l’asset primo e prioritario sarà rafforzare scuola e Università? 

 

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