SOCIETÀ
When I’m Ninety-Four, ovvero Paul McCartney, le culle vuote e i 17 milioni di anziani
Come direbbe il commissario Montalbano, “le coincidenze non esistono”. Se poi le coincidenze sono più d’una occorre trarre rapidamente delle conclusioni.
Prima coincidenza: qualche tempo fa l’Istat ha annunciato che nel 2019 c’erano state solo 420.170 nascite, quindi erano venuti al mondo 19.000 pargoli in meno rispetto all’anno precedente, proseguendo un trend negativo in atto da molti anni. Ne è scaturito il solito tormentone “culle vuote”, su cui uno dei pochi articoli sensati è stato quello di Cristina Comencini su Repubblica, in cui parlava dello “sciopero dei figli” da parte delle giovani donne italiane. Lo stesso giorno mi è però arrivata una mail che annunciava la nuova data del concerto dei Procol Harum a Brescia, rinviato due volte a causa della pandemia e ora previsto per il 19 novembre.
I Procol Harum sono vivi?! Vengono a Brescia fra tre mesi? Siamo nel 2020 e il gruppo inglese è in attività dal 1967, più di mezzo secolo fa. Per essere precisi dal 1962, quando il loro fondatore Gary Brooker mise insieme una band chiamata i Paramounts. Quindi 58 anni or sono. A questo punto devo dire che io adoro i Procol Harum e che la mia canzone preferita in assoluto è A Whiter Shade of Pale, che potrei ascoltare per il resto della vita senza stancarmene (era anche la canzone preferita di John Lennon, all’epoca). Però è una canzone del 1967 e negli ultimi 53 anni sono emersi altri gruppi, sono arrivati al successo altri autori, sono state scritte decine di migliaia di altre canzoni (consiglio, per rassicurarvi sui miei archeologici gusti musicali, I Put A Spell On You dei Creedence Clearwater Revival).
Seconda coincidenza: nel bel libro di Nando Fasce La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, (una storia sociale della musica pop) si parla di un altro grande successo del 1967: When I’m Sixty-Four dei Beatles. La canzone non è granché, ma il testo è divertente: “When I get older losing my hair/Many years from now…” ovvero “Quando sarò vecchio e perderò i capelli/Tra molti anni…”. E’ la voce di un adolescente che parla alla sua ragazza, sperando in una promessa di eterno amore (“Will you need me, will you feed me?”).
Quello che ci interessa qui è la visione del mondo che Paul McCartney esprimeva artisticamente: nel 1967 avere 64 anni significava essere vecchi: non a caso la classe d’età più numerosa erano i diciassettenni. McCartney scrisse la canzone quando aveva 27 anni e si immaginava a 64 un futuro da pensionato che aggiusta le lampadine in casa mentre la moglie sferruzza un maglione e insieme fanno giardinaggio: “Who could ask for more?”, chi potrebbe chiedere di più alla vita? Di certo i giovani fan italiani dei Beatles la pensavano allo stesso modo. Se oggi McCartney (sempre in attività!) volesse fare un remake di quel brano dovrebbe invece intitolarlo When I’m Ninety-Four, quando avrò 94 anni.
Oggi in Italia ci sono 4,4 milioni di ultraottantenni. Avete letto bene: quasi quattro milioni e mezzo. Non solo la classe d’età più numerosa non sono i diciassettenni ma l’intero gruppo 15-19 anni conta meno di 2,9 milioni di persone, mentre gli scalpitanti esponenti della classe d’età 60-64 sono 3,8 milioni, seguiti a ruota dai loro fratelli maggiori fra i 65 e i 69 anni, ben 3,5 milioni (di cui faccio parte anch’io) e dagli arzilli “vecchietti” (che non si sentono affatto tali) fra i 70 e i 74, che sono 3,2 milioni. Per farla breve: gli adolescenti in italia sono circa tre milioni e gli anziani più di dieci milioni, senza contare i “grandi anziani”, ottantenni e novantenni, su cui torneremo tra un attimo.
I numeri non mentono, quindi se le proporzioni sono queste si capisce meglio per quale motivo a Brescia invitino i Procol Harum e non, per esempio, Mahmood, che peraltro il 12 settembre prossimo compie 28 anni, un’età alla quale i Beatles avevano già venduto decine di milioni di dischi ed erano il gruppo più famoso del mondo. Se si vuole fare un paragone italiano, nel 1967 l’hit parade dei dischi vedeva in testa alle vendite A chi di Fausto Leali, che aveva 22 anni (adesso ne ha 75 ed è ancora in attività).
Siamo un paese di vecchi: nella musica, nella politica, nel giornalismo. Lo scrive, con il suo inimitabile stile e humour, Natalia Aspesi (nata nel 1929) in un articolo di Repubblica maliziosamente intitolato “Tolgo il disturbo”. Essere un paese di vecchi ha però dei costi salati e non solo per le pensioni: sono le scelte di governo a soffrirne perché, pur rispettando e sfruttando la saggezza degli anziani, un paese ha bisogno dell’energia dei giovani, dove per giovani intendo i trentenni, non i quasi-cinquantenni, numerosi in politica e soprattutto di una visione di lungo periodo.
Cominciamo dalla musica: sono in attività non solo Fausto Leali (nato nel 1945) ma anche Gianni Morandi (1944), Al Bano (1943), Iva Zanicchi (1940) Mina (1940) e Ornella Vanoni (1934). Forse non riempiono più gli stadi ma sono spesso e volentieri in televisione, vengono intervistati, i giornali parlano di loro e vengono trattati come glorie nazionali (lo sono, ma la caratteristica delle glorie dovrebbe essere di ispirare chi viene dopo di loro, non di restare in prima fila fino alla morte).
Se questo gruppetto è sempre alla ribalta forse una ragione di età c’è: i giornali italiani mantengono una buona rappresentanza di loro coetanei. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, ha 96 anni ma scrive il suo editoriale tutte le domeniche. La dittatura di Porta a porta sulla seconda serata televisiva non ha bisogno di spiegazioni: Bruno Vespa (1944) entrò in RAI nel 1962 e quasi sei decenni dopo è ancora lì. Gli fa concorrenza solo Maurizio Costanzo (1938) giornalista dal 1956 e in radio o in televisione dal 1970, cioè mezzo secolo fa.
Eccezioni? No, giustamente i tre rispettatissimi commentatori di questioni costituzionali sulla stampa italiana sono Gustavo Zagrebelsky (1943), Sabino Cassese (1935) e Massimo Vilone (1944). Hanno decine di allievi, ma raramente questi vengono consultati finché i maestri saranno capaci di sfornare due articoli la settimana.
Gli imprenditori non sono molto diversi: il proprietario di Mediaset rimane Silvio Berlusconi (1936) e chi manda avanti la baracca è Fedele Confalonieri (1937) mentre Leonardo Del Vecchio (1935) ha mantenuto il controllo della Luxottica e condotto in porto la fusione con Essilor, creando un gruppo mondiale senza rivali. Di fronte a loro fanno figura di giovanotti Francesco Gaetano Caltagirone (edilizia, 77 anni), Marco Tronchetti Provera (Pirelli, “solo” 72 anni) e Luca Cordero di Montezemolo (ex Ferrari, appena 73).
Non è azzardato, quindi, concludere che l’establishment italiano è dominato dai vecchi, che hanno i gusti dei vecchi e difendono gli interessi dei vecchi. Si potrebbe obiettare che questa tesi è smentita dai vertici politici: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha 56 anni, i leader dei principali partiti hanno rispettivamente 48 anni (Vito Crimi, 5Stelle), 54 anni (Nicola Zingaretti, PD), 45 e 47 anni (Matteo Renzi e Matteo Salvini). Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) con i suoi 43 anni fa quasi la figura della teenager.
In questo caso, però, l’età anagrafica conta meno delle politiche concretamente perseguite: Conte, Di Maio (34 anni) e Salvini vararono la riforma pensionistica nota come “Quota 100”, sostanzialmente un cospicuo trasferimento di risorse a favore dei sessanta-settantenni. Ignorati, dal governo precedente, i temi che più interessano i giovani: asili nido per tutti, buone scuole, aiuti nella transizione fra scuola e lavoro, appartamenti in affitto a prezzo ragionevole per potersene andare dalla casa dei genitori (l’edilizia popolare in Italia è ferma da decenni).
Il governo Conte-2, malgrado la diversa maggioranza e la presenza di ministri “giovani” come Roberto Speranza, classe 1979, non ha cancellato “Quota 100” né avviato politiche a favore delle giovani madri o del precariato giovanile. Soprattutto non ha abrogato, al momento in cui scriviamo, i famigerati decreti sull’immigrazione fortemente voluti dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini. Sui cosiddetti decreti sicurezza occorre soffermarsi perché sono un ottimo esempio di come demografia e politica si intreccino.
Prima di tutto l’Italia, per rispondere alle necessità del mercato del lavoro e del sistema pensionistico avrebbe bisogno di 300.000 (sì, avete letto bene: trecentomila) immigrati l’anno, non del blocco dei flussi migratori, di micragnose regolarizzazioni come quella varata in giugno e di isterie attorno a ogni sbarco di poche decine di persone.
In secondo luogo, i due decreti varati nel 2019 avevano un interlocutore politico preciso: non solo i dieci milioni di anziani (60-74 anni) ma soprattutto i sette milioni di “grandi anziani”, cioè di persone di oltre 75 anni. E’ a loro, alle loro angosce, paure ed egoismi che si rivolgeva quel minestrone di norme vessatorie sull’immigrazione ribattezzato decreti sicurezza. I vecchi sono fragili, non solo fisicamente ma anche culturalmente e nulla spaventa di più che vedere facce giovani e diverse nelle “proprie” strade, nei “propri” bar”, nei “propri” negozi. Alla politica chiedono quasi solo di essere protetti e la politica risponde offrendo poliziotti e tweet minacciosi, invece che soluzioni razionali, meditate, di lungo periodo. Tutto deve esaurirsi nelle immagini dei telegiornali e nei titoli roboanti della cronaca nera.
Diciassette milioni di persone sono un’enormità, dal punto di vista elettorale (a 18 anni meno un giorno non si può votare, mentre a 98 sì). Benché molti pensionati si dedichino al volontariato e rifiutino la retorica xenofoba resta sempre una maggioranza di vecchi fragili e spaventati, che politici cinici blandiscono attraverso media irresponsabili. Privi del saldo ancoraggio a un rapporto di lavoro, gli anziani non solo sono più vulnerabili alla propaganda televisiva ma sono anche più diffidenti e incerti verso le soluzioni di lungo periodo, che pensano non li riguardino. Il loro canale col mondo è la televisione, dove trovano le facce rassicuranti di Bruno Vespa (76 anni), Mara Venier (70) e altri personaggi ben felici di “riscoprire” gli artisti dei favolosi anni Sessanta, i già citati Gianni Morandi (76 anni), Al Bano (77) e tutti gli altri.
Quindi, benvenute le vecchie glorie dei Sixties ma se mettessimo un limite di età obbligatorio e invalicabile a 70 anni anche per gli artisti e i conduttori televisivi, come avviene per i magistrati e i docenti universitari? Magari si aprirebbe un po’ di spazio per i trentenni e si potrebbe cominciare a ragionare seriamente sulla questione generazionale: priorità ai servizi per le giovani donne, ma anche svecchiare l’ecosistema informazione-intrattenimento sarebbe una buona cosa. A costo di rinunciare ai Procol Harum a Brescia.