SCIENZA E RICERCA

SARS-CoV-2, il punto sulle varianti e sull'efficacia dei vaccini

Come ogni altro virus a RNA anche SARS-CoV-2 muta. E’ un processo normale che accade durante la replicazione del patogeno nelle nostre cellule e nella maggioranza dei casi non implica nessun impatto significativo. Nonostante sia dotato di un meccanismo di correzione degli errori che lo rende più conservativo di altri virus, dall’inizio della pandemia ad oggi le mutazioni di SARS-CoV-2 sono già molte migliaia: un articolo del British Medical Journal spiega che, sulla base dei dati del COVID-19 Genomics UK, il Consorzio britannico che sta mettendo in campo il maggiore impegno a livello mondiale nel sequenziamento del genoma virale, sono circa 4.000 solo quelle che riguardano la proteina spike

L’RNA di SARS-CoV-2 è composto da poco meno di 30 mila nucleotidi: se le immagiamo come lettere è un alfabeto piuttosto lungo e in ogni singola base possono verificarsi delle alterazioni. Sono però poche quelle che si conservano nel tempo e si fissano in modo stabile nella popolazione virale, fino a diventare prevalenti. 

In genere questo accade quando una mutazione conferisce un vantaggio al virus e lo abbiamo visto nei mesi scorsi con la variante D614G che nel giro di pochi mesi ha quasi completamente spazzato via il ceppo scoperto per la prima volta a Wuhan.

Questa mutazione riguarda la sostituzione dell’amminoacido aspartato (D, in abbreviazione biochimica) da parte della glicina (G) alla 614a posizione della sequenza genetica che codifica per la proteina spike, a causa di un difetto di copiatura che altera un singolo nucleotide. A caratterizzare questa mutazione, che si era già imposta in Italia durante la prima ondata pandemica e che ad aprile dello scorso anno era ormai presente nella metà dei campioni virali analizzati su scala globale, è un’elevata velocità di trasmissione, mentre non sono state osservate conseguenze rilevanti in termini di maggiore o minore gravità del decorso clinico dell’infezione. Una diffusione più rapida rappresenta un indubbio vantaggio per un virus e non stupisce che un ceppo che abbia questa capacità tenda a prevalere sugli altri.

Nel (breve) lasso di tempo in cui la variante D614G si è diffusa in tutto il mondo, numerosi gruppi di ricerca hanno lavorato, e stanno continuando a farlo, sullo sviluppo dei vaccini. I primi timori sull’ipotesi che nel virus SARS-CoV-2 potesse manifestarsi una mutazione in grado di rendere inefficace i sieri per l’immunizzazione erano sorti verso il finire dell’estate quando in Danimarca fu identificata una variante, denominata Cluster5, tra i visoni di allevamento. Secondo alcuni studi preliminari questa variante poteva comportare una ridotta neutralizzazione del virus negli esseri umani, ma fortunatamente la sua diffusione nell’uomo sembra essere rimasta limitata. In Europa sono inoltre presenti le varianti 20A.EU1 e 20A.EU2 che dopo essere comparse la scorsa estate in Spagna si sono diffuse in molte aree del continente.

Ma a preoccupare sono adesso i lignaggi identificati in Gran Bretagna, Sud Africa e Brasile. Il primo è noto come B.1.1.7, il secondo corrisponde alla sigla 501.V2, mentre al terzo, denominato P.1 dagli studiosi che l'hanno scoperto, è stata poi attribuita la sigla B.1.1.248 (anche se per completezza di informazione occorre precisare che in realtà le varianti brasiliane sono due).

Il ceppo B.1.1.7 è stato identificato dopo l’esplosione di un numero crescente di contagi nel sud-est dell'Inghilterra e a Londra: lo sforzo del consorzio COG-UK, che ad oggi è la realtà maggiormente impegnata nell'attività di sorveglianza molecolare, con circa 170.000 genomi virali caricati su GISAID, ha mostrato la sua prevalenza e la sua rapida espansione. Rilevata per la prima volta nel mese di settembre 2020, la variante inglese presenta in totale 29 mutazioni rispetto al ceppo originale di Wuhan ma sono tre quelle che, secondo gli esperti, hanno un significato biologico importante. Come approfondito dall’immunologa Antonella Viola sono tutte a carico della proteina spike del virus: “La prima è la N510Y e sembrerebbe conferire al virus una maggiore affinità con il recettore Ace 2, quello usato per entrare nello nostre cellule. Un’altra mutazione è la P681H, è vicina al sito in cui agisce una proteasi, la furina, per facilitare l’ingresso del virus all’interno della nostre cellule: non sappiamo ancora se favorisca l’azione della furina ma sembrerebbe di sì dal punto di vista epidemiologico e quindi le probabilità di contagio sembrano aumentate. Poi c’è una delezione, la 69-70, che si traduce nella mancanza di questi due aminoacidi e potrebbe essere un tentativo della proteina Spike di nascondersi dal sistema immunitario”, ha spiegato a Il Bo Live.

Anche la variante sudafricana, identificata per la prima volta alla metà di novembre attraverso un'attività di sequenziamento di routine, manifesta la mutazione N510Y ma l’attenzione degli scienziati si è concentrata su un’altra alterazione, denominata E484K. Riguarda il dominio di legame del recettore e il timore dei ricercatori è che possa rendere il virus capace di sfuggire alle risposte immunitarie di alcune persone. L’Oms riporta inoltre che studi preliminari “suggeriscono che la variante è associata a una carica virale più elevata”, fattore che può facilitare una “potenziale maggiore trasmissibilità”.

L'ultima, in ordine di tempo, è la variante brasiliana. E' il mese di dicembre quando un’ondata di infezioni a Manaus, capitale dello stato di Amazonas, ha portato al sospetto che potesse essere in circolazione un nuovo ceppo di SARS-CoV-2. Uno studio di Nuno Faria, virologo dell’Imperial College di Londra, aveva appena stimato che i tre quarti degli abitanti della città erano già stati contagiati nei mesi precedenti e riteneva che con questi numeri si fosse raggiunta una certa immunità di gregge. Non riuscendo a dare una spiegazione alla forte recrudescenza dell’infezione Faria e alcuni colleghi hanno iniziato a sequenziare materiale virale: 13 dei 31 campioni analizzati si sono rivelati parte di un nuovo lignaggio virale che hanno chiamato P.1. Come riportato da un articolo di Science gli studiosi precisano che “sono necessarie molte più ricerche”, ma affermano che “una possibilità è che, in alcune persone, P.1 sfugga alla risposta immunitaria innescata dal lignaggio che ha devastato la città all'inizio del 2020”. Tali "fughe immunitarie”, approfondisce Science, “potrebbero significare che più persone che hanno avuto COVID-19 rimangono suscettibili alla reinfezione e che i vaccini sviluppati potrebbero, a un certo punto, aver bisogno di un aggiornamento”. A caratterizzare la variante brasiliana, già rintracciata anche in Giappone, sono tre mutazioni chiave nella proteina spike del virus, presenti anche nel ceppo sudafricano, tra cui E484K e N501Y, ma viene ritenuta più insidiosa perché ha accumulato un maggior numero di alterazioni nella spike e questo può impedirne il riconoscimento da parte degli anticorpi. 

La variante inglese, sudafricana e brasiliana presentano quindi diverse somiglianze ma sembrano apparse in modo indipendente. Per nessuna di esse esistono evidenze che suggeriscano una maggiore gravità dell'infezione ma l'andamento dei contagi mostra un rapido e forte aumento nelle aree in cui sono diventate prevalenti.

I laboratori di tutto il mondo, fa il punto della situazione un articolo di Nature, sono impegnati a capire perché queste varianti sembrano diffondersi così rapidamente e se esiste il rischio che possano diminuire l'efficacia dei vaccini o vanificare l'immunità naturale di chi ha già incontrato il virus. 

I primi risultati di laboratorio stanno arrivando e molti altri sono attesi nei prossimi giorni. Una notizia rassicurante è che la mutazione N510Y, condivisa da tutte le varianti, non ha alterato l'attività degli anticorpi prodotti da persone che hanno ricevuto il vaccino sviluppato da Pfizer e BioNTech. A questo risultato è giunto un preprint pubblicato lo scorso 8 gennaio su bioRxiv. E, secondo quanto dichiarato dai vertici dell'azienda, anche il vaccino di Moderna è in grado di proteggere dalla variante B1.1.7 perché esprime per intero la proteina spike del virus SARS-COV-2, "consentendo la generazione di risposte anticorpali neutralizzanti a più domini della proteina". Le mutazioni che si osservano nella spike del ceppo B1.1.7, spiega Moderna, rappresentano un cambiamento di meno dell'1% rispetto alla proteina codificata dal vaccino. Ad approfondire questo concetto è anche un articolo pubblicato su Jama: "poiché gli attuali vaccini provocano una risposta immunitaria all'intera proteina spike, si spera che una protezione efficace possa ancora verificarsi nonostante alcuni cambiamenti nei siti antigenici delle varianti di SARS-CoV-2."

Più allarmante appare invece la mutazione E484K perché potrebbe ridurre in modo significativo la capacità neutralizzante degli anticorpi. In questa direzione va un preprint relativo a uno studio condotto, tra gli altri, dal professor Rino Rappuoli che ha osservato, in vitro, come il plasma neutralizzante sia stato in grado di respingere il virus solo fino a quando SARS-CoV-2 non è riuscito a modificarsi e a trovare una strada di ingresso, proprio grazie alla mutazione nel dominio di legame del recettore. "La recente comparsa di varianti naturali con cambiamenti simili suggerisce che SARS-CoV-2 ha il potenziale per sfuggire a una risposta immunitaria efficace e che dovrebbero essere sviluppati vaccini e anticorpi in grado di controllare le varianti emergenti", sottolineano gli autori della ricerca.

"L'esperimento non doveva necessariamente funzionare" ha commentato a Nature Jason McLellan, biologo strutturale all'università del Texas ad Austin e coautore dello studio, spiegando che nel giro di 90 giorni il virus aveva sviluppato tre mutazioni che lo rendevano impermeabile al plasma della persona guarita. E questo porta a ritenere che "le varianti potrebbero influenzare il modo in cui gli anticorpi generati dai vaccini e quelli sviluppati dopo una precedente infezione riconoscono le mutazioni". 

A ritenere che la mutazione E484K, presente nella variante sudafricana e in quella brasiliana, possa compromettere i meccanismi di immunità è anche un altro preprint relativo a uno studio condotto da Jesse Bloom, biologo evolutivo virale che lavora al Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, secondo cui questa mutazione rallenta di dieci volte gli anticorpi nella loro attività di neutralizzazione del virus. Questo però non implica che la vaccinazione non avrà efficacia anche perché, precisa Science, "i vaccini tendono a suscitare livelli enormi di anticorpi neutralizzanti, quindi un piccolo calo della loro potenza contro le varianti potrebbe non avere importanza" e ci sono altri importanti strumenti della risposta immunitaria, come le cellule T della memoria, su cui le alterazioni manifestate dai nuovi ceppi virali non dovrebbero sortire alcun effetto. 

Non è ancora chiaro come queste nuove varianti stiano influenzando il corso della pandemia: l'immunità delle persone potrebbe semplicemente diminuire nel giro di qualche mese, ha affermato a Science Oliver Pybus, epidemiologo di Oxford, ipotizzando ad esempio, che la variante P.1 potrebbe non avere nulla a che fare con la nuova ondata di infezioni registrata a Manaus. E anche Mike Ryan Mike dell'Oms ha sottolineato il peso dei comportamenti umani nell'andamento dei contagi. "È troppo facile dare la colpa alle varianti e dire che è stato il virus a farlo", ha dichiarato Ryan alla stampa. "Sfortunatamente, è anche quello che non abbiamo fatto." 

Parallelamente però la stessa Oms ha raccomandato di aumentare la capacità di sequenziamento del virus anche perché esiste un forte gap tra le attività di sorveglianza messe in atto nei diversi paesi. Monitorare con estrema attenzione l'evoluzione del virus SARS-CoV-2 è di fondamentale importanza e il Regno Unito ha fatto un ulteriore passo avanti con la costituzione di un nuovo consorzio: si chiama G2P-UK, sarà guidato da Wendy Barclay dell'Imperial College di Londra, e avrà il compito di lavorare al fianco di COG-UK per capire se le mutazioni che stanno emergendo abbiano un effetto sulla trasmissibilità del contagio, sulla gravità della forma di Covid-19 e sull'efficacia di vaccini e cure.

"La variante di SARS-CoV-2 che ci preoccupa di più è quella brasiliana", ha commentato a Il Bo Live Stefano Vella, infettivologo di fama internazionale e docente di Salute globale all'università Cattolica di Roma. Secondo il professor Vella non è un caso che il ceppo virale che sta suscitando maggiore apprensione sia apparso a Manaus perché è una città in cui "c’è stata una quantità talmente gigantesca di infezioni che ha offerto al virus la strada libera per mutare. Più lasciamo correre il virus senza misure di contenimento, più il virus replica e muta. E questo vale per tutti i paesi del mondo".

Per questo motivo è fondamentale procedere velocemente con le vaccinazioni, rispettando però le tempistiche previste dai protocolli. "Dilazionare le due dosi è un errore perché porterebbe ad un’immunità parziale ed è proprio quella condizione che spinge il virus a mutare", mette in guardia Stefano Vella. 

L'intervista all'infettivologo Stefano Vella sulle varianti di SARS-CoV-2 e sui vaccini. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Innanzitutto - introduce l'infettivologo Stefano vella - è molto importante capire che l’origine di queste varianti consiste semplicemente nel fatto che questo virus si replica. Tutti i virus a RNA si replicano tantissimo e in questo processo commettono anche degli errori involontari che portano alle mutazioni. Questo accade perché hanno dei meccanismi che non sono in grado di controllare bene la replicazione. Le mutazioni sono casuali e molte di esse sono irrilevanti o addirittura dannose per il virus, alcune però gli possono conferire un vantaggio selettivo e quindi finiscono per emergere e sovrastare sugli altri ceppi virali".

Per quanto riguarda le tre varianti di SARS-CoV-2 al centro delle cronache il professor Vella conferma che è quella brasiliana ad essere fonte di maggiore apprensione e propone uno spunto di riflessione. "A Manaus l’infezione è stata lasciata correre totalmente libera, un po’ perché è in mezzo all’Amazzonia, un po’ perché il governo brasiliano ha scelto di gestire la pandemia in un modo molto pericoloso. C’è stata una quantità talmente gigantesca di infezioni che ha offerto al virus la strada spianata per mutare. Più lo lasciamo libero, più il virus replica e muta. E questo vale per tutti i paesi del mondo. Non è quindi un caso che la mutazione che ci fa temere di più sia avvenuta dove si è replicato di più, vale a dire a Manaus".

Nella capitale dello stato di Amazzonas il virus ha ripreso forte la sua corsa nonostante gran parte della popolazione si fosse contagiata durante la prima ondata pandemica e un articolo di Nature sottolineava già a fine ottobre quanto fosse falsa la promessa di un'immunità di gregge. 

"Questo virus quando si sente braccato dal sistema immunitario cambia targa, come se fosse l’automobile di un fuggitivo", conferma Vella.

Entrando nello specifico delle mutazioni che contraddistinguono il ceppo virale brasiliano la preoccupazione è legata al fatto che presenta "tre alterazioni contemporanee in un punto chiave della proteina spike: è un fenomeno molto raro e vuol dire che abbiamo lasciato il virus libero di diffondersi. Anche le altre varianti hanno mutazioni che riguardano lo spike ma vanno a toccare delle sequenze che non sono così rilevanti in termini di efficacia dei vaccini".

"L’immunità data dal vaccino è sempre più potente di quella che fa seguito all’infezione naturale perché è diretta e specifica. In termini di efficacia vaccinale per le altre varianti non dovrebbero esserci conseguenze. Quella brasiliana potrebbe dare qualche problema. Non ci vuole molto a scoprirlo: basta prendere il siero delle persone vaccinate e vedere se gli anticorpi prodotti in seguito al vaccino sono in grado di uccidere questa variante virale. E’ una cosa che si fa in laboratorio abbastanza facilmente e penso che ci stiano lavorando in tantissimi. Immagino quindi che potremo avere una risposta in tempi molto veloci", prosegue il professor Vella. 

E sul tema è intervenuto anche Marco Cavaleri, responsabile vaccini dell'Agenzia europea del farmaco, dichiarando in un'intervista a Repubblica che "i primi dati sulla variante inglese ci dicono che non impatta sul vaccino. Mentre c’è qualche preoccupazione su quelle brasiliana e sudafricana. Stiamo aspettando gli studi per verificare se queste due varianti, come temuto, incidano sul vaccino ed eventualmente in quale misura" e ha poi aggiunto che potrebbe arrivare il via libera a un nuovo farmaco "se le varianti ci imporranno di cambiarlo". E, rassicura Vella, un eventuale adeguamento dei vaccini non richiederebbe molto tempo. "Se dovessimo avere la necessità di sviluppare un vaccino specifico per questa variante lo si può fare abbastanza facilmente e questo vale sia per i vaccini che contengono il virus inattivato, sia per quelli con la tecnologia dell’Rna messaggero".

Fondamentale è adesso affrettare i tempi delle vaccinazioni. In questi giorni ci sono difficoltà a causa dei ritardi delle consegne da parte di Pfizer ma la strategia, percorsa dal governo britannico, di distanziare la somministrazione delle due dosi per far ricevere la prima a un numero maggiore di persone può essere pericolosa. "E’ un errore perché porterebbe ad un’immunità parziale ed è proprio quella condizione che spinge il virus a mutare. Lo abbiamo visto anche nell’ambito delle cure per l’HIV - spiega il docente di Salute globale dell'università Cattolica di Roma, con alle spalle una grande esperienza proprio nell'ambito della ricerca sull'AIDS - quando sono stati usati farmaci antiretrovirali con dosaggi non appropriati: il virus ci impiega pochissimo a diventare resistente. Ed è il medesimo meccanismo che accade con gli antibiotici perché, se non vengono usati correttamente, si favorisce il formarsi dei fenomeni di resistenza. Quella dei germi resistenti, la multi drug-resistance agli antibiotici, è un'epidemia che abbiamo già in casa e che sta diventando un problema globale. Se non si rispettano le tempistiche della vaccinazione il rischio è sottoporre il virus a una pressione che non è sufficiente per bloccarlo. E’ meglio avere un po’ meno persone con un’immunità totale che tante persone con un’immunità parziale".

 

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