SCIENZA E RICERCA
Petrolio, il cancro dell’Amazzonia
Uno degli sversamenti di petrolio mai bonificati all'interno della foresta amazzonica. Foto: Reuters/Lou Dematteis
Un’area vasta all’incirca come Francia e Austria sommate insieme, le cui “frontiere” vanno via via allargandosi. Tanto si estende il territorio destinato ad attività di estrazione di idrocarburi (gas e petrolio) nell’Amazzonia occidentale secondo una recente stima condotta da un gruppo di ricerca internazionale e pubblicata su Environmental Research Letters, cui hanno contribuito anche Massimo De Marchi, Salvatore Eugenio Pappalardo e Francesco Ferrarese dell’università di Padova. Un dato che fa riflettere se messo in relazione all’impatto ambientale che ne deriva.
L’Amazzonia occidentale è nota come una delle regioni a più elevata biodiversità per la presenza di un’ampia varietà di piante, insetti, anfibi, uccelli e mammiferi. Mantiene ampi tratti di foresta umida tropicale intatta che ha elevate probabilità di conservare condizioni climatiche stabili nonostante il riscaldamento globale, sottolineano Matt Finer e il suo gruppo. Senza contare la presenza di numerosi gruppi etnici indigeni, tra cui alcuni degli ultimi popoli che vivono in isolamento volontario. Nel sottosuolo però le riserve di petrolio e gas, molte delle quali ancora non sfruttate, fanno gola. Ragione per cui i governi nazionali hanno individuato specifiche aree geografiche o “blocchi” da dare in concessione a compagnie statali o multinazionali per attività di esplorazione ed estrazione petrolifera. I primi lavori iniziarono negli anni Venti del Novecento in Perù ed Ecuador, con un boom negli anni Settanta. I decenni successivi videro l’imporsi di progetti di grandi dimensioni come Urucu in Brasile e Camisea in Perù.
Gli impatti sociali e ambientali però non si sono fatti attendere. Dalla deforestazione per la costruzione di strade di accesso alle piattaforme di perforazione, con conseguente frammentazione degli habitat, attività di disboscamento illegale e colonizzazione, alla contaminazione causata da fuoriuscite di petrolio o da scarichi di acque reflue. Il gasdotto di Camisea, solo per fare un esempio, ha avuto cinque grandi sversamenti nei primi 18 mesi di attività avviata nel 2004. A ciò si aggiungano anche impatti indiretti associati, per fare un esempio, ai test sismici condotti durante la fase di esplorazione.
Nel caso specifico gli autori dello studio pubblicato su Environmental Research Letters hanno preso in esame una vasta area che comprende parte della Bolivia, della Colombia, dell’Ecuador, del Perù e del Brasile occidentale e, attraverso immagini satellitari, studi di impatto ambientale e fonti governative come l’Agencia Nacional de Hidrocarburos de Bolivia o il Ministerio de Recursos Naturales No Renovables de Ecuador per citarne un paio, hanno ricostruito la carta delle aree destinate dai governi ad attività di estrazione petrolifera. Complessivamente una superficie stimata di 733.414 chilometri quadrati, con un aumento di 45.000 chilometri quadrati rispetto al 2008 quando il gruppo di Matt Finer aveva condotto la prima analisi del settore degli idrocarburi nell’Amazzonia occidentale. Sulla superficie complessiva alcuni territori sono già stati concessi in licenza alle compagnie petrolifere (il 59,2% del totale), mentre per altri il permesso di sfruttamento petrolifero non è ancora stato rilasciato (il 40,8% del totale).
Nel 7.1% dei casi le attività di estrazione sono state avviate e si concentrano soprattutto nella Colombia sud-occidentale, nell’Ecuador settentrionale, nell’area di Urucu in Brasile e in varie zone del Perù. Il rimanente 52,1% dei territori dati in concessione sono invece ancora in una fase di ispezione ed esplorazione da parte delle compagnie petrolifere. Le zone “off-limits”, occupate cioè da parchi nazionali e popolazioni indigene, coprono infine una superficie di 1.191.000 chilometri quadrati e si estendono lungo il Perù, il Brasile, la Colombia e l’Ecuador (anche se in quest’ultimo Paese in realtà è possibile estrarre petrolio anche all’interno delle aree protette).
A destare maggiore preoccupazione sono proprio le modalità di accesso alle piattaforme di perforazione ed estrazione petrolifera. Il trasporto di macchinari, strumenti e persone può avvenire infatti attraverso strade (talvolta abusive o con autorizzazioni controverse) costruite all’interno della foresta amazzonica, con le conseguenze che ne derivano. Non a caso nel 2006 in Ecuador uno studio di impatto ambientale (Sia) stabiliva di non costruire strade o ponti permanenti all’interno del parco Yasuni, dove prima la compagnia Petrobras (2006) e poi la Petroamazonas (2009) avevano ottenuto il permesso di sfruttare i giacimenti petroliferi. Un divieto che, stando alle rilevazioni dei ricercatori padovani e a una recente indagine di Reported.ly, sembrerebbe in realtà non venire osservato. Ebbene, allargando lo sguardo a tutta l’Amazzonia occidentale, sono stati documentati 11 accessi di questo tipo alle piattaforme di perforazione e sei invece che non utilizzano strade, ma metodi alternativi come elicotteri o corsi d’acqua.
Si parla in questi ultimi casi di “modello di produzione offshore” che imita le modalità di estrazione petrolifera in mare aperto. L’idea è che la piattaforma di perforazione debba essere considerata come un’isola nell’oceano (la foresta) cui si accede per l’appunto solo in elicottero o con barche. “Noi riteniamo – sostengono gli autori dello studio – che l’adozione su larga scala del modello di produzione offshore sia una delle azioni più importanti per minimizzare i futuri impatti ecologici che possono derivare dall’attività di estrazione petrolifera in Amazzonia”. Del resto, precisano, questo non implica costi superiori come invece si potrebbe pensare. Uno studio coordinato ancora da Finer nel 2013 dimostra infatti che l’eliminazione della rete di accesso stradale unita ad altre pratiche volte a ridurre l’impatto ambientale nella foresta, tra cui la tecnica della perforazione orizzontale (extended reach drilling) che consente di ridurre le piattaforme di trivellazione raggiungendo con un unico impianto punti anche distanti di un giacimento petrolifero nel sottosuolo, permetterebbe addirittura di tagliare le spese sul lungo periodo.
Il problema, spiegano gli autori della ricerca, sta principalmente nell’assenza di regolamentazione: “Manca ancora una normativa vincolante che proibisca di costruire nuove strade di accesso agli impianti”. In pratica, conclude De Marchi, non esiste nessuna azione da parte delle politiche pubbliche per governare questo tipo di attività e che imponga alle imprese di seguire determinati criteri.
Monica Panetto