CULTURA
Pogrom: l’altra faccia del genocidio
Foto: CAMERA PRESS/PA/IN/PR/contrasto
“Nell’affrontare ciò che è avvenuto nell’Europa orientale, soprattutto nei territori sovietici occupati dall’esercito tedesco a partire dal giugno del 1941, occorre insistere sul fatto che si tratta del luogo del genocidio degli ebrei, in cui morirono tra i 2,5 milioni e i 3,3 milioni di persone: almeno la metà delle vittime della Shoah”. Antonella Salomoni, ordinario di storia contemporanea all’università della Calabria, è stata chiamata a tenere una lezione magistrale in occasione delle iniziative dell’ateneo padovano per la giornata della memoria, e ha deciso di dedicare la sua relazione ai pogrom, le persecuzioni di cui furono oggetto gli ebrei nell’Est europeo. “Insisto su questo elemento – spiega la docente – perché un aspetto singolare della storiografia della Shoah è stato che per molto tempo questa parte di mondo è rimasta un territorio ampiamente inesplorato”. Un rapporto difficile, quello tra popolazione e comunità ebraica nel nostro continente, di cui il periodo nazista non costituisce che un capitolo, anche se certamente il più sanguinoso.
Professoressa, partiamo innanzitutto da una definizione: cosa si intende quando parliamo di pogrom?
Pogròm è una parola russa che rimanda “visivamente” a un atto di “devastazione” selvaggia dell’habitat di una popolazione inerme. L’etimologia non è chiara; in russo e in ucraino grom e hrim rimandano al tuono, al fragore, alla tempesta. A partire dal XIX secolo significa lo scoppio improvviso dell’aggressività di massa, con intenti distruttivi, contro una minoranza (religiosa, etnica, nazionale) o contro un gruppo sociale.
Come nasce questo fenomeno?
Un primo episodio importante nell'ondata di pogromy che prende l'avvio alla fine dell'Ottocento risale alla notte tra il 15 e il 16 aprile 1881 nella città russa di Elisavetgrad, nella settimana che seguiva la Pasqua ortodossa e un mese dopo l'assassinio dello zar Alessandro II. Inizialmente si trattò soprattutto di azioni al solo scopo di partecipare ai saccheggi, anche se fin da subito ci furono anche vittime. Successivamente ci furono altri episodi sempre più gravi: in particolare nel 1903, fomentato dalla stampa antisemita che aveva lanciato un’accusa di omicidio rituale, e soprattutto in seguito alla rivoluzione del 1905. I pogromy più sanguinosi ebbero però luogo negli anni della guerra civile, soprattutto tra il 1919 e il 1921, in Ucraina e altre località della Russia e Bielorussia. Le stime sulle vittime sono solo approssimative e oscillano fra le 70.000 e le 180-200.000. L’estensione dei massacri e delle distruzioni, così come il fatto che in molti luoghi i responsabili ebbero per lungo tempo in mano il potere, fa avvicinare questi pogromy al genocidio nazista, come si sottolinea in numerose testimonianze che parlano di una “distruzione più o meno definitiva della popolazione ebraica”.
C’è una relazione tra pogrom e Shoah?
Anche durante la Shoah continuano ad esserci pogromy; ce ne furono anzi addirittura anche dopo la fine della guerra. Allo stesso tempo però durante l’occupazione tedesca viene introdotto nella forma-pogrom un elemento che non esisteva nelle fasi tra il 1881 e il 1921. Il pogrom entra infatti in relazione con il collaborazionismo delle popolazioni, indotte a entrare nella volontà di sterminio dichiarata dal programma nazista. Quando, immediatamente dopo l’occupazione tedesca dei territori ucraini, polacchi o lituani, dove ancora viveva la maggioranza degli ebrei sovietici, i nazisti spingono il popolo a scatenare la violenza sui loro “vicini” ebrei, ad appropriarsi dei loro beni, a sostituirsi nelle loro case e occupazioni, si fondano sulla conoscenza delle pratiche di pogrom come costante della storia nazionale (in particolare, ucraina) e inducono a un livello di partecipazione così allargato che dovrà in buona parte essere “saltato” nei manuali di storia che accompagnano il ritorno alla normalità.
Il genocidio degli ebrei non è stato quindi perpetrato solo nei campi di concentramento.
Uno degli elementi più rilevanti dello sterminio nei territori dell’Europa orientale è dato dalla sua “esplicita natura pubblica”. Le vittime furono trucidate a colpi d’arma da fuoco dopo essere state prelevate alla presenza dei concittadini e avviate a piedi verso il luogo dell’esecuzione, nelle immediate vicinanze dei luoghi di residenza, se non addirittura in prossimità delle proprie case. Ancora oggi spesso il senso comune associa la “soluzione finale” ai campi di sterminio, con un inconveniente. La riduzione della Shoah all’esperienza concentrazionaria ha portato a restringere la problematica a una relazione tra esecutori, i tedeschi, e vittime, gli ebrei. Ormai però, accanto a questa relazione duale, è emerso con forza un elemento più complesso: la “complicità” delle popolazioni locali nello sterminio, una complicità su cui il dispositivo politico e storiografico inter-alleato aveva fatto calare il silenzio nell’immediato dopoguerra. Le quattro unità degli Einsatzgruppen che operarono in territorio sovietico potevano contare, all’incirca, su 3.000 uomini. Ci si deve dunque chiedere come un numero di individui relativamente esiguo abbia potuto compiere eccidi di portata così ampia. Per molto tempo si è voluto trovare nella “passività ebraica” una risposta alla facilità con cui le vittime ebree andarono incontro alla morte. Ma il fatto di aver a lungo omesso di valutare il peso del collaborazionismo ha impedito di avere una visione più corretta e completa degli eventi.
Chi si macchiò della responsabilità dei pogrom sotto il nazismo?
Nei primi giorni dell’invasione, subito dopo la ritirata dell’Armata rossa, in Lituania, Lettonia, Ucraina occidentale (ovvero la Polonia orientale ch’era stata occupata dall'Unione Sovietica) e, in misura minore, in Bielorussia e nella Russia centrale, scoppiarono dei pogromy spontanei: l’assassinio degli ebrei e il saccheggio delle loro proprietà avvenne prima ancora dell’intervento degli Einsatzgruppen e senza alcun concorso delle truppe della Wehrmacht, per opera di connazionali cristiani. Inizialmente dunque i tedeschi si limitarono a fornire un “contesto di legittimazione” agli eccidi, e solo in un secondo momento vi diedero una forma più pianificata. Fu questa l’occasione per l’ingresso sulla scena delle formazioni paramilitari, quasi tutte ferocemente antisemite, come il battaglione lituano TDA (Tautinio Darbo Apsaugos batalionas), i miliziani lettoni guidati da Viktors Arājs e l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN, Organizatsia Ukrainiskich Nationalistiv), la cui fazione più influente era capeggiata, al momento dell’invasione, da Stepan Bandera, che fu anche coadiuvato dai famigerati battaglioni di volontari “Nachtigall” e “Roland” e la divisione Waffen-SS “Halychyna”.
Si può dire che sostanzialmente la popolazione collaborò allo sterminio?
Certo, non si può certamente assimilare l’atteggiamento della popolazioni locali nel loro insieme all’attività complice delle unità di polizia ausiliare o ai battaglioni di volontari integrati nelle formazioni militari tedesche, ch’erano una componente del tutto minoritaria della società. Ma, nel complesso, occorre sottolineare la popolazione locale dimostrò un atteggiamento largamente passivo o “neutrale” di fronte alle violenze. Anche se non mancarono generiche reazioni negative che finirono per essere registrate con preoccupazione dagli organi di controllo dell’apparato militare tedesca, né soprattutto singole azioni di ribellione e di soccorso delle vittime. Atti che un testimone, lo scrittore Vasilij Grossman, ha chiamato di bontà illogica: “…la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile. La bontà delle guardie che, a rischio della propria libertà, fanno avere a mogli e madri – non ai loro sodali di fede, questo no – le lettere dei prigionieri. La bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie”.
Daniele Mont D’Arpizio