SOCIETÀ

Profughi, 35 anni fa li volevamo

C’è stato un momento in Italia in cui i paesi e le famiglie si litigavano i profughi. Non nel senso che non li volevano, ma che facevano a gara per dar loro rifugio e sostegno. Accadeva 35 anni fa; a fine gennaio 1980 la Caritas padovana è costretta a comunicare che non ci sono abbastanza rifugiati: “È opportuno precisare che a Padova è possibile accogliere ancora una sola famiglia e che le offerte messe generosamente a disposizione – circa una ventina – non potranno venire utilizzate”.

Facciamo un passo indietro. È il 20 agosto 1979 quando tre navi da guerra dell’ottavo gruppo navale – la Vittorio Veneto, l’Andrea Doria e la Stromboli – entrano nel bacino di San Marco. Ad accoglierli ci sono ministri, il patriarca di Venezia e una folla festante e curiosa; a bordo, reduci da settimane di navigazione senza scalo, oltre all’equipaggio ci sono oltre 900 profughi vietnamiti, salvati dalla Marina Militare nel Mar Cinese Meridionale. Sui giornali li chiamano boat people: fuggono dalla repressione e dalle nuove guerre (contro la Cambogia e l’ex alleato cinese) del regime comunista, che è appena riuscito a cacciare gli americani e a riunificare il Paese.

Tanti cercano di fuggire via mare verso Thailandia, Malesia e Indonesia, spesso provvisti solo di imbarcazioni di fortuna: migliaia di loro, forse centinaia di migliaia, periscono tra le onde e a causa dei pirati, altri sono falcidiati nei campi profughi dalla fame e dalle malattie. Ma c’è anche chi ce la fa, come la giovane To Cam Hoa, che oggi è sposata e vive vicino a Treviso: “Il viaggio durò in totale due mesi, tra cui 15 giorni sulle coste della Malesia, vivendo situazioni drammatiche e selvagge, senza nessun mezzo per poter sopravvivere...”. Nei paesi vicini i profughi vengono infatti trattati con brutalità: la famiglia Hoa (12 persone tra cui nonno, bisnonna e tre bambini), viene obbligata assieme a oltre 100 profughi a risalire sulla barca con cui è arrivata, che viene rimorchiata al largo e quindi abbandonata alla deriva assieme a tante altre. “Tra un respingimento e l'altro siamo rimasti poi 15 giorni in mare aperto – ricorda oggi la donna – incastrati come sardine in piccole imbarcazioni col motore scassato e totalmente inadatte per la navigazione sull'oceano. Il tutto in condizioni pietose e affrontando i peggiori scenari possibili: minacce di morte, stupri, aggressioni di pirati, fame, sete, tempeste e persino episodi cannibalismo...”. Finché, a circa 300 chilometri da Singapore, viene raccolto dalle navi italiane, mandate dal governo in una missione di salvataggio sull’onda dell’indignazione popolare. 

In quel momento infatti dei profughi vietnamiti si parla in tutto il mondo: intellettuali come Jean-Paul Sartre e Raymond Aron portano la questione davanti al presidente francese Giscard d’Estaing. Sono gli anni della Guerra Fredda e intorno alla questione si polarizzano anche le posizioni politiche: c’è chi considera i rifugiati alla stregua di traditori e collaborazionisti con il precedente regime, mentre altri vedono nell’emergenza un’occasione per sottolineare gli orrori del socialismo reale.

Sta di fatto che, anche per questo, nella Penisola scatta una vera e propria gara di solidarietà, in particolare nel Veneto allora ancora ‘bianco’. Il coordinamento regionale per gli aiuti viene stabilito a Padova, la città dove i profughi accolti sono più numerosi. In prima linea ci sono soprattutto la Croce Rossa Italiana e la Caritas: la risposta è immediata e solidale, come riportano i giornali di allora. In poco tempo vengono messi insieme 26 milioni e mezzo di lire tramite la raccolta di indumenti usati, che viene per la prima volta sperimentata come modalità di autofinanziamento, mentre una somma almeno altrettanto grande arriva dalle donazioni private. Poi ci sono offerte in natura, proposte di lavoro e di abitazioni: una famiglia si offre di costruire una casa a una famiglia viet, mentre una ditta si offre di arredarla. Una scolaresca raccoglie il necessario per comperare il motorino e una macchina per cucire agli ‘amici profughi’, mentre i dipendenti della banca Antoniana si tassano lo stipendio fino all’agosto dell’80, versando ogni mese i loro risparmi nel conto corrente della Caritas. Il settimanale diocesano la Difesa del popolo riporta addirittura che “Un’infermiera dell’ospedale, vedendo una signora viet senza orologio, s’è sfilato il suo e glielo mette al polso”, mentre i commercianti padovani inviano generi alimentari in occasione del Natale. Molti ospitano i rifugiati direttamente nelle loro case, non solo nel capoluogo: accade ad Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte, Zugliano...  E gli aiuti non sono solo materiali: alla celebrazione del Têt (il capodanno vietnamita) del 1981, organizzata a Tencarola, prendono parte anche 300 italiani. 

Adesso questa gara di solidarietà può fare addirittura sorridere, soprattutto se paragonata con le polemiche di attuali, che spesso danno l’immagine di un Veneto chiuso e poco solidale. Certo si tratta di situazioni profondamente diverse: allora si trattò di salvare e portare in Italia poche centinaia di persone nel corso di un’unica missione, mentre nei soli primi nove mesi del 2015 hanno attraversato il mare verso le nostre coste oltre 120.000 esseri umani. Totalmente diversa è inoltre la situazione politica e internazionale. A parte il “caso” boat people i rifugiati e i richiedenti asilo nel dopoguerra erano pochi, quasi solo europei e spesso intellettuali o comunque appartenenti alle classi borghesi e benestanti.

Oggi la divisione non è più tra Est e Ovest, comunismo o capitalismo, ma tra Nord e Sud, ricchi e poveri. Ai paragoni troppo facili è contraria anche To Cam Hoa:  “Personalmente non voglio né l'etichetta di ‘ex immigrati vietnamiti virtuosi’, allo scopo di rafforzare la propaganda razzista, xenofoba e ‘anticomunista’, né sono con chi vorrebbe strumentalizzare la diaspora vietnamita in chiave ‘pro-immigrati’. Dal mio punto di vista sarebbe utile che i racconti non venissero volutamente spettacolarizzati eccessivamente, dando l'effetto di ‘storia strappalacrime’, o al fine di suscitare pietà e misericordia...”. Poi c’è anche una questione più profonda: forse nell’Italia e nel Veneto prima degli anni ’80 il benessere non aveva ancora fatto dimenticare un passato recentissimo fatto di povertà e di emigrazione, e la solidarietà era ancora un valore fortemente condiviso. Soprattutto però l’Italia di allora si sentiva finalmente un Paese ricco e pacificato, mentre quella di oggi si percepisce impoverita e in declino. 

Daniele Mont D’Arpizio

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