SOCIETÀ

Profughi, un’Europa senza strategia

È passato più di un mese dalla storica decisione della cancelliera Angela Merkel di accogliere tutti i rifugiati siriani, compresi quelli provenienti da altri paesi come l’Ungheria. Pochi giorni dopo sono state le immagini del corpicino di Aylan Kurdi abbandonato sulla spiaggia a dare l’immagine plastica di un dramma fino ad allora volutamente ignorato. Eppure l’Europa sembra dibattersi ancora alla ricerca di una strategia comune sui migranti che bussano alle sue porte, siano essi in fuga dalle zone di guerra oppure semplicemente alla ricerca di un domani migliore.

Ai confini intanto la pressione non accenna a diminuire: secondo l’agenzia Onu per i rifugiati (UNHCR) nei primi nove mesi del 2015 hanno attraversato il Mediterraneo oltre 520.000 migranti, contro i 216.000 di tutto il 2014. E l’esodo, nonostante le condizioni meteo in peggioramento, continua al ritmo di oltre 5.000 persone al giorno. I tre quarti dei migranti passa dalla Turchia alla Grecia, il restante è assorbito quasi interamente dall’Italia. La maggior parte di loro fugge da guerre e persecuzioni: il 55% proviene dalla Siria, il 14% dall’Afghanistan, il 6% dall’Eritrea (che però in Italia è la prima nazionalità con il 26% degli arrivi, seguita con il 13% dalla Nigeria).

Una questione immane di fronte alla quale però l’Europa continua a dividersi. Come lo scorso 22 settembre, a proposito di un accordo di principio che per la prima volta prevede una ripartizione dei migranti: circa 120.000 persone nei prossimi 24 mesi dovrebbero essere spostate dall’Italia e soprattutto dalla Grecia verso altri paesi dell’Unione Europea. Un importante passo avanti, forse, ma comunque non immune da criticità secondo Simone Paoli, esperto di politiche dell’immigrazione e docente presso l’International Studies Institute (ISI) di Firenze. “A parte il fatto che il compromesso è per il momento rifiutato da diversi paesi – commenta lo studioso – non sarà semplice trasferire i rifugiati dove non vogliono stare, perché magari hanno i familiari altrove o perché cercano migliori condizioni di lavoro e un welfare più generoso. In secondo luogo l’accordo riguarda un numero irrisorio di persone, rispetto a un fenomeno che invece è destinato ad aumentare”.

Dalla ripartizione sono per il momento esonerati, in base ai trattati, il Regno Unito e la Danimarca, mentre continuano ad opporsi soprattutto Ungheria, Slovacchia e Romania. Come mai? “In particolare i paesi dell’Est vivono un periodo di forte nazionalismo dovuto alla loro storia recente. Molti inoltre presentano già forti minoranze etniche con cui c’è già un equilibrio delicato: pensiamo solo ai russofoni nelle repubbliche baltiche, oppure ai Rom in Ungheria e Romania. Si tratta infine di nazioni che solo negli ultimi anni hanno acquisito un certo benessere, che vedono oggi minacciato dall’arrivo dei profughi. Siamo insomma di fronte a manifestazioni di inquietudine e di paura, da capire piuttosto che da demonizzare. Altrimenti si rischia di spingere ancora di più questi paesi verso posizioni antieuropee e xenofobe”. 

Dall’altra parte il fronte dei governi più aperti nei confronti degli immigrati, guidato da una Germania che sembra voler riguadagnare popolarità a livello internazionale (si parla di un Nobel per la pace per Angela Merkel) ma che inizia a manifestare forti difficoltà di fronte a una sfida forse sottovalutata.  Difficoltà recentemente ammesse ufficialmente anche dal ministro degli interni Thomas de Maizière, mentre il mese scorso si è dimesso anche il presidente dell’ufficio federale per la migrazione e i rifugiati Manfred Schmidt. Il governo tedesco è inoltre accusato di aver messo in crisi con la sua mossa unilaterale l’accordo di Schengen, che prevede la libera circolazione tra i paesi contraenti. Pochi giorni dopo l’accoglienza a suon di fanfara dei profughi nelle stazioni infatti l’Austria, la Slovenia e persino la stessa Germania hanno infatti temporaneamente reintrodotto i controlli alle frontiere: “Credo che in effetti quella tedesca sia stata una mossa avventata, dovuta più a ragionamenti di breve termine che a una vera e propria strategia – dice Simone Paoli –. Simboli e messaggi sono particolarmente importanti in un modo globalizzato: internet è diffusa ormai anche nei paesi più poveri. Se la Germania dà un messaggio del genere l’impressione è che tutta l’Europa voglia cambiare strategia”. 

Proprio la Germania e il Nord Europa, così pronti a rimproverare gli altri per il trattamento dei migranti, spesso in passato hanno rimproverato i paesi periferici di essere ‘colabrodi’ nei confronti dell’immigrazione irregolare (È di queste ore la notizia che l’Unione Europea progetterebbe di espellere circa 400.000 extracomunitari). E ancora oggi chiedono che gli ingressi siano regolati tramite l’introduzione dei cosiddetti hotspot. Di cosa si tratta esattamente? “Sono centri temporanei, che in 72 ore dovrebbero procedere all’identificazione e stabilire se una persona è un immigrato economico oppure di un richiedente asilo. Nel primo caso si dovrebbe procedere immediatamente all’espulsione, mentre nel secondo si verrebbe trasferiti nei centri di identificazione ed espulsione (CIE) per una valutazione della loro richiesta di asilo”. L’Italia per il momento non sembra entusiasta: “Negli hotspot , come per Frontex, opererebbero funzionari europei, quindi l’Italia perderebbe sostanzialmente una parte importante del potere di controllo dei propri confini”.

Detto questo, conclude Paoli, l’Europa deve sciogliere un nodo: l’accoglienza è davvero l’unica soluzione? “Temo di no. L’UE deve innanzitutto decidere se essere per le aree vicine un elemento di stabilità oppure – come troppo spesso è accaduto: pensiamo alla Libia – di destabilizzazione. Nell’immediato bisognerebbe inoltre riflettere sulla possibilità di allestire campi profughi temporanei, vicino ai paesi di provenienza oppure dentro enclavi protette”. Questo da una parte ridurrebbe la pressione alle frontiere europee, dall’altra favorirebbe, una volta passata la crisi, un futuro rientro nelle aree di origine, che altrimenti rischiano in futuro di non riuscire più a riprendersi: “Per tutto questo però ci vorrebbe una politica europea di ampio respiro, che comprenda almeno i prossimi 10 anni. Al momento però non la vedo possibile, purtroppo”.

Daniele Mont D’Arpizio

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