Ha già ricevuto un nutrito fuoco di sbarramento il “budget moderno” per il periodo 2021-2027 che la Commissione Europea ha approvato e presentato al parlamento di Strasburgo lo scorso 2 maggio su proposta del presidente, Jean-Claude Juncker. Ma tutto – o, almeno, molto – sarà deciso tra poco più di una settimana, lunedì 14 maggio, quando il piano di investimenti sarà sottoposto al Consiglio del ministri dell’Unione Europea.
La proposta ufficiale della Commissione prevede una spesa di 1.135 miliardi di euro nel corso di sette anni (162 miliardi l’anno). Non è molto: si tratta di non più dell’1,11% del prodotto interno lordo (Pil) dei 27 paesi dell’Unione. Ma Juncker e la sua Commissione propongono non solo di recuperare tutta la fetta del bilancio che viene a mancare con la Brexit (l’uscita dall’Unione del Regno Unito), ma anche di aumentare la dotazione a disposizione di Bruxelles. Per aumentare il gradiente di integrazione dell’Europa. Il che, a quanto pare, non è nelle corde di molti membri dell’Unione. Ma su tutto questo si pronuncerà il Consiglio dei ministri del 14 maggio.
È interessante, però, notare che il “budget moderno” – la definizione è di Juncker – prevede il raddoppio degli investimenti europei di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S): si tratta di passare dai 77 miliardi di euro (11 miliardi l’anno) del settennio 2014-2020 a 160 miliardi di euro del periodo 2021-2027: il che significa 23 miliardi di euro l’anno. Ancora una volta non è molto in assoluto: appena il 6% degli investimenti complessivi in R&S dei 27 paesi dell’Unione. Eppure è una cifra significativa. Per due ordini di motivi.
1. Perché le comunità scientifiche di molti paesi europei dove gli investimenti in R&S, a iniziare dall’Italia, sono carenti sopravvivono solo grazie ai fondi di Bruxelles. Raddoppiare quei fondi significa dare ossigeno alla scienza e all’innovazione dei paesi più poveri o comunque meno generosi dell’Unione.
2. Perché è un passo, piccolo ma appunto significativo, verso quello “spazio europeo della ricerca” indicato dall’italiano Antonio Ruberti – ovvero, una maggiore integrazione dell’attività di R&S – come fattore decisivo per rendere la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica dell’Europa competitiva con gli antichi (USA, Giappone) e i nuovi (Cina, Corea del Sud, India) player mondiali.
È almeno un quarto di secolo che l’Unione Europea ha chiaro quale sia l’importanza della quantità e della qualità degli investimenti in R&S per il suo ruolo nel mondo. Antonio Ruberti ha iniziato a parlare della necessità di uno “spazio europeo della ricerca” fin dal 1993, quando divenne Commissario alla ricerca nell’ambito della terza Commissione Delors.
E l’indicazione di Ruberti ha avuto non poca influenza nel piano che Jacques Delors propose, a sua volta, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso: fare dell’Europa l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza.
Questo impegno fu ufficialmente assunto dal Consiglio dei ministri di Lisbona nell’anno 2000, con un’indicazione precisa: dobbiamo cogliere l’obiettivo entro e non oltre il 2010. Due anni dopo, un altro Consiglio dei ministri, tenuto a Barcellona, indicò anche come fare: portare gli investimenti in R&S ad almeno il 3,0% del Prodotto interno lordo dell’Unione.
Il 2010 arrivò, ma l’intensità degli investimenti europei non era mutata. L’Unione continuava a investire in R&S il 2,0% del PIL, contro il 2,8% degli USA o il 3,3% del Giappone. Si decise allora di reiterare il programma di Lisbona (e di Barcellona) fissando come data limite il 2020. Manca poco, ma l’intensità degli investimenti europei non è granché mutata: siamo intorno all’1,9%. Siamo rimasti così stabilmente indietro a USA e Giappone, mentre anche la Cina (2,1% di investimenti in R&S rispetto al PIL) ci ha superato. Per non parlare della piccola ma combattiva Corea del Sud, che investe in ricerca oltre il 4,0% del PIL, contribuendo così a fare del Sud-Est asiatico un nuovo polo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica mondiale.
Non solo, dunque, l’Europa non è diventata l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza, ma è stata superata di fatto da altre regioni del mondo.
Non sarà certo l’approvazione del “budget moderno” della Commissione Juncker a cambiare gli equilibri mondiali. Ma il Consiglio dei Ministri del 14 maggio avrà un valore simbolico importante. Se darà retta agli egoismi nazionali, l’Europa continuerà ad arretrare. Se approverà la proposta Juncker dimostrerà di volere almeno iniziare a fare sul serio.
La comunità scientifica europea non dovrebbe attendere in maniera passiva il 14 maggio. Ma dovrebbe esercitare una pressione forte sui 27 governi dell’Unione. Perché in ballo non ci sono solo grandi obiettivi generali: l’economia e il ruolo dell’Europa nel mondo (e non è davvero poco). In ballo c’è anche la possibilità di continuare a fare ricerca di eccellenza nel Vecchio Continente. Con un’Europa della ricerca frammentata, sarà molto difficile anche per i paesi più avveduti, tenere il passo con il resto del mondo. Solo con una forte integrazione del suo sistema di ricerca l’Europa unita potrà rinnovare la sua antica tradizione e competere alla pari col resto del mondo.
Pietro Greco