CULTURA
Razzismo, un presidente di colore non basta
Foto: Reuters/Andrew Nelles
"Ti scrivo nel quindicesimo anno di età. Scrivo perché questo è l’anno in cui hai visto Eric Garner [agosto 2014] soffocato fino a morire per aver cercato di vendere delle sigarette di contrabbando, ti scrivo perché sai anche di Renisha McBride uccisa per aver chiesto aiuto [novembre 2013] e di John Crawford [agosto 2014] abbattuto a colpi di pistola mentre si aggirava in un supermercato. E hai visto uomini in uniforme uccidere Tamir Rice [novembre 2014] un ragazzino di dodici anni, quegli stessi uomini che avrebbero dovuto, invece, proteggerlo. E hai visto ancora uomini in uniforme picchiare selvaggiamente Marlene Pinnock mentre camminava ai lati di una statale [luglio 2014]. Adesso sai, per la prima volta, che alla polizia del tuo paese è stata data l’autorità di distruggere il tuo corpo. E non importa se questa distruzione è dovuta a una reazione sproporzionata e smisurata, non importa se sia causata da un fraintendimento, non importa se questa distruzione sia dovuta a una polizia impazzita. Cerca di vendere sigarette senza autorizzazione e il tuo corpo sarà distrutto".
Mentre si leggono queste pagine del durissimo pamphlet di Ta-Nehisi Coates, giornalista del “The Atlantic” e vincitore del National Book Awards, vengono in mente le parole della bellissima Strange fruit cantata da una dolente Billie Holiday nel 1939: "Black bodies swinging in the southern breeze/strange fruit hanging from the poplar trees".
Strange fruit denunciava i linciaggi a danno dei neri nell’America del sud, Coates denuncia, invece, il fatto che l’America non è mai entrata nella fase post-razziale, come l’elezione di Barack Obama avrebbe potuto far sperare, anzi: gli Stati Uniti sono ancora un luogo di discriminazione e di razzismo.
L’elezione del primo presidente di colore ha portato una discontinuità solo a livello della rappresentazione simbolica (fine dell’egemonia politica dell’élite bianca). In un articolo apparso su “The Atlantic”, Coates definisce la politica di Obama, rispetto alla questione, "a monument of moderation" e in seguito, nel notevole The Case for Reparations, del giugno 2014, elogerà, invece, una figura come quella di Lyndon Johnson e, in particolare, il discorso che lo stesso Johnson tenne alla Howard University di Washington, la stessa in seguito frequentata da Coates, che nel 1965 disse candidamente che «negro poverty is not white poverty». Gli Stati Uniti non sono mai entrati in nessuna fase post-razziale, anzi il razzismo, con le sue infinite metamorfosi, esiste ed è l’eredità più evidente di 250 anni di storia americana
Scritto sotto forma di lettera al figlio Samori, Beetwen the World and me è un testo su che cosa vuol dire essere neri negli Stati Uniti raccontato da una prospettiva inedita, se si può dir così. Essere nero vuol dire esporsi continuamente al sospetto dei bianchi, alle attenzioni della polizia che vede nell’afroamericano un delinquente potenziale che può umiliare e colpire quasi impunemente. Che un padre di colore prepari il figlio a questa possibilità sembra il più necessario degli argomenti pedagogici: come comportarsi in una società dove i neri sono i più esposti alla violenza istituzionale, come quella della polizia. Imparare ad aver paura, sembra farci intendere Coates, può salvare la vita a un giovane nero americano. Lo stesso De Blasio, il sindaco di New York, contestatissimo dal sindacato dei poliziotti americani, ha detto, dopo la morte di Eric Garner, che i giovani afroamericani hanno una legittima paura di chi, invece, dovrebbe proteggerli.
Figura della violenza giuridica, la polizia può in ogni istante distruggere il tuo corpo, scrive Coates: «they were not human to me. Black, white, or wathever; they were the menaces of nature; they were the fier, the comet, the storm, which could – with non justification – shatter my body». Nella polizia sembra riflettersi e depositarsi tutta la realtà storica del razzismo americano.
L’americano, scrive Coates, crede nella realtà delle razze, è questa fede uno dei caratteri indiscutibili della fondazione americana, e le ultime vicende a cui abbiamo assistito, dai fatti di Ferguson fino alla recente strage di Charleston, non sono altro che l’ennesima conferma di questo peccato originale. Le origini degli Stati Uniti, il sogno americano, sono anche una storia di corpi martoriati, di corpi ridotti a merce e a instrumentum vocale, mai origini di una nazione sono state così intrecciate a una brutalità profondissima, forse solo nell’Inghilterra all’ alba del capitalismo industriale.
Di recente Quentin Tarantino ha rappresentato potentemente questa vicissitudine del corpo dei neri in Django Unchained, film da tenere sempre sott’occhio mentre si legge il libro di Coates.
Coates estremizza e semplifica: se tu sei nero devi avere sempre paura e perche il tuo corpo è vulnerabile.
Fear, “paura” (che appare 67 volte in poco più di 150 pagine) è la parola chiave del saggio; la ricorrenza lessicale sembra, infatti, sostenere da sola l’interpretazione complessiva della storia americana.
Equilibrando autobiografia (l’infanzia a Baltimora, l’Università, la morte violenta dell’amico Prince Jones) e riflessione storico-sociale, per esempio sulla la guerra civile e sul segregazionismo, Coates sviluppa per parte sua alcune considerazioni che hanno come sfondo il James Baldwin di The Fire Next Time (edito in Italia da Feltrinelli), della quale intende essere esplicita filiazione, e i discorsi e la grande autobiografia di Malcolm X: che cosa vuol dire essere nero in un società dominata dai bianchi?
In fondo, per il giornalista dell’“Atlantic”, è come se nulla fosse cambiato dal 1776 a oggi e, anzi , è come se il razzismo si fosse presentato proprio ora nella sua forma più pura, senza la necessità della giustificazione economica.
Coates ci propone una versione del razzismo come esperienza viscerale e istintiva, che la coscienza americana, anche quella più liberal, sembra dimenticare o occultare in concetti come “giustizia razziale”, “fine della segregazione”, “diritti civili”; oggi invece razzismo è ancora per Coates: "dislodges brains, blocks airways, extracts organs, cracks bones, breaks teeth".
C’è, nello stile colto di Coates, una verticalità espressionistica che ricorda il percussivo ritmo urbano del gruppo NWA, si pensi a un pezzo come Fuck ta police, per esempio: "So police think/they have authority to kill a minority/[…] thinking every nigga is selling narcotics".
Beetwen the world and me è anche un libro sul rapporto tra due generazioni di afroamericani dove ad essere enfatizzata non sono tanto la discontinuità e la differenza quanto la permanenza e l’invarianza, "Ricordati – scrive Coates al figlio – che i neri sono stati per più tempo schiavi che liberi".
Di tutte le eredità, la paura è il lascito più inquietante che un padre può trasmettere al figlio.
Sebastiano Leotta