SCIENZA E RICERCA
Resistenza agli antibiotici: pesticidi sotto accusa
Non è trascorso molto tempo da quando l’European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sottolineavano l’impatto che la resistenza agli antibiotici può avere sulla salute pubblica. In termini di aumento nei costi di assistenza sanitaria, di ricoveri ospedalieri prolungati, di fallimento delle terapie. Ma il pericolo è anche un altro e cioè quello di tornare a un’era pre-antibiotica in cui banali infezioni possono portare alla morte. Se questi sono i rischi, oggi tra gli imputati potrebbe comparirne uno in più alla sbarra. Secondo uno studio pubblicato recentemente su mBio, sembra infatti che anche i pesticidi possano essere correlati al problema della resistenza agli antibiotici. “Abbiamo dimostrato per la prima volta – sottolineano gli autori della ricerca – che la suscettibilità dei batteri agli antibiotici può variare se sono contemporaneamente esposti anche agli erbicidi”.
Aspetto da non sottovalutare se si considera che, secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) raccolti nel biennio 2011-2012, sono stati rilevati nelle acque superficiali e sotterranee del nostro Paese 175 tipi di pesticidi diversi, un numero superiore rispetto agli anni precedenti, erbicidi in testa. Tanto che il rapporto sottolinea che sebbene le concentrazioni misurate siano spesso basse, “il risultato complessivo indica un’ampia diffusione della contaminazione”. E l’impatto che questo tipo di inquinanti possono avere sull’ambiente e sulla salute è stato da più parti messo in evidenza.
Nel caso specifico, gli scienziati hanno preso in esame erbicidi largamente utilizzati e appartenenti a due classi differenti dal punto di vista chimico, il dicamba e il glifosato. Quest’ultimo, in particolare, impiegato in oltre 750 prodotti per l’agricoltura, la silvicoltura, l’utilizzo urbano e domestico. E recentemente al centro di un dibattito per essere stato indicato dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) come sostanza “probabilmente cancerogena per gli esseri umani”. Parallelamente i ricercatori hanno considerato batteri come la salmonella enterica e l’escherichia coli che possono provocare nell’uomo rispettivamente salmonellosi e infezioni all’apparato urogenitale, meningiti, peritoniti, polmoniti. Hanno poi sottoposto a trattamento antibiotico, utilizzando cinque diverse tipologie di farmaci, i batteri prima e dopo averli esposti ai singoli erbicidi. Risultato: il batterio pretrattato con i pesticidi necessita di una quantità superiore di antibiotico per essere debellato.
La ragione sembra risiedere nella “cross-contaminazione”. “Gli agenti patogeni – spiega Stefano Moro, docente di chimica farmaceutica all’università di Padova – venendo in contatto con gli erbicidi che riconoscono come sostanza estranea, innescano gli stessi meccanismi di difesa che mettono in atto in presenza di un antibiotico”. In pratica riducono il numero di “porine” sulla loro membrana esterna, cioè le proteine deputate al trasporto di composti chimici dall’ambiente esterno a quello intrabatterico. E aumentano il numero delle “pompe di efflusso”, altre proteine di membrana che invece facilitano il trasferimento dei composti chimici dall’interno all’esterno della cellula.
“In questo modo i batteri esposti ad agenti fitoparassitari – continua Moro – diventano ad essi resistenti in maniera simile a quanto avviene quando sono esposti a trattamento con antibiotici”. È così che per via indiretta i batteri contaminati da pesticidi diventano resistenti anche agli antibiotici: meno porine e più pompe di efflusso sulla superficie batterica significa infatti ottenere una minore concentrazione di antibiotico al loro interno.
Secondo Moro si tratta certamente di uno studio pilota, sottorappresentato come numero di erbicidi utilizzati e tipologia di microrganismi considerati, che tuttavia potrebbe costituire il prototipo di una sperimentazione più allargata su altri tipi di pesticidi e di microrganismi patogeni per l’uomo. E soprattutto che apre un nuovo scenario lasciato fino a questo momento in un cono d’ombra.
“C’è un importante incredibile aumento di decessi dovuto a infezioni batteriche non più sensibili alle tradizionali terapie antibiotiche – osserva Moro – E questo anche perché abbiamo sottovalutato e gestito male il problema della resistenza”. Secondo il docente le responsabilità sono da imputarsi a diversi fattori. E indica l’uso inappropriato di antibiotici sia a livello ospedaliero che ambulatoriale per curare malattie che spesso non richiederebbero una terapia antibiotica (come le patologie virali); l’abuso a volte incontrollato di antibiotici anche in ambito veterinario; la mancanza di una corretta comunicazione.
A ciò si aggiunga il diminuito interesse da parte delle aziende farmaceutiche a sviluppare nuovi antibiotici. “L’industria farmaceutica negli ultimi anni ha trovato settori di ricerca (e dunque bacini di utenza) alternativi a quello delle patologie infettive soprattutto a carico batterico. Basti pensare che nel 2014 il farmaco più prescritto negli Stati Uniti è stato quello per il trattamento dell’ipotiroidismo, seguito da antiulcera, anticolesterolemici e antidepressivi. Farmaci, dunque, legati allo stile di vita”.
Ora la ricerca pubblicata su mBio fa riflettere anche sul ruolo che l’uso massivo di antiparassitari e biocidi in agricoltura potrebbe avere non solo, in generale, sulla salute umana ma, in particolare, sul problema della resistenza agli antibiotici.
Monica Panetto