SCIENZA E RICERCA
Schizofrenia, un'infiammazione tra le cause?
Nelle persone a rischio di schizofrenia le cellule che si occupano della difesa immunitaria nel sistema nervoso centrale (microglia) lavorano di più. E questo suggerisce una connessione importante tra infiammazione e l’insorgere della patologia. A questi risultati è giunto uno studio pubblicato recentemente nell’American Journal of Psychiatry, cui hanno contribuito l’Imperial College e il King’s College di Londra, l’University of Texas Health Science Center di Houston e l’università di Padova. Una ricerca con implicazioni importanti che, se confermata su un campione più ampio di individui, potrebbe far pensare non solo a nuovi trattamenti per chi soffre di questa patologia ma anche a interventi di prevenzione.
Studi precedenti avevano già investigato il ruolo della microglia nella patogenesi della schizofrenia e altre psicosi, rilevando effettivamente un’aumentata attività delle cellule immunitarie. Fino ad ora, però, erano stati presi in considerazione solo pazienti in cui la malattia era già stata diagnosticata e dunque non era noto quando tali cellule iniziassero ad attivarsi (quando cioè insorgesse l’infiammazione), se dopo il primo episodio psicotico o anche prima nei soggetti a rischio.
Per arrivare a una risposta i ricercatori hanno reclutato 56 persone. Di queste 14 soffrivano di schizofrenia, 14 erano a elevato rischio di contrarre la patologia, avevano cioè già manifestato sintomi come paranoia, allucinazioni, ma non avevano ancora avuto un episodio psicotico. I rimanenti 28, sani, costituivano il gruppo di controllo. Tutti gli individui sono stati sottoposti a tomografia a emissione di positroni (Pet), un tipo di diagnostica per immagini che permette di rilevare eventuali patologie attraverso modificazioni della funzionalità dell’organo interessato. Per fare ciò vengono somministrati al paziente dei radiofarmaci che contengono al loro interno molecole (isotopi radioattivi) in grado di lasciare nel corpo una traccia misurabile del processo biologico che interessa (nell’ambito della Pet solitamente chiamati traccianti).
Nel caso specifico il tracciante utilizzato ( [11C]-PBR28) ha reso necessario un “passaggio” per Padova. L’esame diagnostico infatti è stato eseguito a Londra, grazie alla strumentazione messa a disposizione dal King’s College e dall’Imperial College, mentre l’analisi completa delle immagini è stata compiuta dall’università di Padova. “Le immagini raccolte dalla Pet non erano immediatamente interpretabili – spiega Alessandra Bertoldo, del gruppo di Bioingegneria del dipartimento di Ingegneria dell’informazione, autore dello studio con Gaia Rizzo e Mattia Veronese attualmente al King’s College – Era necessario sviluppare un processo matematico che consentisse di estrarre le informazioni”. Una volta elaborata la metodologia matematica necessaria, i clinici dunque hanno potuto giungere alle loro conclusioni.
Risultato: le cellule della microglia lavorano di più non solo in chi soffre di schizofrenia, come era già stato dimostrato, ma anche in chi è a rischio di contrarre la patologia, pur non essendosi questa ancora manifestata. “Con questo studio – sottolineano i ricercatori – abbiamo fornito la prima evidenza scientifica di una elevata attività delle cellule della microglia nelle persone a elevato rischio di psicosi e abbiamo dimostrato che tale attività è direttamente proporzionale alla severità dei sintomi”. E queste conclusioni sono coerenti con gli studi, in aumento negli ultimi anni, che dimostrano esistere una componente neuroinfiammatoria nello sviluppo dei disordini psicotici.
Hugh Perry, presidente del Neuroscience and Mental Board al Medical Research Council, osserva che la schizofrenia come altre malattie mentali – è determinata da un insieme di fattori genetici e comportamentali. Ora lo studio aggiunge a una mole crescente di ricerche che l’infiammazione nel cervello potrebbe essere uno dei fattori che contribuiscono all’insorgere di patologie di questo tipo. E con queste nuove conoscenze arriva anche la speranza di trattamenti che possano cambiare la vita dei pazienti.
Gli scienziati stanno infatti continuando le ricerche per dimostrare la replicabilità dei risultati in un campione più ampio di individui, dati che si potrebbero ottenere già nel giro di un paio d’anni. Ciò con l’obiettivo finale di testare l’efficacia di trattamenti antinfiammatori. “Se i risultati venissero confermati – dichiara Peter Uhlhaas dell’University of Glasgow al NewScientist – potrebbe essere possibile per i medici individuare le persone che svilupperanno una malattia come la schizofrenia e offrire loro trattamenti preventivi”. Senza contare che gli antinfiammatori, se dimostreranno di funzionare, potrebbero essere valutati anche come soluzione alternativa alle terapie attuali che presentano notevoli effetti collaterali.
Monica Panetto