UNIVERSITÀ E SCUOLA

Una scuola da libro Cuore? Provocazione inutile

“Sono talmente perplessa in merito ai toni sbrigativi e alle facili “soluzioni” proposte nell’editoriale che mi trovo in imbarazzo a commentarlo in poche battute”. Marina De Rossi, pedagogista e docente dell’Università di Padova, delegata del Rettore per la formazione degli insegnanti, è sconcertata dall’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, la lettera aperta al neoministro dell’Istruzione Bussetti in cui lo storico propone una riforma in dieci punti della scuola italiana: un decalogo che suggerisce il ripristino di un rapporto docenti-studenti basato sull’autorità (ritorno delle pedane per innalzare fisicamente la cattedra, obbligo del saluto in piedi al professore, divieto di portare cellulari nell’istituto) e, in generale, su un’impostazione tradizionale della scuola come istituzione gerarchica centralizzata (abolizione delle rappresentanze delle famiglie negli organi scolastici, divieto di occupazione, obbligo per gli alunni di collaborare nella pulizia dell’edificio). Un appello dai toni tanto drastici da sembrare provocatorio: ed è proprio da questo aspetto che trae origine la riflessione della docente.

Ripristinare la predella e innalzare la cattedra del docente è un modo, secondo Galli della Loggia, di sottolineare che il rapporto insegnante-allievo non è paritario.

Questa è un’ovvietà. Come è altrettanto ovvio che con certe affermazioni si eluda il riferimento al concetto di autorevolezza, piuttosto che di autorità, che non si misura certo nei centimetri di distanza fisica tra professore e alunno. Per questo mi sembra che questa proposta, come tutte le altre, si fondi sul paradosso. Più che un manifesto, mi sembra una provocazione politica per il nuovo governo.

Il tratto comune del “decalogo” è il desiderio di un ritorno alla disciplina, al rispetto verso l’insegnante e l’istituzione scolastica…

Mi sembra che si scelga una modalità perentoria che rischia di banalizzare in forma di slogan temi di grande importanza e complessità quali il rapporto scuola-famiglia, i processi di maturazione di consapevolezza e responsabilità verso le regole, la partecipazione, l’orientamento alla scelta formativa. Il problema sarebbe l’invadenza delle famiglie attraverso gli organi rappresentativi? Oggi, semmai, la criticità è proprio la ricerca di strategie per ritrovare spazi significativi volti a costruire un dialogo autentico tra i diversi attori. Quanto all’obbligo di salutare l’insegnante scattando in piedi, non credo proprio che sia con questi rituali simbolici che si favorisca la comprensione e l’adesione al complesso di norme che regolano la convivenza dei componenti della comunità scuola. Il punto taciuto è quanto e come oggi i docenti giungano all’insegnamento effettivamente preparati alla gestione della complessità che caratterizza la professione; quanto sia importante che le conoscenze disciplinari declinate in prospettiva metodologico-didattica siano strettamente intrecciate a fondamenta pedagogiche, psicologiche, antropologiche, filosofiche morali, sociologiche che permettano, quelle sì, di creare solidi profili capaci di affrontare e sostenere la gestione della relazione educativa e formativa. Smettiamo di ragionare in termini riparativi (non è, infatti, un problema di carenza di sanzioni disciplinari, che sono già previste in norme e regolamenti vari) e puntiamo, invece, sulla valorizzazione della significatività dell’esperienza che la scuola può offrire a bambini e ragazzi direttamente, ma anche alle famiglie e alla società di conseguenza.

Altre proposte: divieto totale di portare a scuola il cellulare, no a occupazioni e autogestioni, obbligo per i ragazzi di aiutare a pulire la scuola.

Molte e differenti questioni enunciate in poche righe; bisognerebbe aprire un approfondimento per ognuno dei suggerimenti proposti. Mi soffermo, come esempio, sulla questione del divieto dei cellulari, che così posta sembra dare solo una rappresentazione negativa dello strumento in sé, come se l’uso improprio a scuola fosse l’unica opzione, ignorandone invece le potenzialità didattiche che una progettazione sapiente potrebbe invece valorizzare per l’apprendimento. Per quanto riguarda divieti e proposte in merito ad autogestioni, pulizia degli spazi, individuati come attività di alternanza scuola-lavoro, apertura delle biblioteche e offerta della scuola come luogo per attività culturali grazie alla collaborazione degli alunni, potrebbero rappresentare uno spunto per parlare di service learning, che non è certo una novità per chi studia il settore ma, soprattutto, non è finalizzato alla sostituzione di personale per risparmio economico. Inoltre, dimezzare il bonus di 500 euro per gli insegnanti che viene speso non sempre correttamente? Meglio pensare di mantenerlo, semmai aumentarlo, indirizzando con determinazione la norma verso seri e qualificati corsi di formazione continua, mettendo al primo posto l’Università come partner.

Infine: niente gite all’estero (prima bisogna conoscere l’Italia); obbligo di intitolare ogni scuola a una personalità illustre, diffondendone la biografia tra gli studenti.

Ancora, due proposte che fanno pensare, ma che vanno chiarite. Innanzitutto, consiglio maggior precisione nell’uso dei termini; “gite” è improprio, più corretto è parlare di uscite didattiche, definizione che ha un significato formativo ben preciso e che rappresenta un approccio metodologico di grande valenza interdisciplinare e trasversale. Richiamare l’attenzione verso il territorio italiano può avere senso, ma non aprioristicamente: l’uscita didattica non è solo una meta, ma un viaggio di conoscenza in senso ampio, sostenuto da processi di elaborazione e ri-elaborazione esperienziale correlati a obiettivi e finalità educative e di apprendimento che possono giustificare la scelta di luoghi non necessariamente riconducibili solo ai confini nazionali. La discrezionalità è data dalla consapevolezza nella progettazione, che non può essere mortificata da divieti dal sapore vagamente autarchico. Sull’intitolazione degli istituti mi pare non ci sia nulla da enfatizzare, la maggior parte delle strutture già richiamano a figure significative e così vengono conosciute e indicate nel gergo comune degli abitanti dei territori: forse si potrebbe suggerire, sempre in chiave didattica, di stimolare gli alunni a conoscere e a far conoscere le storie dei nomi delle persone apposti sulle targhe, magari contribuendo a voci di Wikipedia come compito autentico. Concludendo, ritorno alle perplessità iniziali pensando che il già limitato spazio dedicato dai media ai temi riguardanti la scuola, per lo più noti per questioni sindacali o di emergenze critiche, potrebbe essere meglio utilizzato per innalzare la qualità dei contenuti e delle forme del dibattito. Anche questo sarebbe un contributo educativo.

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