SOCIETÀ
Sei più un tipo da selfie o da "autoritratto fotografico"?
‘Pubblicare un autoritratto fotografico su una rete sociale virtuale’. Quanti oggi lo direbbero o scriverebbero, senza il timore di apparire per lo meno attempati e leziosi, quando non addirittura reazionari? Vuoi mettere con ‘postare un selfie su un social’? Più naturale e diretto, un terzo delle parole in meno e la metà dei caratteri. Questo per lo meno in apparenza. Perché, se è vero che scambi e prestiti tra le lingue ci sono sempre stati, sono in molti ad avere l’impressione che oggi si stia veramente esagerando. Una volta era normale che un mobile phone o cell phone da noi divenisse automaticamente un cellulare o un telefonino, mentre oggi non ci si preoccupa più di chiedere in negozio l’ultimo modello di smartphone. Mandando però così a benedire buona parte delle nostre regole fonologiche, e forse non solo quelle. Perché le lingue sono un po’ come le strade: le buche vanno tappate, ma possibilmente con un materiale compatibile con quello che c’è già. Altrimenti si rischia di sbandare.
Il problema non riguarda più solo la tecnologia – come si potrebbe oggi scriverne senza citare internet o il web? – ma un numero sempre più ampio di argomenti: dalla scienza alla finanza, dalla moda fino, ultimamente, alla politica. Ma che lingua è quella che non riesce più a metabolizzare e a rendere propri concetti nati su altri lidi? Può dirsi vitale ancora? Anche e soprattutto di questo si è parlato nel convegno La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, recentemente organizzato da Firenze dall’Accademia della Crusca, con l’intervento come relatore di Michele Cortelazzo, docente di linguistica italiana all’università di Padova. “Il contatto tra le lingue è naturale, e in sé non è un problema – spiega Cortelazzo – La questione nasce quando un forestierismo viene usato per sostituire denominazioni efficaci già presenti nella nostra lingua”.
Forse non c’erano incontri e conferenze prima che si utilizzasse il termine meeting? E cos’ha drink più di aperitivo? In realtà le parole straniere entrano nell’uso comune attraverso percorsi molto diversi, come ha illustrato proprio lo studioso nel suo intervento al convegno. Se proprio il successo di un termine come selfie è stato improvviso e travolgente una parola ugualmente o forse più importante, come ad esempio l’onnipresente spread, ha impiegato una ventina d’anni ad acclimatarsi, con una vita latente nei circuiti più specialistici prima di entrare nell’uso quotidiano.
Che fare? È possibile agire in qualche modo nella lingua quotidiana? “I linguisti, in particolare italiani, hanno sempre sostenuto che non è loro compito intervenire prescrittivamente sulla lingua. Sia per una questione di principio generale, che riguarda il ruolo dello studioso, sia poi per una ragione storica particolare. Fino a non molto tempo fa in Italia eravamo ancora scottati dall’esperienza dirigistica fascista, autoritaria e quindi fallimentare: dalla battaglia contro il “lei”e gli anglicismi fino al tentativo di italianizzazione forzata delle minoranze. Tutto questo ha fatto della difesa della lingua un tabù (dal fr. tabou o ingl. taboo, adattamento a sua volta di voce polinesiana, ndr) non solo per i linguisti, ma anche per la cultura italiana nel suo complesso. In altre culture romanze invece, come quella spagnola e quella francese, si cercano per lo meno delle alternative ai termini stranieri, che poi possono attecchire oppure no”.
Adesso però le cose potrebbero cambiare anche da noi: “Per almeno un paio di fattori. Innanzitutto l’incidenza dei forestierismi, per quanto spesso meno ampia di quello che si crede, pare in rapida ascesa. In secondo luogo l’uso di parole straniere può avere la funzione di mascherare piuttosto che di svelare alcuni concetti: l’uso di espressioni come Jobs act e Spending review mi sembra a questo riguardo emblematico”. Infine, in occasione del convegno, è stata lanciata una petizione per un utilizzo più corretto della nostra lingua, che in una settimana ha raccolto 60.000 adesioni in meno di una settimana: “Un risultato del tutto inatteso – analizza lo studioso – che forse misura anche un cambiamento di tendenza nell’opinione pubblica”.
Ovviamente non si tratta, spiega Cortelazzo, di cercare di impedire l’uso di uno o più termini: “Un compito decisamente inutile oltre che criticabile. Mobbing ad esempio al momento non ha alternative, se non utilizzando perifrasi lunghe e pesanti. L’uso del termine mobbizzare, in quanto derivato, indica inoltre il successo dell’espressione. Il discorso riguarda piuttosto i forestierismi incipienti, che potrebbero essere monitorati e per i quali si potrebbe cercare di creare delle alternative, che poi starebbe al pubblico decidere se abbracciare o no”.
Un ruolo, quello di seguire e in certi casi di accompagnare l’evoluzione della nostra lingua, che nel nostro sistema è storicamente ricoperto dall’Accademia della Crusca. “Nel nostro Paese è sempre esistita, da quanto esiste l’italiano, la questione della lingua. Sarebbe ora bizzarro che alle discussioni sulla lingua non partecipassero i linguisti, ovvero gli intellettuali che più sanno decifrare le dinamiche che stanno alla base del mutamento linguistico. Il loro ruolo dovrebbe essere, in qualche misura, lo stesso che in ambito economico viene svolto dalle banche centrali, che non agiscono direttamente nell’economia dei loro paesi ma svolgono azioni regolative del mercato finanziario. A volte i mercati assecondano gli obiettivi che muovono le banche centrali a intervenire, altre volte reagiscono in modi non conformi alle attese”.
È importante insomma mutare paradigma e iniziare a prendere seriamente la nostra lingua, una delle più studiate al mondo, forse la prima ad essere apprezzata innanzitutto per la sua bellezza e per la cultura che rappresenta, piuttosto che per la sua utilità concreta. Ma che proprio nel nostro paese non sembra spesso avere molti difensori: “Preoccupa che il grado di acclimatamento delle parole straniere che entrano nell’uso comune sia via via minore. Il rischio è che la stessa struttura fonomorfologica dell’italiano ne sia alterata, innescando una serie di conseguenze che nel lungo periodo potrebbero alterare profondamente la nostra lingua”.
Daniele Mont D’Arpizio