SOCIETÀ

Shoah: la storia di Almansi, "giovane poeta celeste"

Al liceo Tito Livio di Padova, come nella altre scuole del Regno, nell’estate del 1938 arrivò una circolare ministeriale urgente: da quel momento era da considerarsi vietata l’iscrizione al ginnasio e al liceo degli studenti ebrei. Nei giorni successivi con altre circolari si chiedeva alla dirigenza della scuola di censire studenti e personale, di compilare un elenco delle persone di “razza ebraica” e di verificarne i gradi di appartenenza. A settembre, chi comparisse nella lista sarebbe stato allontanato. 

Fra gli studenti, un paio di casi rimasero inizialmente in sospeso, e su di loro il preside venne chiamato a decidere a novembre. Uno di questi casi era Federico Almansi, ragazzo ebreo per discendenza paterna ma non materna, nato nel 1924 e iscritto al ginnasio dal ’35. Il padre di Federico, Emanuele, era un libraio antiquario che condivideva in quegli anni interessi di lavoro e amicizia con Umberto Saba. Da tempo il poeta era di casa dagli Almansi, presso i quali soggiornava durante le visite a Padova. In particolare, la vicinanza a Federico, che aveva conosciuto decenne, lo aveva reso agli occhi del giovane “Un dio, maestro”, figura che ricorreva nei versi scritti dal ragazzo, poeta quindicenne, quasi un’eco alle composizioni dell’uomo che aveva eletto a esempio e che tacitamente gli avrebbe dedicato alcune poesie del Canzoniere, come in una sorta di amoroso carteggio cifrato fra un maestro socratico e il suo scolaro.

Un dio, maestro, ti vedevo in terra. buona voce punivi con amore. Insegnavi speranze e beni rari. Fioriva la mia fresca età alla tua, stanca, al declino. E nella chiara estate a te venivo lungo il fiume, dove di tante cose mi parlavi ignote.

Proprio nel 1938, l’anno delle leggi razziali, il padre di Federico aveva pregato Saba di convincere il ragazzo a battezzarsi per ottenere così di diventare un “ariano puro”. Il racconto della vicenda  sarebbe comparso solo un decennio più tardi nella prefazione al libro di Federico Almansi Poesie, che Saba avrebbe scritto in sostegno al “ragazzo celeste” cui era ormai legato da un rapporto struggente e lacerante. Al poeta che cercò inutilmente di persuaderlo a battezzarsi, Federico rispose: “Resta papà, resti tu Umberto a soffrire, e vuoi che io mi salvi?”. Quel novembre, il preside del Tito Livio Attilio Dal Zotto comunicò al provveditore che “Il Tolnai, figlio di padre straniero e di madre protestante, e l’Almansi, figlio di padre ebreo e madre ariana, ma professanti religione ebrea, vengono invitati a lasciare la scuola”.

Federico continuò allora a studiare nella scuola aperta in emergenza quell’anno dalla comunità ebraica padovana in una villetta in zona Pontecorvo, che già da settembre accoglieva una trentina di compagni cui era stata rifiutata l’iscrizione al liceo. La scuola, diretta da Augusto Levi, si avvaleva dell’insegnamento dei docenti allontanati dai vari istituti e dall’università e permetteva agli alunni di accedere da privatisti agli esami di ammissione alla classe successiva o alla maturità.

Tra parenti mi muovo neri e gravi come giovane cane senz’amore. Ho un amico, un poeta, in odio al padre; per lui vede la mia anima perduta. E mi mandano a scuola: duri banchi, a imparare virtù e pazienza.

Per salvarsi dalla confisca dei beni, nel 1939 il padre di Almansi cedette la propria azienda alla moglie Onorina, ariana. Emanuele aveva sposato quella donna, profondamente diversa da lui, sperando che il suo sangue contadino lavasse quello della propria stirpe, tartassata da tare psichiche ereditarie, nell’ossessione che la follia del padre e del nonno, e poi anche sua, non venisse ereditata dai figli.

Fino al febbraio del 1940 la famiglia Almansi era parte del centinaio di ebrei padovani discriminati, probabilmente per “speciali benemerenze”. Chi compariva in quella lista poteva essere esentato da alcune restrizioni, ma non poteva comunque essere reintegrato a scuola o nelle professioni. I nomi di Emanuele e Federico Almansi scompaiono dalla lista nel novembre del 1943. Federico e il padre fuggono in Svizzera.

L’anno successivo Federico rientra clandestino ed è partigiano nell’Ossola, dalla quale è costretto a fuggire in ottobre con un amico, che vedrà colpito a morte.

… e l’amico bagnato di rugiada una rosa di sangue sulla fronte steso sull’erba  come un triste sogno chiudeva i pugni contro il cielo azzurro.

Dopo la guerra si trasferì con la sua famiglia a Milano, dove continuò a frequentare il vecchio amico poeta, Umberto Saba. Ma nel 1949 comparvero in lui i primi segni della schizofrenia. La malattia progredì inesorabile fino a divorargli l’anima, i pensieri, i ricordi, inducendo nel padre macabri piani di salvezza e fuga: nel 1952 Emanuele poggiò un revolver alla nuca del figlio addormentato e premette il grilletto. Maldestro o incapace di lucidità, fallì nell’intento di risparmiare al figlio e a sé un futuro di pazzia. Al suo processo venne chiamato a testimoniare Federico, del quale non restava ormai nulla della bellezza e della giovinezza amata un tempo da tutti. “Si era tramutato anche lui in una di quelle creature dell’uniformità e dello squallore che popolano l’istituzione manicomiale”, scrive Emilio Jona, lontano cugino di Federico, fraterna compagnia della sua esistenza svuotata, che finì nella solitudine della follia nel 1978. 

Chiara Mezzalira

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