CULTURA

Storie di volti, storia di uomini

Immaginate un sarcofago e una mummia. È il primo sacerdote del culto di Thot di Eliopoli, oggi sobborgo del Cairo, ferito a morte con una pugnalata alle spalle all’età di 35 anni. Un giovane uomo dagli occhi scuri, con lineamenti marcati e sopracciglia folte. Poco distante Francesco Petrarca stretto in abiti clericali, con il viso segnato dalle rughe, labbra sottili e naso robusto. Due volti apparentemente distanti, come epoca e cultura, cui se ne accostano altri come quello di Giovanni Battista Morgagni, dal 1711 docente di medicina teorica prima e anatomia poi all’università di Padova, o quello del beato Luca Belludi e di sant’Antonio da Padova. 

E ora andate un po’ oltre e provate a immaginare di trovarvi davanti a ognuno di loro. Non pensiate si tratti di ritratti. Alquanto improbabile? Non proprio se si considera che oggi grazie a tecnologie digitali e di ricostruzione forense è possibile riprodurre in 3D il volto di una persona partendo dal calco del cranio. È quanto è stato realizzato in una delle sezioni della mostra Facce. I molti volti della storia umana, ideata e curata da Nicola Carrara, conservatore del museo di Antropologia dell’università di Padova, con la supervisione scientifica di Telmo Pievani, docente del dipartimento di Biologia. 

Filo conduttore dell’intera mostra, il volto, che è la relazione tra noi e il mondo e racconta chi siamo e il nostro passato. Così nelle ricostruzioni facciali dei principali ominini (una sottofamiglia degli ominidi) fossili, presentati anche con tecnologie di realtà aumentata, leggiamo la storia della nostra evoluzione. Tra i molti, i quattro esemplari di Homo georgicus, che per la prima volta al mondo è possibile guardare in faccia,rimandano ai primi esseri umani che uscirono dall’Africa e raggiunsero l’Europa quasi due milioni di anni fa. O, ancora, le facce di alcune australopitecine ricordano il gruppo da cui molto probabilmente si è evoluto il genere Homo.  

Ma il volto, o meglio la “razza”, diventa anche percezione della diversità dell’altro, evidente dalle apparenze, dal colore della pelle e dei capelli, ha sottolineato qualche tempo fa il sociologo padovano Stefano Allievi. Una costruzione sociale e culturale tuttavia, perché il concetto di razza è stato ampiamente sconfessato dalla genetica. Basti pensare che la differenza genetica media è superiore all’interno di una stessa popolazione (85%) rispetto a popolazioni differenti (15%). Si tratta comunque di acquisizioni relativamente recenti e per tutto il Settecento e l’Ottocento diversi autori proposero la classificazione in diverse razze, con le conseguenze talora drammatiche che ne derivarono soprattutto durante il periodo nazista. Così la tavola dei colori dei capelli, della pelle, degli occhi, compassi e antropometri, strumenti utilizzati per misurare il corpo umano e proporre classificazioni razziali, attirano lo sguardo del visitatore. E allo stesso modo i calchi in gesso di Lidio Cipriani che rappresentano le diverse razze. 

Accanto all’antropometria, altre discipline fanno del volto (e del cranio) il loro oggetto di studio. Le tavole cinquecentesche del De humana physiognomonia di Giambattista della Porta riportano agli studi di fisiognomica, una disciplina pseudoscientifica che tanta fortuna ebbe fino all’Ottocento, al punto da influenzare artisti come Leonardo e Michelangelo. I crani frenologici, d’altra parte, ricordano gli studi di Franz Joseph Gall che elaborò la teoria secondo cui sarebbero esistite relazioni tra particolarità morfologiche del cranio e personalità. Da qui all’antropologia criminale di Cesare Lombroso il passo fu breve. Le vecchie teorie, ormai abbandonate, hanno lasciato il posto oggi alla moderna criminologia e all’antropologia forense tanto importanti nei casi di ricostruzione facciale e creazione di identikit. 

Capita però che il volto venga anche celato e, attraverso una maschera, si carichi di significati simbolici. A seconda della cultura di appartenenza la maschera può essere utilizzata per distinguersi socialmente, nei riti di passaggio o in espressioni artistiche come quelle teatrali. È il caso, ad esempio, delle maschere del teatro del Ruzzante o del famoso Arlecchino della commedia dell’arte esposte grazie alla collaborazione con il museo internazionale della maschera “Amleto e Donato Sartori” di Abano Terme. Ma è il caso anche delle maschere conservate nel museo di antropologia di Padova e provenienti da differenti collezioni etnografiche dall’Africa, dall’Asia e dall’Oceania. 

“L’obiettivo che ci siamo posti, oltre alla valorizzazione del patrimonio museale – spiega Pievani – è di far vedere come la conservazione, la ricerca e la comunicazione della scienza possano coesistere”. Il docente spiega infatti che l’esposizione è stata pensata principalmente per il grande pubblico, scuole e famiglie in particolare, attraverso un allestimento coinvolgente e narrativo, che non esclude finestre di approfondimento e postazioni multimediali e interattive, ma al tempo stesso racconta scoperte frutto delle indagini scientifiche degli ultimi anni. “Abbiamo lavorato con il colore – spiega Marisa Coppiano che si è occupata dell’allestimento della mostra – abbiamo creato un percorso armonico giocando con un elemento che ci accompagna lungo tutto il percorso espositivo che è lo specchio”. Perché uno dei primi volti che il visitatore dovrà vedere dovrà essere il proprio.

Monica Panetto

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