UNIVERSITÀ E SCUOLA

La tela di Gola, il rettore-Penelope che salvò il Bo dai nazifascisti

Dicembre 1943: l’Università di Padova è alla disperata ricerca di un rettore. Sono passate poche settimane dal crollo del fascismo e dall’annuncio dell’armistizio. Il comunista Concetto Marchesi, nominato dal governo Badoglio al vertice dell’ateneo al posto di Carlo Anti dopo la caduta di Mussolini, ha fatto appena in tempo a inaugurare il nuovo anno accademico, a novembre, prima di darsi alla clandestinità. L’arrivo dell’autunno ha precipitato Padova dalla speranza della rinascita al duplice laccio della Repubblica di Salò e degli occupanti tedeschi. Il ministro mussoliniano dell’educazione nazionale, Carlo Alberto Biggini, ha insediato il suo dicastero a pochi metri dal Bo, a Palazzo Papafava, nel cuore della città. Dall’altra parte, i docenti antifascisti organizzano la Resistenza, e il primo dicembre Marchesi diffonde l’appello con cui invita gli studenti del Bo a impugnare le armi contro “la schiavitù e l’ignominia”.

In questo quadro drammatico, in cui l’università è sotto gli occhi di tutti come nucleo centrale dell’azione antifascista veneta, i docenti del Bo sono chiamati a scegliere un nuovo rettore. La scelta cade su Giuseppe Gola: botanico insigne, prefetto dell’Orto padovano, è uno scienziato illustre e un cattolico liberale, mai distintosi né per entusiasmo verso il regime né per atteggiamenti eversivi. Il profilo, quindi, più adatto per proteggere un ateneo nel mirino: Gola, sebbene riluttante perché intuisce il compito proibitivo che lo aspetta, accetta di essere indicato dal Collegio dei presidi, e alla fine del dicembre 1943 si insedia nel momento più difficile della storia della sede padovana. Inizia così un rettorato che durerà quasi diciassette mesi, e permetterà a Gola, costretto a un equilibrismo continuo e rischioso, di condurre l’ateneo fino alla Liberazione, scongiurando la prospettiva più tremenda: che l’Università più nota per la tradizione libertaria e antitirannica sconti la sua militanza con un provvedimento di chiusura d’autorità. Un atto che avrebbe lasciato mano libera ai nazifascisti nel decidere il destino del Bo, ma anche dei tanti studenti che, per il regime, erano soprattutto potenziali truppe da arruolare.

I mesi in cui Gola tessé, secondo l’immagine di Enrico Opocher, la sua “tela di Penelope”, opponendo alle richieste e alle minacce fasciste e tedesche una resistenza passiva basata sul temporeggiare, sul troncare e sopire, sono ripercorsi dallo stesso scienziato nel suo memoriale Il mio rettorato (Antilia 2015): un documento inedito la cui pubblicazione, curata da Chiara Saonara, testimonia l’opera decisiva di un rettore che, schiacciato tra le opposte personalità di Anti, Marchesi e Meneghetti, non ha avuto in passato il riconoscimento che meritava. Troppo scomodo e solitario il suo ruolo di mediatore, troppo celato il suo costante, obbligato stare in bilico tra le eclatanti azioni antifasciste che nascevano nel cuore dell’ateneo (come le bombe esplose al Bo) e le pesantissime pressioni delle autorità fasciste e tedesche. Un isolamento che lo stesso Gola presagisce al momento di diventare rettore, incarico che accetta spinto dal senso del dovere e dal desiderio di preservare l’ateneo e la comunità accademica senza badare ai rischi di carriera e personali (la suocera di Gola era ebrea, e il figlio Mario un militante antifascista, che lo stesso rettore sarà costretto a riscattare dall’arresto); una solitudine annunciata, che lo porterà a giudizi assai severi verso quanti, come Meneghetti, ai suoi occhi mettono a rischio l’esistenza stessa del Bo coinvolgendo in pieno l’università nella battaglia contro il regime: quasi (è il sospetto, estremo e infondato, di Gola) a ricercarne il martirio, per renderla un simbolo che accenda gli animi. Un Bo nel quale, nella sua visione, si dovevano compiere tre sole attività, “studiare, insegnare e imparare”, e che invece era trascinato al centro della lotta politica dai docenti che guidavano la Resistenza.

Nella sua missione, salvare l’ateneo tramite la moderazione, Gola trova una sponda importante quanto inaspettata: il ministro Biggini, che lo scienziato dipinge in molte occasioni come un politico alieno da fanatismi, comprensivo delle difficoltà in cui si trova il rettore e capace di decisioni molto poco conformiste (è lui a confermare Marchesi a capo dell’ateneo dopo l’avvento della Repubblica di Salò, respingendone più volte le dimissioni). La tattica di Gola si rivela sofferta, faticosa, ma vincente: alle bombe nelle sale del Bo lui contrappone le tattiche dilatorie. Risponde alla richiesta degli elenchi degli studenti iniziando, con estrema lentezza, a fornire i soli nomi delle studentesse, non soggette alla chiamata alle armi; oppure usa l’astuzia, facendo scrivere una lettera di minacce anonime allo zelante direttore amministrativo Barbieri, che pretende di sottoporre al giuramento di fedeltà tutto il personale. O ritarda ad arte la presa di servizio del lettore di tedesco Siebert, infiltrato della Gestapo.

L’episodio più amaro del rettorato di Gola è certamente la sua decisione di partecipare, dopo un primo rifiuto, a una cerimonia dell’associazione italo-germanica: scelta che gli vale la sfiducia di molti colleghi e l’acrimonia di docenti antifascisti come Lanfranco Zancan, che in una lettera gli chiede di dimettersi, o Egidio Meneghetti, che diffonde una poesia satirica, Il ritorno del rettore, in cui Gola è rappresentato come un gentiluomo che accetta di stringere mani insanguinate. È quindi comprensibile che Gola definisca il 27 maggio 1945, quando Concetto Marchesi gli subentra alla massima carica del Bo, il giorno “in cui venne, anche per me, la liberazione”. Ma proprio Meneghetti, che succederà a Marchesi al vertice dell’ateneo (senza il voto di Gola, “assente ingiustificato” secondo il verbale dell’elezione), scriverà nel 1956, alla morte di Gola, un necrologio per il suo predecessore con parole piene di rispetto: “Esempio di pacata fermezza”, capace di ottenere “l’incredibile prodigio di mantenere aperta l’Università”, evitando sia “ostilità scoperte” che “atteggiamenti collaborazionistici”. Anche il più acceso dei resistenti, ora, lo riconosceva. La strategia di Penelope, nonostante tutto, aveva funzionato.

Martino Periti

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