CULTURA

Trenta denari nella Trieste nazista

Con l’occupazione di Trieste, dopo l’8 settembre 1943, da parte dei tedeschi, tutto il territorio della Venezia Giulia (denominato Adriatisches Kűnsteland) passa sotto il controllo tedesco e delle SS del triestino di nascita Odilo Globočnik, uno dei responsabili dell’Aktion Reinhardt, cioè l’operazione che cancellò dalla faccia della terra quasi tre milioni di ebrei polacchi. Il progetto da parte del Reich di annettere tutte le zone dell’Italia orientale (comprese Lubiana e Fiume) portava con sé anche la politica razziale antisemita. Dei 708 ebrei triestini che tra il 1943 e il 1945 furono denunciati, deportati e, infine, sterminati, solo 19 rimasero vivi.

A Trieste la politica razziale delle SS fu particolarmente dura e pervasiva grazie anche alla collaborazione di numerosi triestini che resero più agevole il lavoro dei tedeschi. Una vasta rete di fiancheggiatori che Trieste sembra aver voluto rimuovere dalla propria memoria storica. Carlo Giunti, Giuseppe Montrone, Raimondo Pisleri, la temutissima Augusta Reiss, per fare qualche nome, e più di tutti l’ebreo Mauro Grini furono i volenterosi aiutanti dei nazisti. Grazie alle loro segnalazioni e alle loro conoscenze, dirette e indirette, fecero catturare centinaia di ebrei e per questo vennero ricompensati con somme che oscillavano tra le cinque e le settemila lire (a ebreo) e con parte dei beni depredati agli stessi: si resero così corresponsabili dell’annientamento di uomini, donne e bambini. E a Trieste, è bene non dimenticarlo, era funzionante l’unico campo italiano allo stesso tempo di transito, di concentramento e di sterminio: la risiera di San Sabba.

Grini e la sua eccezionale attività delatoria sono al centro della storia raccontata da Roberto Curci in Via San Nicolò, 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista (Il Mulino, 2015). Grini, l’uomo che tradirà altri ebrei triestini è un professionista della delazione che conosce nomi, indirizzi, possibili nascondigli, segnala, denuncia, partecipa alla cattura e al saccheggio sapendo, probabilmente, che le sue vittime finiranno alla Risiera, ad Auschwitz, a Treblinka. Curci ci fa così toccare con mano una delle supreme abiezioni dell’umanità: la delazione contro innocenti.

Nel marzo del 1945, quando il Clnai (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) diffonde l’ordine di cattura, Grini “ha già compiuto parte del suo pessimo lavoro. Ha collaborato a far svuotare dei pazienti ebrei ospedali pubblici, gerocomi, case di cura private e perfino manicomi (quello di san Giovanni a Trieste; e quelli veneziani di San Servolo e San Clemente) in una vasta area che ha come epicentro Mestre e Treviso […] e si è spinto in Lombardia, specie nel Varesotto, dove ugualmente ha contribuito a un repulisti in certe case di cura, individuandovi pazienti triestini e veneziani”.

Oltre a Grini, possiamo ricordare la famigerata Celeste Di Porto, la delatrice degli ebrei romani. E come dimenticare la delatrice di Roma città aperta che denuncerà uno dei capi della Resistenza, interpretato da Marcello Pagliero? Non solo carabinieri, polizia e prefetti ma anche centinaia di italiani ‘comuni’ fecero nomi e cognomi di ebrei che a volte erano amici, vicini di casa o semplici conoscenti. A lungo sottovalutato, questo aspetto della Shoah va, invece, riportato alla luce, come appunto la vicenda di Mauro Grini, perché ci aiuta a capire che un progetto di brutale semplificazione etnica come quello nazista aveva necessità di essere sostenuto e appoggiato anche da complici e informatori. Tra carnefici e vittime si inseriva una complessa catena di mediatori. Scriveva Raul Hilberg, nel decisivo La distruzione degli ebrei d’Europa, che “non si deve dimenticare che, nella stragrande maggioranza, i partecipanti [alla Shoah] non spararono sui bambini ebrei, non introdussero il gas nelle camere a gas”.

Fa bene Curci, redattore del Piccolo di Trieste, a non lasciarsi andare, per comprendere la luciferina figura di Grini, a inutili analisi psicanalitiche (esorcizzare l’ebreo dentro di sé), o ideologiche (come il razzismo). Ci troviamo semplicemente di fronte a uno dei tanti strumenti ausiliari di cui si serve il male della storia per compiersi. E certo sarebbe interessante indagare una fenomenologia della delazione (le motivazioni, le modalità, la spontaneità o la costrizione).

Con questo libro Curci ha dato l’ennesima picconata alla favola dell’italiano buono, al mito dell’Italia fascista sostanzialmente indifferente alle leggi razziali e pronta, invece, ad aiutare e nascondere gli ebrei italiani, mentre ormai cospicue ricerche storiche (come quella di Osti Guerrazzi sui delatori romani o quella recentissima di Levis Sullam) mostrano come molti italiani, tra il 1943 e il 1945, denunciarono gli ebrei ai tedeschi per avidità, vendetta o semplice bassezza morale. Ne esce un libro che potrebbe benissimo essere inserito tra i materiali di quell’opera complessa e inclassificabile che è Trieste di Daša Drndić.

Via San Nicolò è la via dove abitavano i Grini, dove abitavano i Frankel, vittime delle denunce di Grini, ed è la stessa via dove Umberto Saba aveva la sua libreria antiquaria e che ebbe relazioni in qualche modo con tutti loro. L’ultima parte del libro è riservata al poeta di Trieste e una donna e al suo antisemitismo nevrotico, privato, non delinquenziale. Nel 1950 Saba, facendo pregiudizio di se stesso, scriverà allo psicanalista Joachim Flecher: “gli ebrei in quanto tali, la cui maggiore responsabilità consiste nell’essere stati i maggiori apportatori del senso di colpa, cioè della sola effettiva colpa di esistere, dovrebbero cessare di esistere” e nel 1953, alla moglie Lina: “Penso che – tranne dal punto di vista pratico: persecuzioni ecc. – do quasi sempre ragione a… Hitler”.  Lo stesso Saba che nelle splendide Scorciatoie e raccontini aveva scritto che [il lager di] Majdanek era inespiabile.

Sebastiano Leotta

 

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