UNIVERSITÀ E SCUOLA

A tu per tu con le tribù indigene di Taiwan

I mezzi pubblici non arrivavano fino al villaggio di Fazhi. Dovettero prendere un taxi e percorrere un lungo tunnel, strade strettissime e piene di buche. All’imboccatura del paese dei murales davano il benvenuto della tribù. “Stava piovigginando, era agosto, la stagione dei tifoni, era buio e mentre attraversavo la via principale con la professoressa Ruljigaljig e le sue due assistenti, gli abitanti mi fissavano. Per loro ero ‘la straniera’”. Giulia Roder, attualmente dottoranda nel dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova, ha trascorso un mese tra le remote montagne al centro dell’isola di Taiwan per studiare come le popolazioni più antiche del mondo, in quel caso la comunità indigena di Wujie, affrontassero eventi climatici estremi, come i terremoti, i tifoni, le frane e le inondazioni. Lo studio, condotto in collaborazione con la Cheng Kung University e la National Pingtun University di Taiwan, le ha consentito di conseguire la laurea magistrale in Forest and environmental sciences ed è stato pubblicato su Natural Hazards, come uno dei primi tentativi di investigazione delle dinamiche tra popolazioni indigene e cambiamenti degli ecosistemi.

Prima di partire Giulia Roder studiò a lungo la storia e la cultura della popolazione. La comunità di Wujie appartiene alla tribù di Bunun, stanziata nella parte sud del Central Mountain Range. Nel corso dei secoli, racconta, la tribù assistette a pesanti incursioni coloniali, a partire dagli olandesi interessati soprattutto alla canfora e al legname per continuare con la dinastia Qing. Nel Novecento anche i giapponesi guardavano con appetito a quelle terre e, per poter esercitare un maggior controllo sulle tribù indigene, tra il 1922 e il 1925 spinsero la popolazione a migrare dalle vette alla pianura (la comunità di Wujie – circa un migliaio di persone – vive oggi a 720-740 metri sul livello del mare). La prima conseguenza fu lo slittamento da un’economia basata sulla caccia e sulla raccolta a una di tipo agricolo. Successivamente nel 1932 il crescente bisogno di elettricità portò il governo a costruire una diga sul fiume Jhuoshuei, nelle vicinanze della pianura in cui viveva la comunità. Fu poi la volta del governo cinese che avviò un ampio piano di deforestazione. Durante questo periodo una serie di tifoni e intense precipitazioni scatenarono frane e inondazioni. Nel 1969 un forte temporale provocò colate detritiche con danni importanti al villaggio di Fazhi. Infine il terremoto, verificatosi nel centro di Taiwan nel 1999, fu ulteriore causa di frane.

Ora, con questo vissuto, la comunità di Wujie come percepiva (e percepisce) il rischio ambientale a cui era sottoposta e, soprattutto, era preparata ad affrontarlo? Nel corso della sua permanenza nel villaggio Giulia avrebbe dovuto trovare le risposte a questi interrogativi. “Era interessante capire se tutte queste forzanti politiche e militari li aveva esposti a rischi”. Una volta arrivata nel villaggio con le colleghe, portando dei doni come vuole la tradizione, conobbe quello che sarebbe stato il loro anello di congiunzione con la comunità. Fu lui a presentarle in chiesa al resto degli abitanti e a spiegare il progetto a cui stavano lavorando.  

Alloggiavano nella casa di una coppia di signori anziani: due stanze, un divanetto, un letto in paglia durissimo e il Wi-Fi. Ogni mattina facevano colazione per strada dove una signora, sotto a una tettoia,   aveva allestito un bancone e qualche sedia allo scopo. Il loro lavoro si intrecciava alla quotidianità del villaggio. Dovevano sottoporre agli abitanti il questionario che Giulia aveva preparato e questo avveniva ovunque: quando incrociavano qualche persona per strada, al “supermercato” (una stanza con prodotti affastellati su poche scaffalature metalliche), nei campi, nel centro ricreativo, finché qualcuno dipingeva una casa o puliva un ortaggio. Il villaggio si snodava intorno a una via principale dove le baracche si alternavano a case in muratura, piccole e basse. Inizialmente la popolazione era diffidente e la giovane studiosa ebbe qualche difficoltà a entrare in comunità. Era occidentale e faceva molte domande. “Poi abbiamo iniziato a partecipare ai loro rituali – racconta – alle loro danze e l’atteggiamento iniziò a cambiare, perché capirono che volevo semplicemente dare voce alle loro storie. Mi colpì una donna, in particolare, la prima che si rivolse a noi dicendoci di volerci raccontare quello che sapeva. Ci invitò a pranzo, ci cucinò degli spaghetti pieni d’aglio e rispose alle nostre domande”. Fu difficile raggiungere i più giovani, perché si stanno gradualmente staccando dalla comunità, dalle storie che da secoli si tramandano, per spostarsi verso la città.  

Dalle interviste (complessivamente 65) è emerso innanzitutto un profondo attaccamento alla terra, alla natura da cui gli abitanti ritengono dipenda la loro sopravvivenza. La popolazione è perfettamente consapevole dei problemi ambientali a cui è sottoposta e, altresì, è convinta che lo sfruttamento coloniale abbia contribuito ad aggravare l’entità delle calamità naturali. Si prenda la diga: il 78% degli intervistati più che vederne i benefici, ne lamenta il malfunzionamento che provoca straripamenti e un accumulo di fango e sedimenti. Senza contare la vicinanza dei campi al fiume.  

Nonostante la consapevolezza, gli abitanti si dicono impreparati ad affrontare le emergenze ambientali. Si limitano a preparare rifornimenti di acqua e cibo e kit di primo soccorso, ma ritengono che dovrebbe essere il governo a far fronte a problemi di questo tipo.

“La mancata esperienza ad affrontare eventi climatici estremi – argomenta Giulia Roder – è dovuta ai cambiamenti subiti negli ultimi secoli: la migrazione forzata dalla montagna alla pianura, il cambiamento della morfologia dei fiumi, la deforestazione, la marginalizzazione sociale li ha visti da un lato più vulnerabili a tali eventi e dall’altro sempre meno coinvolti nelle decisioni dell’ambiente in cui vivono. L’inadeguata comunicazione con le autorità locali ha fatto perdere la fiducia di questi popoli ai quali rimane solo il grande attaccamento ancestrale alle terre in cui vivono”. Manca dunque un approccio bottom-up, un coinvolgimento dal basso che è l’elemento essenziale per la gestione del rischio. Nelle montagne di Taiwan, come nei paesi più evoluti.

Monica Panetto

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