SOCIETÀ

Turchia, la terra di mezzo dei profughi

Per la prima volta dall’inizio della crisi in Siria crollano gli sbarchi in Grecia: secondo l’agenzia europea Frontex in aprile ci sono stati appena 2.700 arrivi di profughi, il 90% in meno rispetto allo scorso anno. L’accordo firmato lo scorso 18 marzo da UE e Turchia insomma sta funzionando, anche se le conseguenze rischiano di essere pericolose per l’Italia, che paradossalmente ne è uno dei maggiori finanziatori. Nel nostro Paese infatti gli arrivi diminuiscono ma in misura inferiore, a causa dell’apertura di nuove rotte dall’Egitto e dalla Libia, tanto che nell’ultimo mese per la prima volta ha superato lo stato ellenico.

Intanto però in Turchia il flusso sembra essersi per il momento arrestato: lo conferma al Bo Chris Dowling, veneziano ma di nome e origine inglese, che da più di un anno è attivo in diverse Ong e gruppi di volontariato a Smirne (in turco Izmir), uno dei maggiori punti di partenza per le rotte dei migranti siriani. “Prima i migranti arrivavano in gommone o addirittura a nuoto nelle isole greche più vicine, soprattutto Chios e Lesbo, poi prendevano i traghetti per Atene – spiega Dowling –. Oggi molti non partono perché hanno paura di restare bloccati nelle isole e di essere immediatamente riportati i Turchia”.

Classe 1987, Chris è laureato a Padova in Cooperazione allo sviluppo e successivamente ha completato la sua formazione con la laurea magistrale in antropologia alla London School of Economics. Vive insegnando inglese a Smirne, dove è arrivato quasi per caso nell’ottobre del 2014: “Volevo fare il giro del mondo e mi sono fermato qui a lavorare per qualche mese. Successivamente sono arrivato fino in Iran in autostop, ma poi ho deciso di tornare a Izmir, dove oggi mi sento a casa”.  Oggi l’italiano vive  vicino al quartiere povero di Basmane, dove ha conosciuto la realtà estrema in cui sono costretti a vivere i profughi e ha  maturato il suo impegno nel volontariato. “Ho passato le vacanze di Natale e Capodanno sull’isola di Chios, dove prima arrivavano fino a 1.000 persone al giorno, per prestare assistenza ai profughi. A Izmir collaboro inoltre con due Ong: tramite una raccolta fondi che ho organizzato siamo riusciti a creare il centro Kapılar”.

A rivolgersi al centro sono soprattutto profughi siriani, curdi e iracheni, più qualche pachistano e afgano: i primi a battere queste rotte ormai da molti anni. La logica di intervento, anche a causa della limitatezza dei fondi, non può essere quella assistenzialista: “A una donna che in patria faceva la sarta abbiamo comprato la macchina da cucire, a un ragazzo l’attrezzatura da barbiere. Chiunque può venire e trovare informazioni, corsi di lingua, sentirsi in qualche modo accolto. C’è una cucina dove preparare da mangiare, un piccolo spazio per i più piccoli. Qualche settimana fa è venuta a trovarci una compagnia di burattinai italiani: per i bambini è stata una festa bellissima”.

Un punto di aggregazione prezioso in una realtà dove vigono la povertà e lo sfruttamento: “Quelli che si potevano permettere di pagare i trafficanti sono per lo più riusciti a raggiungere l’Europa. Gli oltre due milioni di profughi bloccati in Turchia sono per lo più poveri, operai o contadini”. Per loro la vita in Turchia è durissima: il Paese non aderisce alla convenzione di Dublino sul diritto di asilo, gli abusi e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. “I più fortunati sono medici e infermieri, che adesso possono lavorare rispettando determinate condizioni – racconta Chris –, ma la maggior parte dei profughi non ha mezzi di sussistenza, oppure è costretta a lavorare in nero nelle fabbriche tessili locali per pagarsi il passaggio per l’Europa: 12 ore al giorno per sei giorni alla settimana per un salario di un euro all’ora. Meno del 20% dei bambini va a scuola: Human Rights Watch ha definito ‘dilagante’ il lavoro minorile e stima addirittura in 400.000 il numero dei bambini siriani che non vanno a scuola”.

Una tragedia che in Europa ha risvegliato molte paure per le dimensioni di quello che si prefigura come un vero e proprio esodo biblico: “Personalmente non sono d’accordo sull’allarmismo, che spesso comincia dall’uso distorto del linguaggio. Non c’è un’‘invasione’: queste persone fuggono semplicemente dalla guerra, e dovremmo semplicemente cercare di gestire questo passaggio epocale. Guardiamo a paesi come il Libano e la Turchia, che ospitano milioni di profughi sul loro territorio”. Certo, però ci sono anche molti timori sull’effetto che l’arrivo dei profughi può provocare sugli equilibri interni dei paesi europei, compresi quelli politici: “Le persone con cui parlo vogliono andare in Europa perché hanno voglia di lavorare, e soprattutto vogliono un posto sicuro per i loro figli, farli studiare e sottrarli alla violenza. Non pensano certamente ai benefits o alle provvidenze dei sistemi di welfare europei”.

Molti fuggono perché la realtà in cui vivono è per loro ancora più inaccettabile della morte che sono costretti a sfidare in mare: “Uno dei miei migliori amici è un ingegnere di Aleppo, 28 anni. Dipendente di una ditta coreana, prima della guerra girava il mondo per il suo lavoro. Da quattro anni in Turchia si sente morire lentamente: sette volte ha provato a passare il mare, sette volte ha fallito e lo hanno riportato indietro”. E se ci fosse la possibilità di tornare in Siria? “Per lui e per tanti altri, Assad, Isis o Al Qaida non fa differenza, e se torna lo costringeranno a combattere e ad ammazzare se non vuole essere ucciso. Ogni giorno chi viene dalla Siria racconta che nel Paese non è semplicemente rimasto nulla di civile, mentre in Turchia ci sono condizioni troppo dure per restare. L’unico sogno è andare in Europa o in America, e se tenti di dissuaderli rispondono: ‘Meglio annegare che continuare così’”.

Daniele Mont D’Arpizio

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