SOCIETÀ
Yemen, una guerra dimenticata
Soldati filo governativi di guardia sul perimetro di un campo militare a 60 chilometri dalla capitale San'a. Foto: Reuters/Ali Owidha
Come si sa esistono le guerre di serie A, sotto l’occhio costante dei media e dell’opinione pubblica internazionale, poi quelle di serie B o di serie C, che importano meno o nulla. Come quella che da 11 mesi affligge una delle popolazioni più povere al mondo e sbriciola i meravigliosi grattacieli di argilla di Sana’a, immortalata da Pasolini e proclamata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
Lo Yemen è in guerra dalla notte tra il 25 e il 26 marzo 2015, quando i bombardieri sauditi hanno iniziato a martellare le zone occupate dagli Huti, la milizia di stampo sciita che aveva occupato la capitale cacciando il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi. Un conflitto le cui ragioni sfuggono agli stessi yemeniti, come ci spiega Ahmed Al Mamary, medico di 40 anni di cui gli ultimi 9 passati a Padova: “Ancora non capiamo le ragioni di questa guerra”. Il governo saudita, vicino ingombrante e sponsor del vecchio presidente, dichiara di temere attacchi al suo territorio e la destabilizzazione della regione, soprattutto a causa del sostegno dato dallo sciita Iran ai ribelli. “Perché allora bombardano la città e non attaccano direttamente i ribelli e i terroristi? – risponde Al Mamary –. I paesi del penisola arabica sono ricchi, mentre lo Yemen è poverissimo: perché non lo aiutano invece di distruggerlo? Ribellione e terrorismo crescono anche a causa della povertà”. Intanto, denuncia il medico, lo Yemen sta diventando anche terreno fertile di coltura per l’Isis e Al Qaida: “Con questa guerra, praticamente senza più un governo legittimo ed efficace, l’Isis ha trovato il posto giusto per crescere. Le zone occupate dai terroristi però non vengono mai attaccate dai jet sauditi”. Anche la motivazione religiosa non convince Ahmed: “In Yemen anche sunniti e sciiti sono divisi in vari sottogruppi, che convivono insieme pacificamente da quasi 1.200 anni. Da sempre i fedeli fanno la preghiera insieme, guidati indifferentemente dagli imam dell’una o dell’altra confessione, e vanno d’accordo quasi su tutto. La religione con questa guerra non c’entra nulla”.
In realtà è dalla riunificazione nel 1990 che il Paese non trova pace: “Sono 20 anni che da noi c’è sempre ‘casino’ – spiega sconsolato Mamary, con il suo italiano corretto ma espressivo –. Due o tre anni di calma e poi ogni volta si ricomincia. Non mi interessa la politica, ma solo parlare del disastro umanitario in Yemen”. Nei primi 10 mesi di attacchi i ribelli hanno lamentato quasi 8.300 morti civili. Sposato con tre bambini, dopo la laurea in medicina e il lavoro per tre anni nella capitale Al Mamary è venuto a Padova nel 2007 per specializzarsi in cardiologia. In seguito sono venuti in Italia la moglie e i bambini, quindi si è fermato anche per il master e il dottorato in malattie cardiovascolari: “Sono arrivato con una borsa di studio del ministero degli esteri italiani. L’obiettivo però è di ritornare in Yemen il più presto possibile: non mi interessa la carriera, ma solo fare il mio lavoro per il mio Paese”.
Direttamente da Sana’a invece sentiamo Soraya Abu Monassar: vicentina, una laurea in economia internazionale all’università di Padova e in Yemen, terra di origine del padre, da più di 8 anni (oggi a Sana'a, in passato anche ad Aden). “È importante che si parli di questa guerra per rompere un silenzio e un’omertà assordanti, che accrescono la frustrazione della popolazione yemenita”, racconta Soraya. “I contrasti religiosi, spesso citati in questi mesi di sofferenza come una delle cause del conflitto in corso, non hanno senso – continua –, anzi non possono che costituire una conseguenza diretta delle tensioni e interferenze, soprattutto ad opera di attori esterni. Ciò che è certo è che si tratta di una delle guerre meno comprese e trattate degli ultimi anni”.
Da 6 anni Abu Monassar lavora nell’ambito della cooperazione e degli aiuti umanitari, in particolare nell’area della child protection, per la tutela di bambini e adolescenti contro ogni forma di violenza, maltrattamento e sfruttamento. Quando la sentiamo è mattina e lei è reduce da una notte insonne sotto i bombardamenti. “Gli attacchi all’ordine del giorno e della notte e l’embargo (blocco aereo e marittimo) rendono pressoché impossibile l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, da sempre per il 90% importati. La gente comune ha un solo pensiero: sopravvivere alla giornata. Rifornirsi di acqua, cibo, carburante e medicine diventa la sfida di ogni giorno. Il mercato nero è stato il primo a proliferare. I prezzi di gas, benzina e carburante, seppur di bassa qualità, sono saliti alle stelle”.
Quello raccontato da Soraya è un paese distrutto: “In varie parti del paese tra cui Sana’a, Aden, Hodeidah, Sa’ada e Taiz sono stati colpite o danneggiate tante abitazioni e infrastrutture civili tra cui strade, scuole ed ospedali, ma anche moschee, serbatoi d’acqua, magazzini alimentari e di prodotti per l’igiene, sale di ricevimento nozze, distributori di carburante e mercati… Sono stati colpiti persino matrimoni, cortei funebri, centri di assistenza per non vedenti e campi di sfollati”. Il sistema sanitario e quello scolastico sono al collasso, assieme agli altri servizi primari: “Generazioni di bambini perdono il loro diritto allo studio e vengono esposti a rischi ancora più gravi, ad esempio il reclutamento e il coinvolgimento forzato nelle forze o nei gruppi armati. Tra le vittime civili, almeno 770 bambini hanno perso la vita”.
Nel corso dell’ultimo anno, quasi ogni giorno Soraya ha ‘toccato’ da vicino storie di morte, sopravvivenza, dolore, paura e angoscia. “Ma anche sorprendenti storie di resilienza, che non possono che insegnarmi a vivere per sopravvivere, e non ho detto il contrario. Una vita apparentemente ‘normale’ ha ripreso a pullulare tra le vie polverose di Sana’a, che percorro ogni giorno quando mi reco al lavoro o faccio fronte alle mie necessità di base. Anche nelle avversità la nostra vita si è adattata ed aggiustata all’‘orologio della guerra’. È inestimabile la forza che uomini, donne e bambini hanno trasmesso nel loro modo di affrontare il peggio – e talvolta l’inevitabile”.
Daniele Mont d’Arpizio