CULTURA

Prometeo a Fukushima – Storia dell’energia dall’antichità a oggi / 3

Parliamo di energia: l’energia che muove le nostre macchine e riscalda le nostre vite, quella che ha permesso lo sviluppo delle nostre società e delle nostre economie. La nostra storia, soprattutto quella recente, non può essere letta senza rintracciare al suo interno la storia dell’energia, delle opportunità che ci ha dato e dei problemi che ci ha presentato. Per aiutarci a dipanarla, può essere utile la lettura di Prometeo a Fukushima – Storia dell’energia dall’antichità a oggi della storica dell’ambiente dell’università di Roma Tre Grazia Pagnotta. Qui, invece, più modestamente, se ne tenta un riassunto in tre tappe.

Con le prime due siamo arrivati agli anni Settanta del Novecento: quella che segue è l’ipersintesi di una storia che ha già riempito pagine su pagine di libri e giornali anche in cui eravamo già vivi su questa Terra e capaci di leggere. Ci auguriamo che la suddetta ipersintesi aiuti a farsi un quadro di insieme e a riflettere un po’ meglio sul presente dell’energia e dell’ambiente, e sul futuro che vogliamo. Consapevoli anche del fatto che qui si deve ragionare per grandi numeri, grandi tempi e grandi spazi, perché l’energia non sarà mai una faccenda solo local.  


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Dunque, 1973: shock petrolifero. Il mondo si sveglia e si rende conto che l’era dell’abbondanza non è infinita. Le risorse del pianeta potrebbero esaurirsi e comunque c’è chi ne controlla di più e chi di meno, e chi nessuna. Gli equilibri politici del pianeta dipendono moltissimo da questo, e il governo dell’energia è faccenda delicata che continua a decidere di guerre e paci.

Succede con la guerra dello Yom Kippur, al termine della quale l’Opec, per punire gli americani che avevano rifornito di armi Israele, taglia i rifornimenti all’occidente, innescando il panico e quindi provocando un innalzamento dei prezzi. Innalzamento che si fa sentire anche in Europa e spinge a cercare alternative.

Conseguenza della crisi energetica è anche (ovviamente la cosa è più complessa di così) lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq.

Con gli eventi del 1973 lo shock nel mondo è tanto e tale che ci si rende conto di quanto giocare col petrolio sia giocare col fuoco. Un po’ dappertutto comincia a circolare la parola “ecologia”. Si consideri che solo un anno prima la pubblicazione de “I limiti dello sviluppo” da parte del Club di Roma aveva messo in discussione la fiducia cieca che riponevamo nel progresso e aveva anticipato l’idea che il mondo non fosse a nostra infinita disposizione. Era una lettura per pochi, ma oggi ci aiuta a inquadrare la temperie.

Il secolo finisce quindi con la caduta dell’Unione Sovietica, con la fine della Guerra Fredda, e con il petrolio che diventa causa esplicita e ragione di guerra, come per la Guerra del Golfo del 1991. Ma finisce anche con la crescita delle coscienze ecologiche: sono le immagini dei disastri ecologici come quello della petroliera Exxon Valdez nel 1989, e poi quelle dei cormorani zuppi di olio nero nel Golfo Persico, a colpire le nostre paure. 

Da registrare che comincia in questi anni la sistematica ricerca di altre fonti energetiche e delle tecnologie per renderle più efficienti. Complessivamente chiamate “alternative”, intendendo “alternative alle fossili”, queste fonti sono anche chiamate, sempre in contrapposizione alle fossili, “rinnovabili”. Alcune sono pulite (l’eolico e il solare), altre sono comunque impattanti sul piano ambientale (il geotermico, la mareomotrice e i biocarburanti). Tutte si pongono oggi come alternative anche a un’altra fonte emergente del ventesimo secolo, che non è pulita né rinnovabile, ed è il nucleare civile. 

Il nucleare civile è una delle due fonti energetiche di rilievo nate nel Novecento, ed è una fonte energetica la cui storia è strettamente legata a quella della scienza di questo secolo. Va ricordato che l’energia nucleare nasce per uso bellico nella seconda guerra mondiale, quando enormi investimenti americani permisero alla ricerca di accelerare moltissimo, ma secondo direttive ed esigenze militari. E il suo atto di nascita è lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki.

Dopo la guerra il controllo dell’energia nucleare non restò in mani militari: negli Stati Uniti fu creata un’apposita commissione sottoposta al controllo parlamentare e a quello diretto del presidente. Nel frattempo anche i sovietici stavano sviluppando il proprio nucleare. E non solo loro. Il primato americano si stava rapidamente, e pericolosamente, erodendo. La preoccupazione per la rottura degli equilibri politici mondiali e per il probabile possesso della tecnologia atomica da parte di altri paesi del mondo, spinsero gli americani all’iniziativa “Atoms for peace”, che prese il nome dal discorso che il presidente Dwight D. Eisenhower pronunciò l’8 dicembre del 1953 di fronte all’Assemblea generale delle nazioni Unite, con cui dichiarò che gli Usa sarebbero stati da quel momento in poi costruttivi e disponibili ad accordi con altri stati. E con cui soprattutto propose la costituzione di un’agenzia internazionale per l’energia atomica. L’anno dopo, una nuova legge stabilì la possibilità di accordi bilaterali con cui gli Usa aiutavano altri paesi a dotarsi di energia nucleare (ma permettendo agli Usa di mantenere la leadership tecnologica in materia). E nel 1955 si arrivò alla prima conferenza per l’impiego pacifico dell’energia atomica.

Insomma, passata la guerra, nel giro di dieci anni la possibilità di usare il nucleare per produrre energia a uso civile suscitò grandi e diffusi entusiasmi. Nacquero organismi internazionali (l’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, e l’Euratom, la Comunità europea dell’energia atomica), centri di ricerca nazionali e internazionali (e nacque il Cern di Ginevra nel 1953). In Europa la Francia investì nell’energia nucleare, sia militare sia civile. E ovviamente lo fece anche l’Unione sovietica, che inaugurò nel 1954 il primo generatore nucleare di energia elettrica al mondo.

È importante notare come l’industria privata inizialmente non si dimostrò interessata al nucleare per via dei rischi finanziari, dei costi dell’impresa e della pericolosità della materia. Ma negli anni sessanta anche per i privati (soprattutto statunitensi, e soprattutto per le compagnie petrolifere più di quelle del carbone) cambiò il vento: la crescita della domanda di energia a livello globale e il miglioramento delle tecnologie spinsero alcuni a investire nell’atomo. Con il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968 gli Stati Uniti offrirono agli altri paesi assistenza per lo sviluppo del nucleare civile in cambio dell’esplicita rinuncia a quello nucleare, e tutto sotto controllo Aiea. Ma per il nucleare in questi anni furono alti e bassi. Fino agli incidenti, e ai loro riverberi sull’opinione pubblica di tutto il mondo. 

Il primo incidente grave fu quello di Three Mile Island nel 1979: non ebbe conseguenze né per la salute pubblica né per la politica energetica globale, ma fu un enorme danno d’immagine per il settore tutto. Questo si sommò all’emersione del problema dello smaltimento delle scorie nucleari: ci si rese conto infatti dell’inesistenza di un piano, una politica, anche a livello nazionale, figuriamoci a livello internazionale. E la gestione dell’energia atomica non poteva essere faccenda dei singoli stati. A dimostrarlo fu il secondo grande incidente, quello di Chernobyl, nel 1986.

Questo incidente fu gravissimo e irreparabile. Per dieci giorni si ebbe il più grave rilascio radioattivo della storia non causato da eventi bellici, rilascio che partì dall’Ucraina e investì mezza Europa. Tuttora non c’è accordo sul numero dei morti e delle persone che hanno avuto danni a lungo termine dall’esposizione alla radioattività, per non parlare del danno ambientale, anche questo incalcolabile e incalcolato. 

Dopo Chernobyl i programmi sul nucleare civile vennero rivisti in tutto il mondo. Francia e Regno Unito non rinunciarono, anzi investirono in nuove tecnologie. L’Italia, che dal dopoguerra e poi soprattutto con lo shock petrolifero, aveva cominciato a predisporre piani per la costruzione di centrali elettronucleari, bloccò tutto nel 1987 dopo un referendum in cui l’opinione pubblica si espresse fermamente contro.  Di nuovo lo shock spinse le nostre coscienze. L’antinuclearismo fu in generale un nuovo propulsore per la riflessione ambientalista e per la nascita di una nuova sensibilità, per la prima volta espressa anche in politica. Da allora le questioni ambientali e quelle energetiche non possono più essere considerate indipendentemente. In ogni caso, più che i movimenti e la contestazione, furono gli alti costi per la tecnologia e la sicurezza a convincere i paesi occidentali ad accantonare il nucleare civile. O meglio: la maggior parte dei paesi occidentali. Su questo ha sempre fatto eccezione la Francia, dove anche la contestazione è sempre stata più violenta che altrove.

Adesso sarebbe il momento di parlare di presente e futuro. Cioè: del ventunesimo secolo che è cominciato da solo vent’anni, e dei prossimi ottanta che vedrà. Per il momento, sempre su grandi numeri e grandi spazi, niente di nuovo sotto il sole. 

Quella umana è sempre di più una società energivora: i paesi emergenti, l’inarrestabile crescita demografica, l’urbanizzazione fanno sì che la domanda di energia sia ancora in crescita. Quindi le fonti fossili continuano a essere prominenti. Continua la ricerca di giacimenti, continua il loro sfruttamento, continua lo sviluppo di tecnologie per l’estrazione, continua ad aumentare il prezzo. Continuano anche i disastri ambientali, come quello della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico del 2010. E anche quelli dell’energia idroelettrica: le dighe, nel corso del Novecento e ancora oggi, sono responsabili di alcuni dei più gravi incidenti dovuti alla produzione di energia, incidenti ma soprattutto danni ambientali lenti e graduali, che ricadono in molti modi anche sulle nostre vite. 

Si continua a usare il carbone: la Cina ne consuma sempre di più e ne viene sempre di più inquinata. A un certo punto è anche tornato l’interesse sul nucleare. Interesse che è durato poco, più o meno fino al 2011 quando un nuovo incidente (quello alla centrale giapponese di Fukushima), insieme all’attentato dell’11 settembre, hanno portato a parlare di nuovo di sicurezza. Di nuovo forse c’è stato che si è cominciato a usare, oltre al gas naturale e al petrolio, i cosiddetti “idrocarburi non convenzionali”, cioè quelli intrappolati in strati più irraggiungibili del sottosuolo. Questi richiedono l’adozione di tecniche di “fracking”, o di rottura delle rocce profonde, costose e ad alto impatto ambientale, oppure l’estrazione di sabbie bituminose o di idrati di metano (cioè ghiaccio di metano). La tecnologia permette di farlo, ma a che prezzo e con quali vantaggi?

È solo con fatica che si possono trovare segnali di un cambiamento in meglio. Per non lasciare il discorso troppo in sospeso, se ne segnalano due. Uno: la mobilità elettrica. Non è un dettaglio notare che oggi proprio in Cina viene spinta molto, allo scopo di cominciare a ridurre l’inquinamento ambientale che anche lì, adesso, comincia a essere percepito come un problema. E due l’allarme, più o meno recepito da opinione pubblica e politica, sul cambiamento climatico.

In questa storia a ogni momento di crisi è seguita una svolta: chissà quale sarà la prossima, partendo da qui. 

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