Foto di Yuliya Kosolapova / Pexel
L’ultimo romanzo di Domenico Starnone è un canto d’amore alla vita. Potremmo quasi definirlo consolatorio, Il vecchio al mare (Einaudi, 2024), se non fosse che Starnone non mette nei suoi libri nulla che anche solo vagamente somigli al conforto nella sua accezione triviale: nulla di troppo facile, che accarezzi il desiderio del lettore di semplificare la complessità dell’animo umano, nulla che sia felicemente definitivo. Tutt’altro.
Starnone fin dai tempi di Via gemito (Premio Strega, 2001) – e ancora prima – ci ha messi davanti, con scrittura accessibile e non per questo poco raffinata, alla vita e alle sue sfaccettature, mostrandosi dotato di una sensibilità acutissima sia quando disvela le dinamiche di una famiglia (Lacci, 2014) o di una coppia (Confidenze, 2019) o quando costruisce quel cerchio concluso che formano un nonno e un nipote insieme per qualche giorno (Scherzetto, 2016), solo per citare le ultime opere.
In questo romanzo, però, il lettore – di qualsiasi età e qualsiasi genere – trova una pace inusitata che di rado, per le ragioni più disparate, ci è dato raggiungere per tramite della penna degli scrittori, più spesso attenti a raccontare i nodi indistricabili che quelli che possono essere sciolti. Ne Il vecchio al mare Starnone ci mette davanti a una universalissima resa dei conti. Quella con il tempo che passa.
Parola dopo parola, riga dopo riga sembra di scorgere un testamento: il ritorno alla terra che passa attraverso il paesaggio, una spiaggia fatta di nuvole, spruzzi, vento, sabbia e avventori dove l’io narrante passeggia, la compassione per l’umano dell’homo sum plautesco, declinata in una serie di incontri che il protagonista decide di fare fermandosi davanti a tutti coloro che incrocia e decide di conoscere senza che ce ne sia bisogno contingente.
Nicola, protagonista de Il vecchio al mare, è un anziano-bambino che è come conoscesse il corpo e le sue possibilità per la prima volta: ottant’anni di vita vissuta gli regalano la libertà di far girare i pensieri e dar loro forma di voce senza troppe remore. Attacca bottone ai passanti, al netturbino che spazza la sabbia e cerca con il metal detector oggetti perduti, alla donna che fa avanti e indietro dal bar, alle commesse del negozio di abiti a cui chiede di indossare svolazzanti vestitini che compra idealmente per sua madre, morta a soli quarant’anni.
Nel libro c’è anche un bacio sulla bocca, che ci commuove come quelli delle favole ed è invece un attimo fugace in cui due esistenze si toccano in un gesto impossibile. Chi l’ha detto che a ottant’anni passati non si possa più baciare una donna? Che non possa essere inforcato un kajak, che non si possano scegliere regali per chi ci ha messi al mondo? Che non si possa ancora inventarsi un’identità non nostra per dare spazio agli altri invece che metterci in mostra?
Il protagonista – neanche a dirlo – è uno scrittore che però si pente di essersi ricavato una “nicchia di consapevole medietà” mettendo sulla carta “donnette e ometti senza fisica e astrofisica, senza algebra e chimica, senza scienza della propria anima e di quella altrui, senza sguardo lungo di fuori e di dentro, soprattutto senza un sentire accalorato”. Sebbene ci possa venire il dubbio che qualcosa di autobiografico ci sia, in questo romanzo, di certo l’identificazione non riguarda la scrittura: Starnone le sue pagine le ha riempite di personaggi pieni di anima. Non ultimo Nicola: sicuro, beffardo, consapevole, timido e risolto, curioso, capace di affrontare l’età della vita che ci spaventa più di tutte come non ci fosse un tempo limite e i confini fossero solo quelli tra cielo e mare.
Lo stupore grande è il nostro, che leggiamo tanta vita proprio lì dove la penseremmo finita, e siamo infinitamente riconoscenti a colui che scrive di saperci mostrare, una volta in più, come gira l’esistenza.
“ Cos'è scrivere bene? Trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera Domenico Starnone