SOCIETÀ

Cura, progetto e organizzazione della città di Terzo millennio

Considerazioni sul presente

La città oggi più che mai ha bisogno di cure e non certo di essere abbandonata come, troppo spesso nel corso del 2020, è stato suggerito per sfuggire ai contagi di una pandemia inarrestabile. Oggi più che mai i luoghi da abbandonare sono i luoghi comuni. 

Per mesi, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, sono state pronunciate, da architetti e urbanisti, contrastanti e controverse opinioni su come le discipline urbane avrebbero dovuto e potuto contribuire a contrastare l’espansione del virus Sars-Cov-2. Giochi al rilancio dove molte opinioni sono apparse boutades, stravaganti trovate piuttosto che costruttive visioni sul futuro. 

Nel compiacimento di mediatici slogan, molti architetti e urbanisti si sono dimostrati ancora una volta chiusi in un perenne individualismo disciplinare. I complessi problemi che investono la città contemporanea sono stati così elusi attraverso conclusioni semplicistiche, se non ingenue, che invitavano a lasciare la città per rifugiarsi nei piccoli borghi. Soluzioni o provocazioni giunte proprio da professionisti che hanno trascorso gli ultimi anni a lavorare nelle grandi città, a delinearne il profilo, a progettarne intere parti, a determinarne l’assetto, a condizionarne lo sviluppo, spesso legittimati dalla retorica ecologista del green, evocando scenari bucolici come rimedio consolatorio.  

I luoghi da abbandonare sono i luoghi comuni

Le grandi città si sono scoperte insicure di fronte all’invisibile e letale minaccia dei contagi. Inizialmente il virus ha trovato terreno fertile in aree densamente abitate, in regioni come la Lombardia dove ci sono tre aeroporti internazionali e dove il flusso di persone è altissimo. Proprio questi flussi sono divenuti vettori e moltiplicatori dell’infezione virale. Il problema principale è apparso, alla luce di questo dato, l’eccessivo dimensionamento urbano, l’elevata concentrazione di abitanti, di pendolari, di turisti. Un’osservazione che, durante la prima ondata pandemica, ha indotto quindi a pensare che un rimedio per vincere il contagio fosse l’allontanamento dai grandi centri urbani. Ancora impressionano le immagini della stazione centrale di Milano presa d’assalto da cittadini in fuga a seguito dei primi Dpcm emanati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte a marzo 2020.

Gli sviluppi della pandemia hanno poi dimostrato che non c’è geografia nelle dinamiche di diffusione del virus e che nelle grandi città, così come nei piccoli comuni, i crescenti contagi hanno comportato medesimi problemi di gestione dell’emergenza. 

Le città, dunque, non sono i luoghi da abbandonare ma al contrario sono quelli da cui ripartire. Il vuoto e il silenzio che le hanno dominate devono essere d’aiuto. «Da settimane sembra che sia scesa la sera», afferma papa Francesco nell’epocale benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo 2020 impartita – in una metafisica e siderale piazza San Pietro – per scongiurare il perdurare della pandemia. Un momento storico che ha dato vita a immagini eloquenti e indelebili. «Fitte tenebre – prosegue il pontefice – si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti». Questi mesi hanno invitato a meditare sull’eccesso che è stato perseguito negli ultimi decenni, sulla sfrenata inerzia di una velocità che sembrava inarrestabile. «La tempesta – continua Bergoglio – smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità».

Ma se è vero che il “silenzio assordante” e il “vuoto desolante” di questi mesi hanno reso tutti “fragili e disorientati”, “impauriti e smarriti”, è anche vero che questa dimensione “ideale” della città ci ha portato a riflettere sulla città storica, di matrice rinascimentale, la città razionale, perfetta, utopica e simbolica, ovvero la città così ben raffigurata nella tavole quattrocentesche conservate a Urbino, Baltimora e Berlino.

Visioni di città che nel corso del 2020 sono state più volte richiamate alla memoria e la cui forza risiede nell’intento celebrativo di un modello urbano ben governato, origine di benessere sociale e prosperità economica. Come ben prefigurato un secolo prima da Ambrogio Lorenzetti nel ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo, realizzato tra il 1338 e il 1339 nella Sala del Consiglio del Palazzo Pubblico di Siena con l’intento di ispirare l’operato dei governatori che lì si riunivano. Lorenzetti rappresenta, in particolare con gli effetti del buon governo, una città in fermento, con cantieri, piazze, botteghe, abitata da cittadini dediti al commercio, all’attività edilizia, ma anche ad attività ricreative e artistiche; mette in relazione luoghi, architetture, spazi e persone legandoli al concetto di convivialità, di convivenza, di socialità, di operosità.

Un’idea di città rievocata in questi mesi perché molto lontana da quella generata dal mondo contemporaneo, frenetica e ingovernabile. Una città, ad esempio, libera dall’assalto del turismo di massa, ovvero libera da quei turisti che amano fotografarsi dando le spalle ai monumenti. «Con la tempesta – sottolinea ancora papa Francesco – è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine». 

Ciò che invece induce alla preoccupazione è l’immagine di una città che non può trasmettere solitudine o silenzio. Le piazze, le strade, i grandi spazi urbani e monumentali nascono per accogliere l’uomo e la sua memoria. Una memoria che oggi deve indurre a ripensare al modello della città italiana, unico al mondo, di origine antica, nostra fortuna e ricchezza, alla città rinascimentale, appunto, costruita secondo criteri che assicuravano le piazze per i mercati, per le funzioni pubbliche e religiose, per lo scambio delle relazioni. Nel Rinascimento si consolida il trionfo della città che, dopo aver attraversato il buio Medioevo, vive il momento di massimo splendore per la sua dimensione, per la sua governabilità, per la civiltà dei suoi costumi, dove tutto conservava una misura umana nella dimensione dell’abitare. Un abitare poeticamente la città come se fosse la propria casa; un pensiero, questo, che rimanda alla celebre definizione di Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria: «la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città». 

In questa attualissima comparazione risiedono i termini di un impegno che deve vedere tutti coinvolti – non solo architetti, ingegneri, urbanisti, sociologi, paesaggisti – pensando a un vero rinnovamento del vivere lo spazio urbano. Ma non per reazione al virus, il virus è solo un pretesto, un’occasione eccezionale per riconsiderare la città, la sua gestione, il suo sviluppo, i suoi spazi, le sue relazioni, i suoi rapporti tra centro (ormai più direzionale che storico) e periferie (centri residenziali e commerciali). Occorre, più in generale, ripensare il modello urbano dominante frutto della globalizzazione. Bisogna tornare a progettare sapientemente strade, piazze, quartieri, case, balconi, logge, cortili, scuole, giardini, orti, parchi, favorendo la dimensione di vicinato dei negozi, dei servizi, delle associazioni, dei laboratori artigianali, agevolando la pedonalizzazione, la mobilità, il verde e l’accessibilità. Ma per far questo è necessario innanzitutto ripensare i modelli di governo e gestione della città, le norme e le leggi urbanistiche che inducono, ad esempio, alla realizzazione di grandi lottizzazioni e di nuovi complessi residenziali privi di anima, d’identità, di qualità, di centralità. 

Le periferie risentono della mancanza di architetture e infrastrutture sociali, ovvero di servizi necessari agli abitanti; nei grandi complessi di periferia, per esempio, gli abitanti tendono a isolarsi per mancanza di spazi di socialità organizzata, strutturata e integrata. Ma la pandemia ha anche rivelato le sofferenze dei centri storici ormai privi di servizi di vicinato poiché sempre più configurati a misura di turista. 

Ulteriori problemi riguardano gli ingenti flussi migratori e i fenomeni di povertà ed emarginazione che rendono il contesto urbano sempre più disorganico e di conseguenza di difficile prevedibilità e governabilità. I segni più evidenti emergono da un disagio sociale che, partendo proprio dalle periferie, si va diffondendo sull’intero territorio urbano compromettendo così la stessa qualità della vita.

Il governo delle città si sta caratterizzando pertanto per un grado sempre crescente di complessità, difficile da gestire se non affrontato con approccio analitico, scientifico, storico e olistico; la conoscenza dei fenomeni urbani non può, infatti, essere settoriale, ma va affrontata in chiave multidisciplinare. Una lettura importante su questo tema è offerta nel volume Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri 2019) in cui gli autori Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio definiscono un vero e proprio compendio che si pone un duplice obiettivo: da un lato lo studio e la comprensione delle complesse trasformazioni che hanno caratterizzato e che caratterizzano lo sviluppo della città, dall’altro la definizione di una prospettiva scientifica nell’evoluzione dei futuri modelli urbani; un contributo di rilievo che evidenzia come le mutazioni che investono la città contemporanea definiscono un cambiamento che non è più solo fisico e formale, ma anche funzionale e socioculturale, che innesca un sistema complesso a diversi livelli, diversificati ma strettamente collegati tra loro.

Un problema complesso è rappresentato, ad esempio, dalla scarsa cultura manutentiva: la città e l’architettura invece hanno bisogno di cure. A tal riguardo sempre l’Alberti nel Prologo del De re aedificatoria scrive: «Quante casate nobilissime, decadute per l’ingiuria del tempo, sarebbero scomparse dalla nostra città e da tante altre in tutto il mondo, se il focolare domestico non ne avesse mantenuti riuniti i superstiti, quasi accolti in grembo agli antenati!». Sarebbe pertanto opportuno trasferire alla città l’albertiano concetto di “focolare domestico” e immaginare di tenere “riuniti” i cittadini attorno a focolari urbani, luoghi di riferimento come, ad esempio, le scuole, luoghi in cui accogliere e accentrare le risorse sociali e culturali dei quartieri e dei singoli territori. 

Scuole come focolari urbani: le scuole-evento

In questa prospettiva le scuole – che nel pieno della pandemia hanno dimostrato grande adattabilità, anche se con non pochi sacrifici – possono assumere un ruolo decisivo nel processo di rigenerazione urbana e sociale. Una potenzialità che riporta alla memoria l’esperienza maturata a Bari negli anni ’90 dal Gruppo imprenditoriale Dioguardi con l’adozione della scuola Lombardi: una sperimentazione innovativa attuata attraverso un programma articolato di iniziative orientate a stimolare l’interesse dei ragazzi verso l’arte, la cultura, la tecnologia, la creatività. Un’azione che, in pochi anni, non solo ha trasformato la scuola Lombardi in una “scuola-evento”, catalizzatrice di interesse e attenzione, ma ha prodotto anche esiti estremamente positivi sui ragazzi riducendo drasticamente l’abbandono scolastico e incrementando sensibilmente le nuove iscrizioni in un quartiere particolarmente problematico come il San Paolo di Bari. «L’evasione scolastica è passata dal 30 all’1,3 per cento – sottolinea un articolo de La Repubblica del 24 marzo 1994 – un dato clamoroso due volte, primo per la sua macroscopicità, poi perché ottenuto in una zona considerata “area a bisogni speciali” perfino dalla Comunità europea. Con il sistema-Dioguardi i ragazzi restano sui banchi, anche e soprattutto perché, grazie alla scuola, hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con famosi scrittori (iniziativa d’intesa con varie riviste letterarie) o esponenti della cultura prima visti, se visti, solo alla televisione».

Un’esperienza oggi riattualizzata dalla Fondazione Dioguardi attraverso l’attivazione di nuovi partenariati con scuole di Bari, che invita a pensare alla possibilità di trasformare le istituzioni scolastiche in “focolari urbani”, vere e proprie “scuole-evento”, laboratori di organizzazione e cultura in grado di stimolare gli allievi, ma anche genitori e docenti, attraverso attività integrative e complementari ai tradizionali programmi didattici, erogate anche oltre gli orari ordinari, nell’ottica d’instaurare un’interlocuzione continuativa e una comunicazione costante con il contesto. Le scuole possono così divenire presidi di comunità dove, ad esempio, gli stessi abitanti assumono un ruolo fondamentale nel processo di rigenerazione sociale e dove imprese locali, associazioni, istituzioni, fondazioni, divengono i principali artefici di una nuova cultura delle relazioni in cui accrescere sentimenti collettivi che rappresentano l’unico futuro possibile per le nostre città. Un progetto corale e condiviso che può portare al miglioramento delle condizioni sociali, ambientali e culturali di un contesto grazie al contributo civile che la scuola può offrire al territorio. 

Nuovi percorsi di formazione: le City School

Siamo in un momento in cui non si può più sbagliare. È tempo di riflettere, di fare autocritica, è tempo di imparare a costruire le città mettendo in campo processi differenti, impegnando nuovi saperi, nuove consapevolezze e nuove responsabilità. «Adesso, o mai più» afferma Antonio Decaro a chiusura di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (il 17 novembre 2020) alla vigilia dell’Assemblea nazionale ANCI; un’accorata intervista in cui espone le proposte dell’Associazione – in veste di presidente – presentate al Senato nell’ambito del Recovery Fund dove, in dieci punti, tratteggia il programma “Città Italia” evidenziando come la ripresa non possa che iniziare dai comuni «così come sempre è stato nella storia dopo i periodi bui» e dove auspica l’attuazione di un «piano per il rafforzamento e il rinnovamento delle competenze nella PA con la previsione dell’istituzione di una City School nazionale per la formazione di una classe dirigente della PA sempre allineata alle nuove e mutevoli esigenze organizzative e gestionali degli enti locali». 

In questi mesi è emersa la centralità del ruolo dei sindaci: penso ancora al sindaco di Bari Antonio Decaro oppure al sindaco di Milano Giuseppe Sala che in prima linea hanno fronteggiato la crisi pandemica interagendo quotidianamente con i propri cittadini, rimproverandoli e rassicurandoli. Sono emerse le capacità e le qualità di alcuni amministratori così come i limiti e l’incapacità di altri. Questa crisi ha messo a nudo in particolare l’inadeguatezza a governare la complessità che domina la città di Terzo millennio, «il Re è nudo» potremmo dire, ricordando la fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, la crisi ha svelato i comportamenti virtuosi tanto quanto quelli inadatti. 

Bisogna cercare di trasformare questa crisi devastante in una reazione positiva uguale e contraria, a partire da una educazione alla città, rendendo i cittadini consapevoli e responsabili ma anche attivando innovativi percorsi didattici in grado di formare nuove figure professionali preparate ad affrontare le nuove sfide che la città di Terzo millennio propone. 

In questa direzione si muovono gli studi e le teorie promosse da Gianfranco Dioguardi sui temi dell’organizzazione e della gestione urbana, progressivamente esposte in numerose pubblicazioni. Tra le più recenti: Nuove alleanze per il Terzo millennio (Franco Angeli 2014) in cui teorizza la necessità di fondare una scienza nuova del governo della città; Per fondare una scienza nuova del governo della città (Donzelli 2015) in cui per la prima volta coniuga la definizione di City School e Per una scienza nuova del governo della città (Donzelli 2017) in cui evidenzia l’urgenza di studiare per il territorio urbano nuove teorie organizzative per dar vita a una nuova disciplina, a una scienza nuova appunto. Una scienza che trova un’analogia complementare, come in più occasioni ha evidenziato Dioguardi, nelle dottrine organizzative e manageriali promosse nel ’900 per razionalizzare, innovare e diffondere metodi di organizzazione imprenditoriale; il fine era di contrastare e governare la crescente complessità che andava interessando le imprese produttive post-tayloristiche quando dall’originaria bottega spesso a conduzione familiare si sono sviluppate in megastrutture di sempre più difficile gestione. 

Nasce così l’ingegneria gestionale, di cui peraltro Dioguardi è tra i fondatori in Italia, con appositi corsi di laurea, master di specializzazione, post laurea e l’istituzione di specifiche scuole che hanno assunto forme di Business School e School of Management, i cui esempi più importanti in Italia sono il MIP del Politecnico di Milano e la SDA della Bocconi o la Business School CUOA. 

Ecco dunque che la storia propone in analogia un’esigenza altrettanto indispensabile riferita alla gestione della città: «imparare» a meglio governare la città, alla stregua di un’impresa erogatrice di servizi – «città-impresa» la definisce Dioguardi, ovvero erogatrice di innovativi servizi ai cittadini – al fine di contrastare il suo degrado fisico e sociale in particolare nelle periferie attraverso la diffusione di una «nuova scienza urbana».

Da questa analogia nasce in Puglia, presso l’Università di Bari, la prima City School d’Europa, promossa dalla Fondazione Dioguardi in collaborazione con l’ANCI: una scuola di organizzazione e cultura urbana costituita col fine di formare nuove figure professionali – «funzionari e manager urbani» – portatori di innovative competenze per meglio governare la complessità emergente nelle città del Terzo millennio, figure professionali preparate anche alla gestione di emergenze e crisi come quella che stiamo vivendo.

Un’offerta formativa di elevato profilo non solo scientifico ma anche di taglio decisamente pratico, oggi ancora assente in ambito europeo – come ha evidenziato un’indagine internazionale curata da Simonetta Armondi pubblicata nel 2018 nel volume Il governo della città complessa. Verso una nuova formazione – rivolta ad amministratori pubblici (sindaci, assessori, segretari e direttori generali, dirigenti di ripartizioni, consiglieri e presidenti di commissioni comunali, funzionari ordinari), ma anche e soprattutto a giovani diplomati e laureati, a potenziali futuri manager, interessati a una gestione avanzata del governo delle città complesse, nonché a professionisti e imprenditori comunque coinvolti dalle nuove problematiche urbane in vista dell’acquisizione o del perfezionamento delle competenze necessarie alla progettazione dei processi di cambiamento che investono la città contemporanea. Compito della City School è anche quello di insegnare teorie innovative attraverso lezioni strutturate come veri e propri «laboratori di nuove teorie urbane» dedicati all’analisi e soluzione dei problemi emergenti nel governo della città. 

L’obiettivo è anche quello di formare professionisti, in grado di contrastare i drammatici fenomeni di degrado fisico che caratterizzano la città contemporanea attraverso interventi organizzativi sulle città, che Dioguardi definisce organismi viventi in costante evoluzione, i cui manufatti urbani sono da conservare e restaurare contrastandone il possibile degrado fisico, causa sempre più spesso di un deterioramento anche sociale, emergente in particolare nelle periferie emarginate. Si dovrà perciò operare attraverso nuove forme di cultura urbana e di «manutenzione programmata» non soltanto a carattere tecnico, ma accompagnandola con vasti e incisivi interventi di natura partecipata e di vera e propria rigenerazione sociale.

Attualità dei Laboratori di Quartiere

Questa consapevolezza è alla base del programma «Laboratorio di Quartiere» progetto di successo sviluppato negli anni ‘70 da Renzo Piano e Gianfranco Dioguardi in favore della manutenzione, del restauro e del recupero conservativo dei centri storici e periferici. Un’esperienza ricordata dallo stesso Piano sulle pagine del Corriere della Sera (28 agosto 2016): “Quarant’anni fa per l’Unesco ho lavorato con Gianfranco Dioguardi al cantiere sperimentale per il recupero dei centri storici. L’idea base aveva a che fare con la scienza medica: usare la diagnostica per fare interventi meno invasivi possibile, come con la microchirurgia”. Il Laboratorio di Quartiere è dunque pensato come strumento socio-tecnico, progettato per la gestione della manutenzione urbana, da svolgere in maniera programmata nei quartieri delle grandi città o nei centri abitati e nuclei storici, al fine di evitarne il degrado. 

Nei Laboratori è sperimentata l’interazione di pubbliche amministrazioni, enti, imprese e cittadini, volta a realizzare una più coordinata interazione tra domanda e offerta di qualità urbana. Il primo esperimento viene eseguito nel ’79 a Otranto in collaborazione con l’UNESCO con lo scopo di verificare la fattibilità di intervento delle forze artigianali e il loro reale interesse al processo di recupero della città antica. 

Obiettivo del Laboratori è di non allontanare gli abitanti dalle proprie case e di farli partecipare attivamente ai lavori impiegando tecnologie innovative, silenziose, non-inquinanti, di piccolo intralcio, tali da ridurre il disagio causato dai lavori. A tal fine vengono adottate tecnologie leggere e non traumatiche, per la maggior parte degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria dei contesti urbani.  

Nuovo interesse, allora come oggi, va annesso al concetto di «quartiere» come cellula fulcro della città – intesa come elemento del tessuto urbano qualificato e che quindi si differenziava dalla genericità caotica delle «periferie» cittadine. Queste presentano, oggi più che mai, forti degradi fisici e sociali il che deve indurre a studiare forme di recupero conservativo e di ripristino funzionale attuate attraverso interventi socio-tecnici analoghi a quelli immaginati per la manutenzione programmata in cui si poneva comunque come prevalente il problema della partecipazione attiva di tutti i soggetti  interessati ai fenomeni di trasformazione urbana.

Partecipare alla costruzione della città: i Cantieri-evento

Nell’ambito dei processi di rigenerazione urbana e sociale un processo parallelo e integrativo ai Laboratori di Quartiere è rappresentato dal programma «cantiere-evento» che Gianfranco Dioguardi sperimenta con la sua impresa negli anni ’90 in Francia come rimedio per contrastare il disagio causato dai lavori di realizzazione del parcheggio interrato in Place des Célestins a Lione. Una necessità che si trasforma nell’opportunità di rendere i cantieri momenti di conoscenza, di valorizzazione e di divulgazione storica, tecnica e artistica di particolare valore culturale orientato verso i cittadini e quindi all’intera città.

L’idea, oggi in corso di attuazione anche in Italia, è di trasformare i cantieri, di restauro o di nuova costruzione, in una sorta di «botteghe» di tipo rinascimentale dove «arti e mestieri» convivono con una ricerca estetica e culturale tesa a stimolare una partecipazione attiva e democratica dei cittadini in un rinnovato rapporto di comunicazione e collaborazione condivisa fra cittadinanza, istituzioni imprenditoriali e Comuni in un nuovo efficace ruolo partecipativo. 

Attività accompagnate durante lo svolgimento dei lavori da azioni culturali, artistiche, di ricerca, di studio e di comunicazione diretta, aperta ai cittadini e soprattutto alle scuole con il coinvolgimento di artisti, tecnici, docenti, ricercatori, di professionisti esperti, coinvolgendo inoltre gli esercizi commerciali, le realtà artigianali, le associazioni locali e i turisti.

Luoghi, altrimenti interdetti, che così tornano a vivere sin dalla fase cantieristica, prima ancora della conclusione dei lavori, attraverso attività che divengono momenti culturalmente significativi, momenti unici e irripetibili di socialità, educazione, cultura e appartenenza.

Così i cantieri, generalmente percepiti come grandi lacerazioni nel tessuto urbano – causa di disagi con i quali è necessario convivere, a volte, anche per periodi molto lunghi – si trasformano in luoghi “extra-ordinari”, in potenziali scenari stimolatori di un rinnovamento e quindi anche di una rinascita ambientale, attraverso la loro apertura e la loro funzione attiva e spettacolare, di giorno e di notte.

Ogni cantiere-evento interagisce con il proprio contesto urbano coinvolgendo le realtà associative, le scuole, i teatri, i negozianti per sviluppare attività quanto più legate, coordinate e condivise con il territorio di riferimento. Il cantiere-evento costituisce un esperimento di messa a punto di «best practice» per interventi sul recupero urbano e, in particolare, sul degrado delle aree emarginate. 

L’innovatività del progetto proposto consiste nel permettere alle persone di partecipare attivamente a un processo di trasformazione che sarebbe altrimenti subìto in maniera passiva, consentendo agli abitanti di interiorizzare la presenza di un luogo già dalla fase della sua costruzione, proiettandoli verso una nuova vita del loro quartiere grazie anche al coinvolgimento attivo delle scuole stimolando la curiosità degli studenti e il loro coinvolgimento diretto verso attività sociali da diffondere nei quartieri. Tutto ciò corrisponde a ripensare il cantiere come a una fabbrica, luogo non soltanto di produzione ma anche di innovazione e di qualità, di informazione, di progettazione della futura manutenzione, di formazione e di educazione civica anche per il contesto ambientale, al servizio quindi dei singoli quartieri e più in generale per la città.

La città come sentimento collettivo

La pandemia ha sovvertito la consolidata dicotomia tra centro e periferia riportando tanto nei contesti periferici quanto in quelli centrali nuove problematiche. Oggi, più che mai, si avverte la priorità di rivisitare i concetti di «centro», «periferia» e di «quartiere» e queste esperienze divengono occasione di riflessione per la definizione di un approccio partecipato e concreto al progetto di riqualificazione urbana e sociale. Rappresentano strumenti di garanzia per la creazione di una sinergia tra cittadini, amministratori e imprese. Occasioni di confronto che si pongono come una sorta di verifica di compatibilità e di indicazioni di metodo per la costruzione di proficui rapporti tra i vari protagonisti coinvolti nei processi di riqualificazione e le forze locali chiamate a supportarli. Queste esperienze oggi divengono riferimento per intraprendere analoghe operazioni nei confronti dei contesti urbani centrali e periferici. 

Esperienze necessarie per porsi in ascolto rispetto alle esigenze del territorio, attraverso processi di efficace comunicazione partecipativa dei cittadini residenti, per coinvolgerli attivamente in un confronto dialettico. Un ruolo strategico lo assumono anche le istituzioni imprenditoriali responsabili degli interventi edili; il loro coinvolgimento deve essere orientato a fornire, nell’ambito delle proprie attività e competenze, prestazioni inedite del tutto innovative, tali da classificarle come vere e proprie «imprese per la città», pronte ad ascoltare le esigenze reali e potenziali e a diffondere una nuova cultura urbana. 

Nel volume Il futuro per la città (L’Arca Edizioni 1995) Maurizio Vitta rileva come queste azioni culturali e imprenditoriali intraprese da Gianfranco Dioguardi e dal suo gruppo interpretino la città «come un organismo non solo vivente ma anche pensante e, soprattutto, ricco di sentimenti» sottolineando che si tratta di «sentimenti collettivi la cui vita circola nella fitta rete dei rapporti sociali; ma comunque radicati nella psicologia profonda della comunità, nelle cui pieghe segrete alimentano le memorie, i modelli di comportamento, i riferimenti culturali».

Alla valorizzazione e alla promozione di questi sentimenti collettivi si orientano queste esperienze, che oggi in modo particolare si dimostrano necessarie per affrontare, seppur in parte, le problematiche legate alla città contemporanea, alle questioni connesse alla sua crescente complessità organizzativa, al suo recupero, alle sue emergenze, alla sua conservazione e manutenzione, ai cambiamenti repentini che la coinvolgono nel presente e nella prospettiva di Terzo millennio. Sentimenti che s’ispirano all’idea rinascimentale di città, dove l’uomo rivendica la propria centralità e la propria dignità di cittadino concependo il contesto urbano come spazio di ricerca per una migliore qualità della vita, sia sul piano estetico e formale sia su quello funzionale.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012