Il Portogallo durante la rivoluzione dei garofani. Foto: Contrasto
Sono passati esattamente venti minuti dalla mezzanotte quando l’emittente cattolica Radio Renascença trasmette Grândola, Vila Morena, l’inno alla libertà proibito dal regime scritto dal cantautore José “Zeca” Afonso. È il segnale: i giovani militari guidati dai Capitães de abril arrestano i loro superiori, liberano i detenuti nella famigerata prigione politica di Peniche e iniziano ad occupare l'aeroporto di Lisbona, la televisione e il Terreiro do Paço, la piazza simbolo della dittatura. Finisce così in meno di 24 ore, mentre le strade sono invase dalla folla festante, uno dei regimi più duraturi e in apparenza solidi d’Europa. È la Revolução dos Cravos: da subito infatti i garofani, infilati nelle canne dei fucili, diventano il segno distintivo degli insorti, prefigurando al tempo stesso un vero e proprio programma politico.
Sull’estuario del Tago la democrazia manca dal 1925, da quando un altro colpo di Stato militare ha abbattuto l’ennesimo governicchio della I Repubblica portoghese, instaurata 16 anni prima. In seguito nel 1933 l’economista António de Oliveira Salazar, all’inizio ministro delle finanze nel governo golpista, fonda l’Estado novo secondo il modello monopartitico e corporativo mutuato dal fascismo. Un regime che sull’esempio del franchismo si tiene saggiamente alla larga dalla seconda guerra mondiale, ma che in seguito si dissangua nel tentativo di mantenere un impero coloniale su tre continenti, del tutto sproporzionato rispetto alle risorse di un Paese piccolo e arretrato. Così proprio in seno ai militari e in particolare tra i giovani ufficiali subalterni, l’élite tecnica e in parte culturale di una società con un tasso di analfabetismo vicino al 25%, cresce il malcontento contro un governo sempre più debole e incapace, soprattutto dopo la malattia e la morte di Salazar nel 1970.
È la vicenda raccontata da Maria Inácia Rezola, storica e commissaria per le celebrazioni del 50° anniversario della revolução, nel libro appena tradotto da Francesco Ambrosini per i tipi di Mimesis. La rivoluzione dei garofani in Portogallo. 25 aprile 1974 racconta nei dettagli, anche se con taglio scorrevole e divulgativo, i presupposti, gli antecedenti e gli effetti di quel 25 aprile, che in qualche modo segue il movimento del ’68 e l’ondata di protesta che ne scaturisce e dall’altra anticipa la caduta del regime franchista e il passaggio alla democrazia del vicino iberico. In un mondo ancora dominato dalla guerra fredda e profondamente scosso dalla crisi petrolifera quello che accade nell’estrema propaggine occidentale d’Europa attira subito un interesse enorme: mentre folle di giornalisti e attivisti convergono da tutta Europa c’è chi teme un golpe alla Pinochet e chi invece paventa uno scenario cubano.
Fin da subito lo scardinamento del regime salazarista viene accompagnato da misure come la nazionalizzazione di banche, compagnie di assicurazione e numerose altre industrie, mentre braccianti e operai iniziano a occupare terre e delle fabbriche con l’aiuto del Movimento das Forças Armadas (MFA) e del suo braccio operativo, il Comando Operacional do Continente (COPCON). Il cambiamento più grande però riguarda il processo di decolonizzazione: in pochi mesi Angola, Mozambico, Guinea-Bissau e São Tomé e Príncipe ottengono l’indipendenza, mentre Timor Est viene occupata dalle forze indonesiane.
A lungo il Portogallo rimane al centro di un tira e molla tra due ideologie e due blocchi: se da una parte figure come quelle di Otelo de Carvalho e Vasco Gonçalves spingono per portare a termine una vera e propria rivoluzione sociale, dall’altra il Portogallo è pur sempre un Paese profondamente cattolico e per di più membro fondatore della Nato. Rimane inoltre l’ambiguità sul ruolo delle forze armate, indecise se riconsegnare subito il potere ai civili oppure ritagliarsi un ruolo di “guardiani della rivoluzione”, simile a quello ricoperto fino a qualche tempo fa nella Repubblica Turca. L’‘Estate calda’ del 1975 è caratterizzata dal confronto serrato tra democratici, rivoluzionari e nostalgici del passato regime con provocazioni reciproche, attentati e scontri di piazza, finché il 25 novembre il fallito golpe da parte dell’estrema sinistra con i paracadutisti del COPCON decreta la vittoria definitiva dei moderados, guidati dal socialista Mário Soares e dal presidente della repubblica Francisco da Costa Gomes.
Il 2 aprile 1976, dopo che più volte il Paese si trovato sull’orlo di una guerra civile, viene approvata la nuova costituzione, democratica nei principi ma con riferimenti alla "transizione verso il socialismo". Il successivo 25 aprile le elezioni consegnano la vittoria ai socialisti e finalmente nel luglio 1976 il potere passa dai militari al parlamento. Alla fine, come spiega Rezola dati alla mano, pur tra mille pericoli e qualche sbandamento – in 19 mesi tre tentativi di colpo di Stato, sei governi provvisori e due presidenti della Repubblica – la revolução riesce a trovare una faticosa strada verso la democrazia, grazie soprattutto al risveglio delle coscienze dei portoghesi e alla loro saggezza.
50 anni dopo non è difficile dare un giudizio positivo su quegli eventi, tra le tante luci (la democratizzazione, l’ingresso nell’Ue e la grande crescita economica che fa oggi del Portogallo un modello sotto molti aspetti) e qualche ombra: a cominciare da una decolonizzazione forse troppo precipitosa, che di fatto contribuì a consegnare i territori di ultramar ad altri decenni di oppressione e di guerre civili. Poi c’è sempre chi, ripensando ai sogni e agli ideali di gioventù, continua a rimpiangere una revolução incompiuta.
Oggi il 25 aprile è festa nazionale portoghese, il Dia da liberdade nel quale si celebrano le libertà civili e dei diritti politici ottenuti con una svolta che dopo cinquant’anni continua ad essere un esempio e in parte un enigma, come può esserlo solo una rivoluzione pacifista e anticolonialista condotta da militari. C’era chi in quegli anni (come i Giganti) invitava a mettere i fiori nei cannoni: loro – pur avendo le stellette, o forse proprio per questo – lo fecero per davvero.