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Long Covid: quali passi avanti? Un confronto con lo Spallanzani

Non per tutti un tampone negativo, dopo la fase acuta della malattia, è sinonimo di guarigione. Fin dallo scorso anno, infatti, si è visto che in alcuni pazienti anche a distanza di mesi permangono sintomi di varia natura – più o meno debilitanti – che, di volta in volta, possono interessare l’apparato respiratorio, cardiovascolare, muscolo-scheletrico, gastrointestinale, o manifestarsi a livello cognitivo, neurologico o psichiatrico. È la cosiddetta sindrome post Covid, o long Covid, che vari gruppi di ricerca a livello internazionale hanno iniziato a studiare già dallo scorso anno, per meglio definirne le caratteristiche biologiche, epidemiologiche e di prevalenza.

Tra gli ultimi in ordine di tempo, per esempio, l’Office of National Statistics sulla base di un’indagine condotta nelle quattro settimane che precedono il 6 marzo 2021, stima che nel Regno Unito 1,1 milioni di persone manifestino sintomi associabili a long Covid. Il sondaggio è stato condotto su un campione rappresentativo della popolazione (per un totale di 362.771 risposte) che ha riferito in merito a eventuali sintomi persistenti per più di quattro settimane, dopo il primo episodio sospetto di coronavirus. I risultati indicano che 697.000 persone hanno contratto (o sospettano di avere contratto) la malattia almeno 12 settimane prima, e 674.000 riferiscono che questa condizione ha avuto un impatto negativo sulla loro capacità di svolgere le attività quotidiane. Per indagare la durata dei sintomi è stato valutato, invece, un campione di 21.622 persone con diagnosi confermata di Covid-19 tra il 26 aprile 2020 e il 6 marzo 2021. I ricercatori hanno monitorato 12 sintomi riferiti dai partecipanti al momento del primo test positivo o iniziati entro le cinque settimane successive (che non includono, tuttavia, tutti quelli associabili a long Covid), e cioè dolore addominale, tosse, diarrea, stanchezza, febbre, mal di testa, perdita dell’olfatto, perdita del gusto, mialgia, nausea o vomito, fiato corto, mal di gola. Ebbene, 1 persona su 5 accusava ancora almeno uno di questi sintomi a cinque settimane dall’infezione (con prevalenza femminile, 23% vs 18,7%) e circa 1 su 7 a 12 settimane di distanza. I sintomi più diffusi, persistenti per almeno cinque settimane dopo la data presunta di infezione, sono stati stanchezza (nell’11,8% dei partecipanti allo studio risultati positivi per Covid-19), tosse (10,9%), cefalea (10,1%) e mialgia (7,7%). L’indagine dell’Office of National Statistics va ad aggiungersi ad altri studi condotti nei mesi scorsi che, via via, lasciano intravedere come la sindrome post Covid non sia una condizione così poco frequente.

Si tratta peraltro di una manifestazione clinica che, secondo quanto suggeriscono le prime indagini (che è dunque necessario approfondire), sembrerebbe interessare anche i più piccoli: stando a uno studio coordinato dal policlinico Gemelli di Roma su 129 bambini con diagnosi confermata di malattia, il 27,1% manifestava ancora almeno un sintomo a distanza di oltre 120 giorni dalla prima diagnosi. In generale, i sintomi più frequenti erano stanchezza, dolori muscolari e articolari, mal di testa, insonnia, problemi respiratori e palpitazioni.

Di long Covid Il Bo Live torna a parlare con Andrea Antinori, direttore dell’unità operativa Immunodeficienze virali dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”. Proprio per capire che tipo di sequele possono presentare i pazienti nel lungo periodo dal punto di vista clinico, ma anche per valutare l’evoluzione virologica e immunologica della malattia, l’Istituto Spallanzani già lo scorso anno ha istituito al proprio interno un ambulatorio per il follow up a lungo termine dei pazienti che ormai, secondo quanto riferisce l’infettivologo, conta circa 2.000-2.500 utenti.

Intervista completa ad Andrea Antinori, direttore dell’unità operativa Immunodeficienze virali dell’istituto Spallanzani. Montaggio di Barbara Paknazar

Linee guida per la gestione del paziente

Attualmente non esiste una definizione clinica condivisa di long Covid. Per questo, alla fine dello scorso anno il National Institute for Health and Care Excellence (Nice), in collaborazione con lo Scottish Intercollegiate Guidelines Network e il Royal College of General Practitioners, ha elaborato delle linee guida che possano supportare i medici nella gestione del paziente con sintomi persistenti dopo la fase acuta della malattia.

Le linee guida operano, innanzitutto, una distinzione tra Covid-19 acuta (qualora i sintomi attribuibili alla malattia abbiano una durata di quattro settimane), Covid-19 sintomatica persistente (se la durata è compresa tra le 4 e le 12 settimane) e sindrome post Covid-19 (quando invece il paziente presenta sintomi sviluppati durante o dopo un’infezione compatibile con Covid-19, presenti per più di 12 settimane e non spiegabili con diagnosi alternative). Il documento sottolinea l’importanza di fornire informazioni ai pazienti per permettere loro di riconoscere eventuali sintomi che potrebbero persistere nel tempo, così da richiedere aiuto se necessario, e indica ai medici come procedere nella valutazione di soggetti con sintomi persistenti dopo la fase acuta della malattia. Le linee guida, infine, indicano come pianificare l’assistenza, il monitoraggio e l’organizzazione dei servizi, raccomandando un approccio multidisciplinare al paziente.

“La maggior parte dei centri, e anche il nostro per esempio – osserva Andrea Antinori –, utilizza le indicazioni del Nice che hanno il pregio di avere almeno un valore classificativo. Ci troviamo in presenza di una sindrome di cui non si conoscono ancora bene i contorni, e che va compresa in rapporto al tempo, all’intervallo dall’episodio acuto. Possono coesistere diversi fattori e diverse cause”.  Si tratta di pazienti che possono avere sperimentato una lunga ospedalizzazione, possono essere stati ricoverati per molto tempo in terapia intensiva, dunque intubati, sottoposti a sedazione. Chi esce dalla terapia intensiva può avere delle sindromi residuali legate proprio alla permanenza in questi reparti e al trattamento farmacologico che ne consegue, anche in base alla gravità della patologia. Questi aspetti però sono comuni anche ad altre patologie, in caso di intubazione orotracheale, e vanno distinti dalle caratteristiche vere e proprie che ipoteticamente – dato che si è ancora in una fase di comprensione dei modelli biologici del long Covid – sono riconducibili a una qualche forma di persistenza clinica.  La capacità di osservare manifestazioni sul lungo periodo è ancora limitata, osserva Antinori, ma il tentativo è quello di inquadrare la patologia secondo metodi standardizzati.

Su questa linea, l’Onorevole Roberta Alaimo, componente della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati, recentemente intervenuta al webinar Sindrome Long Covid: non solo polmonite, gravi effetti a lungo termine per i ‘reduci’ Covid, ha sottolineato che “devono essere definite delle linee guida varate dal ministero della Salute che attribuiscano riconoscimento medico e terapeutico ai pazienti affetti dalla sindrome long Covid”. In questo senso, ha precisato l’onorevole, il ministero si sta attualmente concentrando sulla ricerca, sulla formazione del personale sanitario e proprio sulla definizione di linee guida che valgano per tutte le regioni italiane (e regolino anche eventuali esenzioni per i pazienti).

Quali cause alla base del long Covid?

Sebbene i sintomi in alcuni pazienti possano dunque persistere a lungo dopo la fase acuta della malattia, secondo Andrea Antinori è ancora prematuro parlare di long Covid come di un’infezione cronica. L’infettivologo spiega che nell’ambito delle malattie infettive ce ne sono molte che, per evoluzione di storia naturale o per adattamento rispetto alla pressione farmacologica che si esercita nella fase acuta, tendono a cronicizzare. La fase vera e propria di cronicizzazione di una malattia virale, però, comporta la persistenza del virus, che invece in questo caso non c’è. “Ciò che manca nel long Covid è la persistenza di una replicazione virale, anche se va detto che i meccanismi esatti e i siti preferenziali di replicazione virale nell’organismo di questo virus non sono ancora stati completamente chiariti. Sebbene dunque nell’ambito delle malattie infettive ci sia esperienza di cronicizzazione, qui ci troviamo di fronte a un modello biologico abbastanza nuovo”.   

Un modello biologico, però, che si sta cercando di comprendere, anche per chiarire quali siano le cause alla base della sindrome post Covid. “Ciò che si sta andando a esaminare – sottolinea l’infettivologo – è il profilo di attivazione immunologica, perché in una malattia che continua nel tempo, con un virus che ha queste peculiari caratteristiche di immunoattivazione e la capacità di generare un meccanismo infiammatorio acuto e violento durante la fase morbosa principale, ciò che residua è verosimilmente (almeno nella nostra ipotesi iniziale, che va verificata) una immunoattivazione persistente. Per questo motivo, stiamo studiando i marcatori infiammatori a lungo termine, la risposta immunitaria specifica a lungo termine e anche l’immunità naturale, cioè come il sistema immunitario si predispone una volta che lo stimolo antigenico virale è ‘concluso’. Anche se poi non possiamo escludere che a livello cellulare, per esempio, vi sia una persistenza di stimolazione, in particolare in soggetti predisposti, e che questo possa poi comportare una serie di disturbi clinici".

I fattori di rischio

“Le segnalazioni di sintomi a lungo termine di Covid-19 – riporta un articolo recentemente pubblicato su Nature – sono in aumento, ma poco si sa sulla prevalenza, sui fattori di rischio o sulla possibilità di prevedere un decorso prolungato all’inizio della malattia”. Il gruppo di scienziati analizza i dati di 4.182 casi di Covid-19, raccolti attraverso l’applicazione Covid Symptom Study tra il 24 marzo e il 2 settembre 2020. In questo periodo l’app è stata scaricata da 4.223.955 persone (provenienti dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e dalla Svezia) che hanno fornito informazioni quotidiane sul loro stato di salute, sui sintomi e sui test effettuati. Del campione selezionato, 558 soggetti (13,3%) hanno riportato sintomi di durata maggiore o uguale a 28 giorni, 189 (4,5%) di 8 settimane e più e 95 (2,3%) di 12 settimane e anche oltre. I sintomi più comunemente riferiti sono stanchezza, mal di testa, dispnea e perdita dell’olfatto, più frequenti con l’aumentare dell’età, dell’indice di massa corporea e tra le donne. Ebbene, stando ai dati raccolti, i ricercatori propongono un modello che, sulla base dei sintomi manifestati dal paziente nella prima settimana di malattia, dell’età e del sesso, potrebbe essere predittivo della durata della patologia.

Anche allo Spallanzani vengono condotti studi in questa direzione e i primi risultati appaiono coerenti con gli esiti dell’indagine multicentrica internazionale. “Pure nel nostro caso – osserva Antinori, riferendo delle ricerche in corso –, il genere femminile risulta essere un elemento predittore di rischio, le donne sembrano essere quasi due volte e mezzo più a rischio degli uomini. Al momento non rileviamo un fattore di rischio legato all’età, la popolazione anziana non sembra più vulnerabile della popolazione giovane. In generale, invece, avere almeno una comorbidità aumenta il rischio di circa il 60%”. Antinori sottolinea che il diabete, per esempio, aumenta il rischio di andare incontro a sindrome post Covid di due volte e mezzo, le malattie croniche polmonari incidono ancora di più. “Questo sembra essere forse l’aspetto più significativo: come dice anche il lavoro americano, la dispnea è tra i sintomi più caratteristici del long Covid, una dispnea persistente, magari debole, non evidente come nella fase acuta, dato che non sono situazioni paragonabili. E i soggetti con bronchite cronica, con enfisema, con malattia polmonare cronica ostruttiva sembrano avere un rischio che è circa tre volte superiore a quello della restante parte della popolazione”.

Antinori evidenzia anche una correlazione tra sindrome post Covid e gravità della malattia. “Sebbene il long Covid – e questo bisogna riconoscerlo – sia una sindrome che si può osservare anche nei soggetti che hanno contratto una forma lieve di Covid-19, e magari sono stati trattati a domicilio e non ospedalizzati, le caratteristiche di gravità nella fase acuta rendono questa condizione più probabile. Nella nostra esperienza vediamo che chi ha dovuto ricorrere a un’ossigenazione supplementare, come succede nei soggetti che hanno sviluppato una polmonite e si sono trovati in una condizione di insufficienza respiratoria che ha reso necessario il ricovero, ha un rischio di long Covid che è oltre due volte maggiore rispetto a chi non ha ricevuto ossigenazione”.  Rispetto ai dati di prevalenza riportati dallo studio multicentrico pubblicato su Nature Medicine, Antinori – sempre sulla base dell’esperienza allo Spallanzani – segnala invece percentuali più alte che si collocano tra il 20-25%. Osserva, in generale, che negli studi di prevalenza i risultati dipendono anche dalle caratteristiche di selezione della popolazione che in questo caso, per esempio, è stata “arruolata” attraverso una app e dunque si limita ai soggetti in grado di utilizzarla.

Quali terapie per long Covid?

È questa la domanda che proviene con maggiore frequenza dai pazienti che manifestano sintomi persistenti dopo la fase acuta della malattia. E, almeno per il momento, la risposta potrebbe non piacere: “Noi siamo sempre molto netti nel dire che una vera e propria terapia non esiste – sottolinea Antinori – . Siamo all’inizio di un percorso, dobbiamo ancora inquadrare bene questa sindrome, e ‘sfrondare’ da tutto ciò che è aspecifico, legato a una malattia grave, all’età e a comorbidità preesistenti.  Ci possono essere infatti disturbi che sono semplicemente il frutto dell’aggravamento di comorbidità a cui la malattia ha dato una spinta, e che sono dunque cosa diversa dalle manifestazioni più specificatamente legate a fenomeni di persistenza e di attivazione immunologica del virus”. Sono queste le ragioni per cui un trattamento specifico ancora non è disponibile. Secondo Antinori, dunque, di volta in volta è necessario fare un’attenta valutazione del paziente, predisponendo eventuali soluzioni ad hoc, specie in presenza di un quadro clinico particolarmente grave.

Anche in questo campo, però, la ricerca non si ferma. Se infatti molti scienziati lavorano per capire la biologia e l’epidemiologia della sindrome post Covid, altri cercano di testare possibili farmaci per il trattamento delle complicazioni a lungo termine. A livello internazionale, riferisce Nature, dopo una serie di workshop del National Institute of Health, dell'Isaric (International Severe Acute Respiratory and emerging Infection Consortium), del GloPID-R e dell'Organizzazione mondiale della Sanità – che cerca di armonizzare gli sforzi a livello globale –, è emersa un’agenda di ricerca per la sindrome post Covid. Il National Institute of Health per esempio sta investendo 1,15 miliardi di dollari per i prossimi quattro anni proprio per capire meglio gli effetti a lungo termine di Covid-19, prestando attenzione sia agli aspetti legati alla prevenzione che al trattamento. In questo contesto si colloca Heal-Covid trial, progetto che sarà avviato proprio allo scopo di esaminare diversi trattamenti per le complicazioni osservate nei pazienti ospedalizzati.

Compromissione neurocognitiva: utile per capire il long Covid

All’istituto Spallanzani, negli ultimi 20 anni, si è acquisita un’esperienza molto ampia nello studio dei determinanti di compromissione neuropsicologica o neurocognitiva legati all’infezione da Hiv. Forti di questi precedenti, i medici stanno ora conducendo indagini di questo tipo anche nell’ambito del long Covid. Antinori riferisce che circa 200 pazienti – nell’ambito di uno studio tuttora in corso, di cui dà qualche anticipazione – sono già stati sottoposti a test di performance cognitiva che esplorano i domini dell’attenzione, della memoria, delle funzioni esecutive o altre funzioni più complesse di tipo elaborativo.

“Osserviamo una prevalenza di disturbi di questo tipo che non è banale: nei soggetti che hanno avuto un’ospedalizzazione, con un follow up intorno ai quattro mesi dall’episodio acuto, noi rileviamo un 40% di persone che hanno una compromissione di tipo neurocognitivo di almeno uno di questi domini”. E il 20% di chi non è stato ospedalizzato. “Risultano compromesse un po’ tutte le aree cognitive – sottolinea l’infettivologo – e si assiste anche a una forte incidenza di manifestazioni di tipo depressivo, di ansia e di disturbi del sonno che influiscono evidentemente sulla qualità di vita di queste persone”.

L’obiettivo dello studio in corso allo Spallanzani è quello di comparare la popolazione con long Covid con altre, come per esempio quella generale e quella con infezione da Hiv, per la quale si possiede una mole significativa di dati. È, quest’ultima, una malattia che predispone a deficit cognitivo a lungo termine e dunque un metro di paragone importante. Al profilo cognitivo dei pazienti, inoltre, sarà affiancato anche il profilo di tipo immunoinfiammatorio, per capire se esiste una correlazione tra chi è portatore di questa compromissione a lungo termine e fenomeni di persistenza di attivazione immunologica.

“Il cognitive impairment, a mio modo di vedere, è uno degli aspetti più interessanti per ‘misurare’ il long Covid, forse anche più della compromissione polmonare”. Precisa Antinori: “Se vogliamo capire un po’ di più sui meccanismi aspecifici di attivazione a lungo termine del long Covid la sfera neurocognitiva può essere forse la traccia migliore per studi importanti di popolazione”.

Dalla parte del paziente

La persistenza dei sintomi dopo la fase acuta della malattia ha evidentemente un impatto sulla vita del paziente, che in molti casi vede limitata la propria capacità di svolgere le normali attività quotidiane. Talvolta la sindrome post Covid può trasformarsi in una vera e propria disabilità: stando a uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Medicine, infatti, su 1.837 pazienti non ospedalizzati che hanno contratto la malattia il 31% ha riferito di essere dipendente da altri per l’assistenza a distanza di tre mesi.

“Le persone che soffrono di sindrome post Covid – sottolinea l’Organizzazione mondiale della Sanità che invita i decisori politici a sostenere i pazienti – hanno riferito di sentirsi stigmatizzate e incapaci di accedere ai servizi. Hanno lottato perché i loro casi fossero presi sul serio e per ottenere una diagnosi, hanno ricevuto un’assistenza disarticolata e frammentata, e hanno rilevato che l'assistenza specialistica è per lo più inaccessibile e varia da Paese a Paese”. Esistono, inoltre, problemi reali per l’accesso alle indennità di malattia e di invalidità.

“Al momento – argomenta Andrea Antinori – non c’è ancora una modalità per cui si possa assegnare a queste persone un codice di esenzione che non sia quello che eventualmente già possiedono per patologie croniche preesistenti, ovviamente”. Chi soffre di sindrome post Covid e contestualmente di una insufficienza renale o una cardiopatia, per esempio, potrà disporre di un codice di esenzione specifico per queste due ultime patologie che tuttavia potrebbe non includere tutte le prestazioni necessarie per il trattamento dei sintomi a lungo termine causati dall’infezione da Sars-CoV-2.

In alcuni casi si comincia a muovere qualche passo avanti: la Regione Marche, per esempio, applica una esenzione a favore dei pazienti con sindrome post Covid, per consentire loro di sottoporsi gratuitamente a tutte le visite specialistiche successive alla contrazione del virus. Ma si tratta ancora di iniziative singole. Va detto che il decreto legislativo del 29 aprile 1998 n. 124 (articolo 1, comma 4, lett. b) prevede che vengano erogate senza oneri a carico dell'assistito tutte le prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio e le altre prestazioni di assistenza specialistica, finalizzate alla tutela della salute collettiva, in caso di situazioni epidemiche (codice esenzione P01). Per questo è stata sottoposta al ministro della salute una interrogazione per sapere se si intenda emanare una circolare nazionale, affinché tutte le Regioni applichino questo codice di esenzione per le prestazioni sanitarie a cui si sottopongono i pazienti long Covid.

Secondo Antinori è il momento di considerare queste esigenze. “È chiaro che le istituzioni si aspettano che questa sindrome a lungo termine venga maggiormente caratterizzata e identificata, ma io credo che si tratti di un aspetto importante. Al momento i nostri pazienti non hanno possibilità di esenzione, devono comunque pagare il ticket, mentre io credo che sarebbe un importante provvedimento di sanità pubblica quello di individuare un’esenzione specifica per questo gruppo di pazienti”.

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