SCIENZA E RICERCA

Il petrolio macchia i mari

«Sebbene il comportamento dell'uomo come custode delle risorse naturali della Terra si sia rivelato scoraggiante, per molto tempo siamo stati confortati dalla convinzione che almeno il mare fosse rimasto inviolato, al di fuori della capacità umana di alterare e depredare. Ma questa convinzione, purtroppo, si è rivelata illusoria». È quanto afferma la biologa Rachel Carson, con grande amarezza e lungimiranza, in The Sea around Us, uno dei volumi che compongono la trilogia sul mare che, accanto a Primavera silenziosa, hanno contribuito a renderla famosa.

L’idea che il mare potesse rimanere inviolato, infatti, si è rivelata un’illusione, dovuta in sostanza alla nostra ignoranza sulla complessità di questo vasto ecosistema, la cui salute è fondamentale per gli equilibri dell’intera biosfera e per il benessere delle società umane.

Tra le minacce che oggi incombono sugli ecosistemi marini vi è l’inquinamento. Gli oceani – e gli ecosistemi che essi ospitano – sono in larga parte ancora oggi sconosciuti e, per via della loro estensione ed inaccessibilità, sono privi di sufficienti forme di tutela da parte di istituzioni locali o transnazionali. Questo fa sì che siano facile preda di uno sfruttamento selvaggio, che molte volte consiste in una pesca selvaggia, nel depauperamento incontrollato degli ecosistemi, nello sversamento di sostanze altamente tossiche, con conseguenze di lungo periodo su ampie porzioni dell’ambiente marino.

Tra le sostanze tossiche che più spesso finiscono nei mari di tutto il mondo vi è il petrolio. L’entità del problema è difficile da quantificare: il petrolio, infatti, si distribuisce a chiazze nelle acque sotto forma di strati sottilissimi (dallo spessore microscopico) che fluttuano e si spostano velocemente. Tale forma d’inquinamento è particolarmente subdola, dal momento che è difficile da rintracciare – sia per la mobilità delle macchie, sia per la loro sottigliezza – ma, al tempo stesso, estremamente persistente, e causa gravi danni agli organismi che ne subiscono l’influenza.

In uno studio pubblicato su Science, un gruppo di ricercatori cinesi e americani presenta i risultati di una stima globale dell’inquinamento da idrocarburi nei mari condotto a partire da immagini satellitari raccolte tra il 2014 e il 2019. I punti in cui sono state individuate macchie di petrolio sono più di 450.000; calcolando la superficie totale in cui il fenomeno si verifica, si ottiene un’area di un milione e 510mila km2: più di due volte la superficie della Francia, precisano gli autori.

Un primo dato interessante riguarda la distribuzione geografica di questi strati inquinanti di idrocarburi: la maggior parte si trova non a grande distanza dalle coste, con il 50% dei casi osservati entro i 38 km dalla costa e il 90% entro 160 km di distanza. Inoltre, il fenomeno non è equamente ripartito in tutti i mari e gli oceani del mondo; in particolare, è stata evidenziata una maggiore occorrenza del fenomeno lungo ventuno fasce ad alta densità di chiazze di petrolio, sovrapponibili in larga misura con rotte commerciali molto frequentate.

Una volta appurata l’entità del problema, i ricercatori si sono dedicati a comprendere quali ne siano le cause principali. Sono state individuate quattro principali fonti d’inquinamento: le infiltrazioni naturali da riserve sotterranee di idrocarburi, che sono state a lungo considerate la causa principale di questa forma d’inquinamento; le perdite connesse alle attività di estrazione di petrolio e gas da impianti offshore (un’attività attualmente in espansione); le perdite che avvengono in prossimità di gasdotti e oleodotti; lo sversamento (volontario o accidentale) di idrocarburi in acqua da parte di navi o di impianti a terra. Il contributo percentuale di queste quattro fonti di inquinamento è eloquente: le riserve naturali contribuiscono per il 6,2%, l’estrazione offshore per l’1,6%, le perdite dalle condutture per lo 0,5%, mentre lo sversamento da navi e impianti situati sulla terraferma per il restante 91,7%.

Il quadro restituito da questa analisi è decisamente diverso rispetto a quanto era emerso in precedenza: l’ultima stima globale, condotta tra il 1990 e il 1999, aveva concluso che lo sversamento di petrolio in mare fosse dovuto solo per il 53,85% alle attività umane, e unicamente alle perdite da riserve naturali per il restante 46,15%. Nello studio più recente, invece, la situazione viene ribaltata nonostante – grazie a tecniche di rilevazione più precise – sia stato possibile individuare più del doppio di punti di perdita da riserve naturali rispetto ai dati riportati nella valutazione degli anni ’90.

In ogni caso, tale disparità di risultati non può essere attribuita soltanto al miglioramento delle tecniche di rilevazione, affermano gli autori della ricerca. Bisogna riconoscere come, negli ultimi decenni, il trasporto marittimo sia aumentato esponenzialmente su scala globale, e come molte economie emergenti, che vivono ora un periodo di forte espansione economica, abbiano contribuito con le loro attività non solo ad accrescere il PIL globale, ma anche ad inquinare gli ecosistemi naturali – tra cui gli oceani.

Quel che un risultato così diverso dalla precedente valutazione suggerisce è che gli effetti negativi di un’esposizione cronica degli ecosistemi marini all’inquinamento da idrocarburi siano stati finora pesantemente sottovalutati. Mappare e monitorare le chiazze di petrolio che inquinano i mari è essenziale non solo per conoscere l’entità del problema, ma anche per fornire ai decisori politici uno strumento utile da impiegare per realizzare gli obiettivi di sostenibilità – tra cui il Goal 14 dell’Agenda 2030, che mira alla conservazione e all’uso sostenibile degli oceani – di cui vi è sempre più bisogno.

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