CULTURA

Il dialetto sugli spalti veneti

Immaginate una tiepida giornata autunnale nel primo pomeriggio, quando la nebbia non si è ancora alzata del tutto e sforzandosi un po' si possono vedere quegli 11, più uno, che inseguono un pallone per insaccarlo nella porta avversaria e portare a casa i tre punti. Lasciateli continuare così per 90 minuti più recupero, e concentratevi invece sui suoni attorno a voi: se non si fosse capito dalla presenza della nebbia, siamo nel Veneto, ed è importante dirlo perché da nessun'altra parte sugli spalti si sentiranno le stesse espressioni. Alessandro Pezzin, cronista sportivo con un dottorato in linguistica, le ha raccolte in un libro, Alta, che eà se suga! (Panda Edizioni, 2022) che contiene tutto ciò che ha ascoltato in 13 anni di cronache dei campionati di Eccellenza, Promozione e Prima categoria, e le ha spiegate per calarle nel verace contesto veneto perché non tutti i lettori conoscono i contesti e le tradizioni locali dei territori di provenienza delle tifoserie.

Non è stato un libro semplice da scrivere, come ci ha raccontato Pezzin, a partire dal fatto che lui non è un dialettologo e, anche se lo fosse, parliamo di una lingua che non ha una grafia ben codificata, visto che il dialetto nasce come lingua parlata. Durante l'iniziale raccolta dei materiali, la grafia comprensibilmente non era la principale preoccupazione dell'autore, anche perché il multitasking ha dei limiti: se devi prendere appunti per uno o più articoli di giornale e annotare fedelmente tutto quello che senti intorno a te, è normale che la grafia passi in secondo piano, tanto più che sono aspetti su cui si può ragionare in un secondo momento: "Ho capito - spiega Pezzin - che dovevo essere più aderente possibile a quanto ascoltavo e cercare di riprodurre le parole nel modo più simile a quello in cui erano state pronunciate e mantenere, e provare a rendere al meglio, le caratteristiche delle diverse varianti del dialetto, con la loro pronuncia, il lessico e via dicendo".

El cartein giao se ga blocà? Da 'l fredo? Da l'umidità?

Il lavoro sulla grafia, invece, è cominciato al momento di riordinare il corpus, cioè il materiale  linguistico raccolto. Ma quali sono state le difficoltà? "È stato difficile, per esempio, capire come regolarmi con i suoni peculiari del nostro dialetto. Come scrivere la terza persona del presente indicativo del verbo essere? Xe, ze, se? E con l’accento o senza? Come rendere la l etimologica? Avrei dovuto usare la ł? Altro elemento d’incertezza era dato dal fatto che il dialetto veneto non è uno solo, è un panorama fortemente variato dal punto di vista diatopico. Avrei dovuto trattare in modo diverso, per esempio, il veneziano dal padovano?".

Bisognava anche ragionare sul fatto che Alta, che eà se suga! non è un libro (solo) per addetti ai lavori, intendendo in questo caso linguisti e dialettologi. È destinato a tutti i curiosi che potrebbero magari trovare respingenti i caratteri a cui è invece abituato chi ha familiarità con la materia. "Non ho voluto - chiarisce Pezzin - segni e caratteri speciali per indicare le lettere. Allo stesso tempo, però, il sistema di trascrizione doveva essere in grado di conservare le ricche sfumature di quella lingua, impresse anche dalla diversa provenienza dei parlanti, così sono arrivato a un compromesso. Ho cercato un punto di riferimento scientifico che fungesse da base su cui appoggiarmi e l'ho trovato nella seconda edizione della Grammatica veneta di Silvano Belloni. Partendo da qui ho scelto di semplificare ulteriormente ogni volta che era possibile".
Un esempio? Nel dubbio tra ‘n altro e naltro l'autore preferisce il secondo, in quanto più immediato, senza spazi né altri segni.

Dai, daghea veoce: sembrè scapoi e amojai!

La lingua che si fa strada in questo libro è molto diversa da quella a cui sono abituati i tifosi delle squadre della massima serie, che tra loro parlano in italiano, anche perché possono provenire da zone molto diverse dello Stivale. "La lingua del tifo del calcio dilettantistico veneto - conferma Pezzin - ha due componenti principali. Per forza di cose vi si riconoscono molti elementi della lingua del calcio e il tessuto su cui si appunta questo primo strato è quello della commistione tra l’italiano e il dialetto veneto, che è uno dei principali ingredienti, insieme alla creatività del tifoso, in grado di conferire sapidità e spontaneità a questa lingua e a questo mondo. A marcare le differenze tra il tifo dei dilettanti e quello dei grandi palcoscenici, però, è soprattutto l’influenza del contesto. Le tribune di provincia sono piccole, ci si sente distintamente da un capo all’altro ed è facile far giungere la propria voce in campo. Questo fa sì che gli spalti siano una sorta di palcoscenico su cui dialogare, mettersi in mostra, intrattenere. Nasce quella che possiamo definire una ricerca della performance: le produzioni verbali del tifoso di provincia, infatti, sono quasi tutte accomunate dall’avere un obiettivo parallelo, sotteso a quello comunicativo principale dell’incitamento alla squadra e della denigrazione dell’avversario, cioè far divertire chi ascolta. Anche quando sbraita o è divorato dalla tensione, il tifoso di provincia tende a dare alla sua espressione la forma di una battuta, di un motto di spirito, di un gioco di parole. Lo fa consapevole di avere un pubblico, che vuole soddisfare, e si compiace degli effetti che ottiene tra gli astanti.  Serve una grande creatività, prodotta con strumenti come lo storpiamento delle parole, l’autoironia, il dialogo diretto con gli altri tifosi, che sarebbe difficile in tribune da decine di migliaia di posti. Per piazzare la battuta, è fondamentale la capacità di improvvisare e di reagire con prontezza a ciò che succede in campo. Esempio: il sole cala dietro la tribuna e il guardalinee si ritrova in un punto della fascia in ombra. C’è subito un tifoso pronto a sfruttare la cosa esclamando «Stà all’ombra, che xemejo!», per prendere in giro il malcapitato sottintendendo che la pessima prestazione fin lì offerta era dovuta a un colpo di sole".

L'immagine che viene fuori del tifo di provincia è quella di una verace ricerca del motto di spirito, lontana dagli striscioni della massima serie che hanno uno scopo comunicativo del tutto diverso: le esclamazioni nei piccoli stadi arrivano direttamente ai giocatori in campo, non serve la mediazione di un lenzuolo bianco e non è richiesta tutta l'organizzazione che sta dietro al tifo a cui siamo più facilmente abituati. Questo permette ai tifosi di esprimersi rimanendo aderenti a quello che succede in campo, in manifestazioni più vivaci e imprevedibili rispetto a quelle del tifo organizzato. Rispetto a questo, l'autore nota anche una leggera sovrapposizione tra il tifo allo stadio e i meme che girano sui social network, figli di quel real time marketing che prevede un legame a doppio filo con l'attualità. Spiega Pezzin: " Il tifoso che, per denigrare l'arbitro, gli dice «Va’ arbitrare ‘e moeche!» prende spunto dalla città di provenienza del direttore di gara: sceglie le moeche perché l’arbitro è di Chioggia, luogo d’elezione per questo prodotto ittico. Ma non solo, lo fa anche perché i giorni in cui si sta disputando la partita sono proprio quelli del periodo dell’anno in cui si pescano i pregiati crostacei. Con questa tecnica i tifosi applicano un po’ lo stesso principio di marketing che prevede di declinare la comunicazione in base alla moda del momento, alla notizia del giorno, alla festività più prossima, un po' come accade sui social su pagine come quelle della birra Ceres e delle pompe funebri Taffo, con post a tema così ironici e divertenti, come cercano di essere i tifosi locali, da avere ampia diffusione in tutto il web sotto forma di vignette a sé stanti. Questo è anche lo stesso meccanismo su cui si regge l’intero fenomeno dei meme, forma di comunicazione esplicitamente ed esclusivamente nata e prodotta per divertire".

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