SOCIETÀ

La fragile tregua dell'Etiopia dopo gli orrori della guerra

Due anni di guerra inutile, come spesso accade, con un tributo che l’Onu stima (per difetto) in circa 600mila vittime, donne, uomini e bambini uccisi, chi dai proiettili, chi dalla cieca ferocia del nemico, o magari dalla carestia che ha travolto gran parte della popolazione civile del nord dell’Etiopia, nella regione del Tigray. Oggi almeno c’è un accordo di pace, firmato lo scorso novembre a Pretoria dai rappresentanti del governo centrale da una parte, e dall’altro dai leader del Tigray People’s Liberation Front (TPLF). Ma è un accordo ancora fragilissimo, dominato dalle variabili e dagli interrogativi, dove i rancori tra opposte etnie continuano a prevalere. Perché due anni di guerra, e di indicibili orrori, non hanno spostato di una virgola gli squilibri che l’avevano provocata. Eravamo nel 2020: il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, in carica dal 2018, premio Nobel nel 2019 per aver favorito la pace tra Etiopia ed Eritrea (dopo una guerra durata vent’anni per una questione di confini contesi) presenta il suo progetto politico innovativo: far confluire tutti i partiti in un unico schieramento, il Partito della Prosperità, per superare definitivamente le profonde divisioni etniche che per decenni hanno lacerato il Paese. Tutti d’accordo, tranne uno: il TPLF, che per trent’anni ha governato il Paese. Abiy, con il suo progetto, voleva dare spazio e ruoli anche ai tanti gruppi etnici (ce ne sono circa 80) che mai avevano ricoperto ruoli di governo: e su questo equilibrio costruire una stagione di pace. Ma i leader tigrini hanno detto no, paralizzando i piani del primo ministro, che ha successivamente sospeso, ufficialmente causa Covid, le elezioni generali (il Tigray le ha svolte comunque, a settembre, proprio a rimarcare il distacco dal governo centrale: 98% dei voti al TPLF). Poi, il 4 novembre 2020, lo stesso premier ha dato l’ok all’attacco di postazioni di ribelli tigrini, accusati di aver a loro volta assaltato basi dell’esercito federale. Da lì la situazione è rapidamente sfuggita di mano, con l’esercito federale affiancato da milizie paramilitari di etnia Amhara (rivali storici dei tigrini) e supportato da truppe dell’esercito della confinante Eritrea, inviate dal presidente-dittatore Isaias Afwerk, sempre più influente nell’area del Corno d’Africa. Così Abiy Ahmed da simbolo di pace e di “riscatto” per l’intero continente africano si è rapidamente trasformato in combattente da trincea, in prima linea a guidare l’assalto delle truppe federali contro le milizie armate del Tigray.

La tregua dopo gli orrori

Ora, dopo alterne vicende (nella seconda metà del 2021 c’era stato un inaspettato ribaltamento di forze in campo, con il TPLF che sembrava aver guadagnato terreno, grazie anche all’alleanza con le milizie di etnia Oromo, mettendo in fuga il governo nazionale e riconquistando il controllo della capitale tigrina, Mekele), si è arrivati all’accordo di pace firmato a Pretoria a novembre. Preceduto di qualche mese (fine marzo 2022) da una “tregua umanitaria” accolta anche dai ribelli proprio per consentire la consegna di aiuti: perché più delle armi (e della mancanza di munizioni), è la fame (e la siccità, e la carenza di acqua potabile e di medicinali) ad aver messo in ginocchio la popolazione civile del Tigray. Scriveva la Commissione internazionale di esperti di diritti umani sull’Etiopia in un rapporto pubblicato nel settembre dello scorso anno, due mesi prima del trattato di pace di Pretoria: «Uccisioni extragiudiziali, stupri, violenze sessuali e fame della popolazione civile come “metodo di guerra" sono avvenuti in Etiopia fin dai primi giorni del conflitto. Ma gravi violazioni dei diritti nel Tigray sono tuttora in corso, con i combattimenti che sono ripresi il mese scorso (agosto 2022), rompendo un cessate il fuoco durato cinque mesi». La presidente della Commissione, Kaari Betty Murungi, esperta indipendente nominato dalle Nazioni Unite, ha parlato di “escalation militare”, accusando le forze governative di aver utilizzato droni militari con effetti su vasta area in aree popolate: «Abbiamo ricevuto segnalazioni di attacchi di droni nel Tigray nelle ultime quattro settimane, che presumibilmente hanno ucciso e ferito civili, compresi i bambini», ha sostenuto Murungi. Che ha poi prodotto circostanziate accuse anche alle forze tigrine, responsabili di «gravi violazioni dei diritti umani che equivalgono a crimini di guerra». Incluse uccisioni su larga scala di civili Amhara, stupri e violenze sessuali, e diffusi saccheggi e distruzione di proprietà civili a Kobo e Chenna, avvenuti soprattutto nei mesi di agosto e settembre 2021. «Durante le loro perquisizioni nelle case di Kobo, ad esempio, le forze tigrine hanno cercato armi e hanno tirato fuori molti uomini dalle loro case, giustiziandoli, spesso di fronte alle loro famiglie».

Una somma di orrori che ha portato, dopo due anni, le parti a sedersi attorno a un tavolo, con la prospettiva di dire basta alla violenza. Ma ora restano soprattutto dubbi, diffidenze, interrogativi. Politicamente, come si risolverà la questione? Quale futuro avrà la regione del Tigray? Sarà riconosciuta una qualche autonomia all’interno di una Repubblica Federale o sarà ancora l’odio tra etnie a dettare l’agenda politica del Paese? Riuscirà il futuro governo centrale a disarmare, e poi a governare, le tante milizie? L’accordo di pace firmato a Pretoria dispone alcuni punti fondamentali: l’immediata cessazione delle ostilità, il ripristino dei servizi di base (elettricità, telecomunicazioni), l'accesso umanitario senza ostacoli, il ritiro delle forze straniere (le truppe eritree), il disarmo e la reintegrazione del TPLF nella politica etiope e la rimozione del gruppo dalla lista dei terroristi. Buoni propositi: ma dopo una prima fase di riconsegna delle armi da parte delle milizie tigrine, si continua a procedere per accuse reciproche. Il governo etiope, per voce del ministro della Comunicazione, Legesse Tulu, ha appena esortato i leader del Tigray People’s Liberation Front, che avevano definito le forze di sicurezza come “massacratori”, «ad astenersi dal diffondere informazioni distruttive poiché l’attuazione dell’accordo di pace sta andando bene». Sull’altro versante, il presidente della regione del Tigray, Debretsion Gebremichael, il mese scorso aveva dichiarato: «Nonostante gli sforzi per ripristinare la pace e la calma, il genocidio è ancora in corso. Quasi la metà del Tigray è ancora in guerra, con le truppe eritree che vagano liberamente nonostante gli sia stato ordinato di lasciare la regione: questo è inaccettabile». Ed è di poche ore fa la notizia che diverse truppe eritree hanno cominciato a ritirarsi dal territorio del Tigray, notizia salutata con soddisfazione anche dalla Casa Bianca, con il segretario di Stato americano, Antony Blinken, che ha avuto un colloquio telefonico con il primo ministro etiope Abiy Ahmed. Secondo Mukerrem Miftah, professore di studi politici presso la Ethiopian Civil Service University di Addis Abeba, sarà indispensabile procedere con cautela sull’attuazione dell’accordo di pace. «La questione dell’inclusività dovrebbe essere presa sul serio», ha dichiarato all’agenzia di stampa turca Anadolu. «Affinché l’accordo duri, tutte le parti interessate devono sentirsi incluse, come se avessero una parte in esso. Compreso il governo eritreo: e dati i problemi di confine di lunga data tra Eritrea e Tigray, questo può essere un compito arduo».

La “variabile” Eritrea e le mire della Cina

Nonostante l’annuncio dell’inizio della ritirata delle truppe, il ruolo dell’Eritrea appare comunque ambiguo, e da prezioso alleato che potrebbe presto trasformarsi in ospite indesiderato in terra etiope. Di certo il dittatore eritreo Isaias Afewerki vorrà un tornaconto da questo accordo di pace: ottenere qualcosa in cambio del ritiro. Ma è improbabile che Abiy Ahmed conceda una trattativa “condivisa” sui confini del Tigray. Insomma, una grande incognita. Il quotidiano canadese The Globe and Mail, in un articolo pubblicato la scorsa settimana, cita un rapporto di un comitato di organizzazioni umanitarie e funzionari del Tigray, del 30 dicembre scorso, nel quale si sostiene che le forze eritree e i loro alleati Amhara abbiano ucciso più di 3.700 civili da quando è stato firmato l’accordo di pace. Un altro punto assai delicato è la questione del Wolqait, un’area che apparteneva allo stato regionale di Amhara e che il TPLF aveva annesso e incorporato nella sua regione dopo la presa del potere in Etiopia, nel 1991. Gli Ahmara vogliono la sua riconsegna, i tigrini non ne vogliono sapere: il premier etiope ha annunciato che sarà indetto un referendum per risolvere la questione di Wolqait.

Il momento resta comunque delicatissimo per l’Etiopia, in bilico tra una pace possibile e una situazione reale di enorme difficoltà. Peraltro con un’inflazione alle stelle, che lo scorso anno ha superato il 33%, e con la valuta locale, il birr, in caduta libera: al punto che poche ore è stato nominato un nuovo capo della banca centrale. Secondo Save The Children il paese africano sta inoltre affrontando una delle peggiori crisi alimentari a livello globale. Come spiega in un rapporto appena pubblicato: «Circa 12 milioni di etiopi (su oltre 120 milioni di abitanti) avrebbero bisogno di assistenza alimentare urgente. Mentre si stima che 22,6 milioni di persone stiano affrontando una grave carenza di cibo, dovuta principalmente alla siccità, causata da cinque stagioni di piogge fallite consecutive, che ha decimato il bestiame. Situazione aggravata dal conflitto e dagli sfollamenti forzati». Insomma: c’è urgente bisogno di aiuti. Germania e Francia hanno già offerto al governo etiope una “cooperazione rafforzata”. Il Regno Unito ha annuncia un sostegno di 20 milioni di dollari per le regioni colpite da siccità e conflitti. Ma l’Etiopia fa gola anche e soprattutto alla Cina, con il nuovo ministro degli Esteri, Qin Gang, che come primo atto del suo mandato è volato ad Addis Abeba. Segno evidente che Pechino continua a puntare forte sugli investimenti in Africa. Agevolati, per così dire, dal fatto che l’Etiopia oggi, proprio per le incognite e gli interrogativi che gravano sul suo futuro, ha un disperato bisogno di aiuto.

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