SOCIETÀ

La guerra dimenticata del Tigray, laboratorio della legge del più forte

Di tutti i conflitti del nostro tempo quello del Tigray è uno dei più sanguinosi e meno raccontati e, forse, anche dei più inutili. Oscurato da guerre più “mediatiche” e vicine a noi, si è svolto tra la fine del 2020 e il 2022 nel nord dell’Etiopia e in due anni avrebbe causato, stando alle stime più diffuse, almeno 600.000 morti, quattro milioni di sfollati e circa 100.000 vittime di violenze sessuali, radendo al suolo buona parte delle infrastrutture (ospedali, scuole, palazzi governativi, chiese…) di uno dei Paesi più poveri al mondo. Il tutto nel silenzio dei media e sotto l’occhio distratto della comunità internazionale.

A tentare oggi di rompere questo silenzio, con rigore e passione civile, è il diplomatico italiano Giuseppe Mistretta nel suo nuovo libro Tigray. La guerra invisibile (Luiss University Press, 2025), frutto di una lunga esperienza sul campo prima come ambasciatore ad Addis Abeba e poi alla Farnesina da direttore del dipartimento per l’Africa Sub-Sahariana. Quella del Tigray, scrive l’autore, non è stata solo una feroce guerra civile ma il banco di prova per le crisi successive, con l’abbandono dei principi fondanti dell’ordine internazionale così come l’abbiamo conosciuto dopo il 1945. “Si tratta primo esempio nell’epoca attuale in cui si è applicata senza filtri la legge del più forte, ignorando completamente il diritto umanitario”, spiega Mistretta a Il Bo Live. Molti sono infatti i punti di contatto con i conflitti successivi, come l’attacco sistematico ai civili, l’utilizzo del blocco degli aiuti alla popolazione come strumento di pressione e persino l’utilizzo decisivo di droni – principalmente di fabbricazione turca, iraniana e cinese.

È il 4 novembre 2020 il governo etiope guidato dal primo ministro Abiy Ahmed Ali, premiato l’anno precedente con il Nobel per gli accordi di pace con l’Eritrea, lancia l'offensiva contro il Tplf (Tigray People's Liberation Front), partito egemone dell’omonima regione ed ex dominatore della politica etiope. Proprio leader e formazioni tigrini avevano infatti condotto la rivolta contro il “negus rosso” Menghistu, guidando successivamente il Paese per 25 anni, caratterizzati da sviluppo economico ma anche da molti residui di autoritarismo. Un’egemonia che però con il tempo era divenuta sempre più difficile da digerire per le altre etnie come gli Oromo (il 35% della popolazione, contro il 6% dei tigrini) gli Amhara (27%) e decine di altri gruppi minoritari.

Così, quando il giovane premier Abiy – di origine oromo e di religione protestante evangelica – ha iniziato a limitare le ampie autonomie sancite dalla costituzione del 1994, escludendo allo stesso tempo i politici tigrini dai centri di potere, l’effetto è stato quello di innescare una polveriera geopolitica nel cuore del Corno d’Africa, area di importanza cruciale per i traffici internazionali e l’equilibrio geopolitico globale. Eppure tutto avrebbe potuto essere evitato con uno sforzo politico da entrambe le parti: “Alla fine di combattimenti tanto cruenti la situazione sul campo, in fondo, non è drasticamente cambiata rispetto all’anteguerra”, continua Mistretta. Il Tigray è ancora lì, esiste un governo regionale seppur “provvisorio”, un esercito locale non smobilitato, e lo stesso governo centrale è rimasto in sella ad Addis Abeba. Per questo, sostiene Mistretta, si tratta di una delle guerre “più tragiche e inutili di sempre”. 

Guerra senza testimoni e laboratorio della barbarie

Centrale, per capire la genesi e l’esito del conflitto, è la figura del premier. Salito al potere nel 2018, presentato come il “nuovo volto della pace in Africa”, aveva avviato un processo di riconciliazione con l’Eritrea e promosso una nuova visione unitaria del Paese con la creazione del Prosperity Party, abbandonando l’esperienza del Fronte democratico rivoluzionario dei popoli etiopi (Eprdf). Una visione che presto però si è scontrata non solo con il Tigray, ma anche con gli altri popoli che compongono la federazione etiope: persino quelli maggioritari come gli Oromo e gli Ahmara.

Uno scontro difficile da prevedere solo pochi anni prima e che alla fine ha avuto sostanzialmente l’avallo di tutti i principali attori internazionali in campo: a partire da Cina e Russia per finire a Turchia ed Emirati Arabi. A prevalere, spiega Mistretta, è stato un calcolo geopolitico, con grandi e piccole potenze intenzionate soprattutto non compromettere i propri interessi strategici ed economici. Ciò che però rende il Tigray un precedente inquietante è l’abbandono consapevole di ogni riferimento al diritto internazionale. “Oggi nessuno in giro per il mondo si stupisce più per la violazione dei diritti umani, come se fosse una parte inevitabile di ogni conflitto – commenta Mistretta –. Eppure negli ultimi anni, superando il precedente del colonialismo, soprattutto noi europei avevamo tentato di costruire con i Paesi africani relazioni basate innanzitutto su diritto e good governance. Un patrimonio che noi stessi non abbiamo difeso: se però smettiamo di distinguerci da Paesi autocratici e autoritari diventiamo, inevitabilmente, anche più deboli e irrilevanti”.

Alla fine tutti gli attori si sono in qualche modo accodati con cinismo al governo guidato da Abiy Ahmed, nel tentativo di mantenere un piede in un Paese strategico per la nuova Scrumble for Africa (alla quale lo stesso Mistretta ha dedicato un altro libro). Così gli accordi di Pretoria del 2022 non sembrano purtroppo aver portato la pace ma una pausa in un conflitto latente, e non solo perché hanno lasciato fuori l’Eritrea di Isaias Afewerki e le altre milizie come Fano, espressione dell’etnia Ahmara, e l’Oromo Liberation Army. Dopo centinaia di migliaia di morti la situazione politica non è praticamente cambiata, salvo che oggi l’Etiopia è un Paese molto meno sicuro, nel mezzo di una tregua armata che rischia di crollare in ogni momento.

Uno scenario in cui colpisce soprattutto la caduta verticale del ruolo delle istituzioni internazionali: “Il diritto internazionale appare oggi completamente offuscato – conclude il diplomatico –. I principi e le regole su cui si basa la diplomazia oggi sono messe da parte. La stessa ONU è bloccata e non ha più quel ruolo di mediazione che ha sempre svolto. Un sintomo, ma forse anche un preludio: se cade il diritto, resta solo la forza”. Per questo il libro è anche un appello, che non si limita alla situazione in Etiopia: se il silenzio sul Tigray racconta di un mondo in cui i crimini si possono commettere nell’impunità, purché lontani da occhi indiscreti, allora questa “guerra mondiale a pezzi” per i nuovi equilibri di potenza mondiale non è destinata a finire ma solo a spostarsi. Sempre più vicino a noi.

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