SOCIETÀ

Un altro anno è andato, la sua musica è finita, la popolazione non ritornerà

Ogni anno che passa ci troviamo in meno cittadini italiani sullo stesso territorio, con gli stessi confini. Quasi tutti i comuni e tutte le regioni hanno subito un ulteriore calo di popolazione, ormai siamo scesi sotto i 59 milioni, la tendenza al calo è confermata e non si arresterà né nel breve né nel medio periodo, forse non ci stiamo facendo i conti abbastanza, certamente a livello istituzionale politico, probabilmente anche a livello individuale comunitario. L’allusione alla famosa splendida canzone di Francesco Guccini Un altro giorno è andato sollecita piena contezza in riferimento alle scale temporali. Non sono ore o giorni quelli che ripetono lo stesso copione, nemmeno mesi o anni. Riguardo alle dinamiche della popolazione e all’eventuale denatalità occorre ragionare per decenni tutti abbastanza simili, si tratta di fenomeni profondi, ormai propri dell’intero mondo e non più solo dei paesi appagati di benessere.

Da tempo sui nostri organi d’informazione vengono riportati dati e statistiche delle organizzazioni scientifiche o sociali che se ne occupano; i vertici e molte autorevoli personalità del mondo internazionale, religioso e istituzionale vi fanno continuamente cenno; gli effetti di “spopolamento” sono ben visibili in Italia, da decenni nelle aree più isolate o periferiche del nostro paese, da anni pure fra organizzatori e utenti di servizi sociali cittadini o metropolitani, pubblici e privati. Sarà così anche nei prossimi giorni e settimane con gli aggiornamenti Istat: poco più di 59 milioni a fine 2021, abbastanza meno di 59 a fine 2022. Ne abbiamo dato più volte conto, sottolineando come la natalità risulti uno di vari fattori demografici, come stentino a emergere strategie di medio lungo periodo e come il dibattito fra i decisori non sia mai stato all’altezza.

Partiamo dalla Cina, per decenni primo paese al mondo per popolazione nazionale, forse ormai secondo. L’anno scorso per la prima volta da sessanta anni (precisamente dal 1961) la popolazione cinese è diminuita; alla fine del 2022 gli abitanti erano 1.411,75 milioni, con un calo stimato di 850.000 persone rispetto al 2021. Si registrano sia un incremento dei decessi (nelle prime settimane del 2023 cresciuti poi vertiginosamente a causa della nota recrudescenza pandemia) che soprattutto un forte calo della natalità. Il numero di nascite per mille persone è sceso da 7,52 nel 2021 a 6,77 nel 2022. La politica cosiddetta “del figlio unico” era stata portata avanti con determinazione dal 1979 al 2015 proprio per limitare lo sviluppo demografico e non è facilmente reversibile con imposizioni dall’alto.

Nonostante il carattere brutale e autoritario di alcune recenti imposizioni del potere centrale, vi è stato un continuo invecchiamento medio della popolazione cinese (con conseguenti calo delle entrate fiscali e pressione sui sistemi pensionistico e sanitario), mentre sta pesando la composizione alterata e sproporzionata, con molti più uomini che donne giovani in età fertile (a causa della pratica dell’aborto selettivo). Dal 2016 è consentito avere due figli, dal 2021 ogni coppia tre, ma la tendenza non può certo essere invertita a breve, pure per dinamiche consuete nei paesi industrializzati o specifiche: inurbamento massiccio, insicurezza derivante dal rallentamento dell’economia, aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro, costi dell’istruzione e della dote da garantire ai figli maschi.

Probabilmente a fine 2022 il primo paese al mondo per popolazione nazionale è divenuto l’India (circa 1.426.000 sapiens). E, se non è già così, il sorpasso accadrà quest’anno, nel 2023. Il censimento indiano, previsto nel 2021, è stato rinviato per la pandemia. Ci si basa su precedenti proiezioni di varie strutture Onu e internazionali che prevedevano il sorpasso il 14 aprile 2023, considerando i rispettivi tassi di crescita demografica. Il contingente trend cinese potrebbe aver anticipato i tempi, pur se la tendenza resta irreversibile e inevitabile. Peraltro, con la continua crescita della popolazione, le marcate differenze territoriali e le carenze infrastrutturali, il basso livello di partecipazione al lavoro in India potrebbe creare problemi sociali delicati, in particolare quello di avere una popolazione giovane, con una relativamente bassa quota di occupati, soprattutto fra le donne. Resta il fatto che la popolazione mondiale continua a crescere soprattutto perché cresce in India e in molti paesi africani, nonostante cali, invece, nei paesi ricchi e ora anche in Cina.

Nei paesi di crescente diminuzione della popolazione, il fattore più rilevante è la denatalità, si possono segnalare graduatorie e distinzioni, tentando sempre di vedere dati più decennali che annuali. Ai primi posti c’è il Giappone dove nel 2022 sono nati meno di 800 mila bambini, il numero più basso da quando si tengono le statistiche demografiche, vale a dire il 1899. Negli anni Settanta nascevano circa due milioni di giapponesi all’anno; la popolazione l’anno scorso è scesa a 124,77 milioni di abitanti dai 125,30 censiti all’inizio 2022; già ora un terzo quasi della popolazione è composto da anziani dai 65 anni in su. Il Giappone risulta il secondo Paese “più vecchio” del mondo, dopo il principato di Monaco. L’Italia non è messa molto meglio, una delle situazioni più delicate e compromesse in un panorama europeo in cui, comunque, calano mediamente molto sia popolazione che natalità. Finora la riduzione del (nostro) danno si è ottenuta solo grazie all’immigrazione.

Fermiamoci un attimo a considerare come le scelte politiche quotidiane e transitorie debbano affrontare fenomeni che vanno decisamente oltre la durata di un governo o di una legislatura. Può essere opportuno suggerire un paragone con le strategie per fronteggiare i cambiamenti climatici antropici globali, i cui effetti sono in parte irreversibili e inevitabili. Il negoziato internazionale da decenni chiede che i paesi si concentrino sia sulla progressiva duratura riduzione delle emissioni da combustibili fossili (o contenimento o tendenziale azzeramento, dipende da quanto hanno inquinato nel Novecento) sia sull’adattamento tempestivo intanto ai processi in corso, affinché facciamo meno danni possibile alle comunità umane e agli ecosistemi e sia possibile attivare subito meccanismi di sopravvivenza o resilienza.

Rispetto alla popolazione occorre battere i tasti allo stesso modo, diacronico, uno di lungo periodo, l’altro immediato: avviare azioni per consentire che possano forse lentamente aumentare i nati e diminuire i decessi da una parte, assicurare prontamente altri arrivi nel proprio territorio e ridurre almeno un poco le partenze. E aggiungere il tasto della connessione fra gli equilibri della popolazione mondiale o delle singole nazioni e l’urgenza di lasciare alle future generazioni un pianeta non troppo caldo e inquinato. Prendiamo le parole dei rappresentanti istituzionali protempore.

Pochi giorni fa il premier giapponese ha usato iperboli sull’inverno demografico, non diverse da quelle lette o ascoltate in tanti altri paesi, ora e precedentemente: “La nostra società è sull’orlo dell’impossibilità di funzionare… sventura ormai prossima… è ora o mai più, non possiamo più attendere”. In Italia una ministra ha parlato di “inferno demografico”. Andrebbe suggerito di avere coscienza del limite della politica quando si parla di demografia o di natalità: la drammaticità è reale, ridotta la possibilità di correggerla a breve. Si sa che in teoria per mantenere stabile la popolazione il tasso di nascite per donna fertile dovrebbe essere 2,1 (in Giappone e in Italia concretamente adesso è intorno all’1,3, in Francia all’1,8), ma non c’è un bottone da premere per trasformare teoria in pratica, i tempi saranno comunque lunghi, non basta una sola misura né economica fiscale né lavorativa familiare. In Europa il fenomeno è apparso meno drammatico grazie all’immigrazione: solo il 3% degli abitanti del Giappone sono nati all’estero, in Europa le percentuali variano dall’8 al 15. 

L’immigrazione serve strutturalmente all’Italia e a molti paesi del pianeta, mentre ad altri serve nella contingenza una certa emigrazione, prendiamone atto. Si moltiplicano gli appelli delle organizzazioni imprenditoriali, sia industriali che agricole, per consentire l’arrivo di immigrati stagionali, almeno centomila l’anno per non far morire la nostra agricoltura. Ben vengano, non solo stagionali, non solo congiunturalmente. La forza lavoro immigrata costituisce già il 10,7% della popolazione attiva e il relativo contributo al bilancio statale italiano è già decisivo (144 miliardi di euro di valore aggiunto pari al 9% della ricchezza nazionale). Nonostante ciò, i governi italiani continuano a considerare l’immigrazione un’emergenza da evitare: relativo accesso regolare viene consentito solo dopo l’intera procedura d’assunzione. Risulta così impossibile allo stesso “datore” di lavoro (che pure si accolla oneri finanziari) verificare le capacità professionali e le qualità sociali di un lavoratore. Le quote d’ingresso si sono trasformate in uno strumento di regolarizzazione dei migranti già presenti. Rincorriamo oggi braccianti immigrati stagionali, ma abbiamo bisogno di misure ad hoc come il nullaosta pluriennale e le garanzie di alloggio.

Guardiamo al prossimo decennio e oltre, non solo alla prossima stagione. Compiamo nel modo più unitario possibile condivise scelte per favorire la natalità, chiamano in causa più profili e più ministeri (non solo “la famiglia”); diamo per scontato un decennale squilibrio della popolazione italiana al quale un poco adattarsi (con spirito critico e collaborativo); garantiamo l’arrivo regolare, sicuro e integrato a uomini e donne immigrati o migranti, che chiedono di condividere con noi norme e culture. Una parte di loro stava e sta sui barconi, piaccia o meno. Una parte va incentivata con norme europee e nazionali o con accordi fra centri di studio e ricerca, regioni, comuni, imprese e analoghe istituzioni e strutture di singoli paesi.

Il 15 novembre 2022 la popolazione mondiale ha superato gli otto miliardi di sapiens. Nell’anno 0 eravamo circa 200 milioni, massimo un miliardo fino al 1800, nel 1950 2,5 miliardi, ci sono voluti soltanto 12 anni per passare da sette a otto miliardi. Riscontriamo adesso, dunque, segni di un “rallentamento” secondo l’Onu: serviranno circa quindici anni per raggiungere i nove miliardi, nel 2037; il picco è previsto a 10,4 miliardi nel 2080, poi una stagnazione fino alla fine del secolo; più della metà dell’incremento fino al 2050 sarà registrato in soli otto paesi (Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania). Negli stessi prossimi decenni in moltissimi paesi la popolazione nazionale continuerà a calare, anche in Italia. Evitando ovviamente “invasioni”, un certo regolato sano riequilibrio è auspicabile, sul piano sociale ed ecologico.

Tutto ciò almeno per quanto riguarda la cruciale demografia globale, europea e italiana, nella piena consapevolezza degli allarmi giustificati per tutto il resto di rischioso sul pianeta (anche) dei sapiens: la crescente competizione armata nella geopolitica mondiale, la situazione molto vicina alla catastrofe atomica globale, le guerre in corso (in particolare dopo l’aggressione russa dell’Ucraina), le persistenti fame e povertà diffuse, le crescenti diseguaglianze economiche e sociali interne e internazionali, la perdita di biodiversità e gli altri effetti dei cambiamenti climatici antropici globali.

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