SCIENZA E RICERCA

Un terremoto profondo ha rivelato importanti informazioni sul mantello terrestre

L'interno della Terra rimane ancora pressoché inaccessibile: la perforazione più profonda che si sia riusciti a portare a termine si limita a circa 12 chilometri, un'inezia se consideriamo che il nostro pianeta ha un raggio di oltre 6000 chilometri. 

Le condizioni di temperatura e pressione impediscono (almeno con le tecnologie attuali) di scavare più in profondità e per questo motivo gli scienziati che cercano di comprendere la composizione della Terra possono fare affidamento solo su informazioni indirette, come le inclusioni contenute nei diamanti, l'analisi delle meteoriti o il movimento delle onde sismiche.

Proprio il modo in cui queste ultime si propagano ha consentito di ricostruire la struttura dell'interno terrestre deducendo, grazie alla scoperta di superfici di discontinuità, che è composto da quattro livelli: la crosta, il mantello (diviso in due "regioni", quella superiore e quella inferiore) , il nucleo esterno e il nucleo interno. Anche del livello appena sotto la superficie su cui poggiano i nostri piedi sappiamo però ancora poco. Il limite di inizio del mantello superiore si trova generalmente tra i 10 e i 35 km di profondità (la crosta oceanica ha uno spessore più ridotto rispetto a quella continentale) ma, come detto, le informazioni che hanno permesso di stabilire la sua composizione e i movimenti dinamici che caratterizzano questo strato non provengono da campionamenti diretti. 

Uno studio recentemente pubblicato su Nature ha scoperto che nella parte più profonda del mantello superiore potrebbe esserci uno strato di roccia sorprendentemente meno viscosa ( (e quindi più fluida) di quanto ci si attendesse ed è riuscito ad ottenere questi risultati misurando i movimenti registrati da una rete di stazioni GPS collocate su diverse isole nelle vicinanze dell'epicentro di un terremoto profondo, di magnitudo 8.2, avvenuto il 19 agosto del 2018 al largo della costa delle Fiji, nell'oceano Pacifico.

La profondità del sisma, circa 560 chilometri, ha impedito che un terremoto così potente potesse esser distruttivo per gli insediamenti umani e ha prodotto deformazioni visibili solo grazie ai dati provenienti dai sensori. Terremoti così profondi sono meno studiati rispetto a quelli, più frequenti, che si originano nella crosta della Terra, ma l'intuizione degli autori di questo studio è stata che potessero offrire un modo per comprendere il comportamento del mantello, proprio perché raggiungono questo livello del nostro pianeta.

L'analisi dei dati dei sensori GPS ha permesso di scoprire che nei mesi successivi al terremoto la Terra era ancora in movimento e, più nel dettaglio, di indagare l’entità della deformazione post-sismica e la sua estensione. Gli aspetti sorprendenti sono che spostamenti sono avvenuti su un'area molto vasta (circa 2.000 chilometri) e, soprattutto che la deformazione è stata relativamente veloce. Quest'ultima considerazione ha quindi portato gli autori a utilizzare una serie di modelli matematici con cui arrivare a definire quale configurazione di quello strato del mantello terrestre potesse spiegare gli spostamenti osservati in superficie tramite le stazioni Gps.

"Pensiamo che ci sia molto di più che possiamo imparare usando questi terremoti profondi come un modo per dare risposte alle domande sul mantello terrestre", ha affermato Sunyoung Park, geofisico dell'università di Chicago e autore principale dello studio, a cui hanno partecipato anche Jean-Philippe Avouac e Zhongwen Zhan del California Institute of Technology e Adriano Gualandi dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. 

Lo studio pubblicato su Nature rappresenta la prima solida osservazione delle deformazioni che avvengono a seguito di profondi terremoti ed esaminando come la Terra si è deformata nel tempo, gli autori hanno trovato prove di uno strato spesso circa 50 miglia che è meno viscoso (cioè "più fluido") rispetto al resto del mantello. Questo strato si trova nella zona di transizione, un'area di grande complessità che separa il mantello superiore da quello inferiore e, secondo Park e colleghi, la caratteristica della bassa viscosità potrebbe essere comune a tutto il mondo a quelle profondità. 

Abbiamo chiesto a Manuele Faccenda, professore associato del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova, di aiutarci a comprendere le implicazioni di questo studio e a cosa possa essere dovuta la bassa viscosità presente in questo livello alla base del mantello superiore. 

Il professor Manuele Faccenda approfondisce lo studio che ha svelato informazioni sul mantello terrestre grazie ai dati ottenuti da un terremoto profondo. Servizio, riprese e montaggio di Barbara Paknazar

Il ruolo delle onde sismiche per decifrare l'interno della Terra 

"Dobbiamo partire dalla considerazione che, a fronte degli oltre 6000 chilometri del raggio terrestre, con la tecnologia attuale riusciamo a raggiungere una profondità di circa 11 chilometri. Questo significa che la maggior parte del nostro pianeta è inaccessibile all’osservazione diretta, per cui dobbiamo avvalerci di metodi che si basano su osservazioni indirette", introduce il professor Manuele Faccenda.

Tra le osservazioni indirette molto importanti sono le informazioni che si possono ricavare dallo studio della propagazione delle onde sismiche, poiché queste ultime modificano la loro velocità in base alla densità dei materiali che attraversano. "Soprattutto dopo un sisma di grande magnitudo la Terra comincia a vibrare e quindi andando ad analizzare le oscillazioni misurate dalle stazioni sismiche è stato possibile derivare un modello della struttura interna del nostro pianeta". Questo metodo ha consentito di capire che la Terra, così come altri pianeti rocciosi, ha una disposizione a strati.

"Per quanto riguarda invece la dinamica del nostro pianeta e quindi il comportamento meccanico noi sappiamo che i materiali solidi come i metalli e le rocce alle basse temperature si comportano in maniera rigida, mentre a temperature elevate si comportano in maniera duttile. Questo significa che quando sono soggette ad uno sforzo queste rocce tendono a dissipare lo sforzo tramite una deformazione interna, quindi in un certo senso tendono a fluire", approfondisce il docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova. 

"Il tempo che le rocce a comportamento duttile impiegano a dissipare lo sforzo a cui sono sottoposte è proporzionale ad una proprietà caratteristica di questi materiali che è detta viscosità e può essere intesa come la resistenza alla deformazione. Quindi una roccia ad alta viscosità impiegherà un tempo molto maggiore a dissipare lo sforzo rispetto ad una roccia a bassa viscosità", spiega Manuele Faccenda

Deformazioni viscose 

Per rendere concretamente l'idea di un materiale viscoso e del suo comportamento possiamo prendere come esempio il miele. "Se lo lasciamo a riposo in un barattolo il miele è caratterizzato da una superficie piatta. Ma se lo perturbiamo con un cucchiaino ci accorgeremo che il tempo necessario affinché la superficie torni piatta varia a seconda della viscosità del miele. Se è bassa basteranno pochi minuti o qualche ora, se invece abbiamo un miele ad alta viscosità potrebbero essere necessari alcuni giorni", osserva il docente del dipartimento di Geoscienze. "Un comportamento analogo può essere osservato sulla Terra e questo grazie alla geodesia che è quella scienza che ci permette di registrare, tramite stazioni GPS, spostamenti dell’ordine dei millimetri che avvengono nell’arco di mesi o anni e che sono impercettibili a noi umani", prosegue Faccenda.

Il docente, prima di entrare nel dettaglio delle deformazioni legate ai terremoti, cita l'esempio delle aree interessate dall'ultima glaciazione, circa 10 mila anni fa. "E' noto che queste aree si stanno sollevando perché non sono più soggette al carico dovuto al ghiaccio sovrastante. Questo rimbalzo, definito anche isostasia glaciale "avviene nell’arco di molto tempo perché supponiamo che le rocce del mantello duttili abbiano una viscosità molto elevata e per rilassare lo sforzo serve un arco temporale di migliaia di anni". Un po' in tutto il mondo la crosta terrestre delle aree che erano ricoperte dal ghiaccio è in fase di risalita e in Antartide il fenomeno è contraddistinto da ritmi decisamente più elevati rispetto alla media (ben 4 centimetri l'anno, contro i 30 millimetri annui della Groenlandia), il che ha portato gli scienziati a ritenere che alcune aree del mantello sono molto più fluide di quanto non si pensasse in precedenza. 

Un altro fenomeno in cui può essere osservata questa deformazione viscosa è a seguito di un terremoto. "L’evento sismico è caratterizzato da due fasi deformative principali: la prima, detta co-sismica, è quella che si ha durante il movimento lungo una superficie di faglia. A seguire abbiamo una fase post-sismica che può durare mesi o anche anni, nel caso di terremoti grandi.

La fase di deformazione post-sismica è dovuta al fatto che durante l’attivazione della faglia, quindi durante la genesi del terremoto, si ha una perturbazione degli stress nelle aree circostanti la faglia. Questi sforzi, nelle aree che si deformano in maniera duttile, vengono poi dissipati nell’arco di mesi o anni in funzione della viscosità delle rocce", spiega il professor Faccenda.

La prima solida osservazione della deformazione a seguito di un terremoto profondo

Le deformazioni post-sismiche sono state studiate nel corso degli anni precedenti in alcuni dei più importanti terremoti superficiali, ma gli esperti pensavano che nel caso di terremoti profondi l'effetto sarebbe stato troppo piccolo per poter essere colto. 

"Lo studio recentemente pubblicato su Nature è il primo in cui questo fenomeno è stato osservato anche per un terremoto profondo. Parliamo di un terremoto che è nucleato nel 2018 nell’area del Pacifico tra le isole Fiji e l’arco di Tonga, ad una profondità di 540 chilometri. E’ stata un’osservazione molto importante e difficile da fare perché più il terremoto nuclea in profondità e meno se ne risentiranno gli effetti in superficie. Infatti benché questo terremoto sia stato caratterizzato da una magnitudo superiore ad 8 non ha causato danni in superficie".

"Utilizzando una rete di stazioni GPS presenti nelle isole Fiji e dell’arco di Tonga è stato possibile osservare come a seguito di questo terremoto profondo ci sia stato uno spostamento di alcuni centimetri su un’area molto vasta, estesa su migliaia di chilometri. Lo spostamento è avvenuto nell’arco di almeno due anni ma per terremoti così profondi si tratta di una deformazione relativamente veloce perché si presuppone che a quelle profondità la viscosità delle rocce del mantello sia abbastanza alta e quindi un tipo di sforzo generato da un terremoto profondo debba dare origine ad una deformazione post-sismica molto più lenta, nell’arco di diverse decine di anni", approfondisce Manuele Faccenda.

La base del mantello superiore ha una viscosità molto bassa

Park e i suoi colleghi hanno usato questa osservazione per dedurre la viscosità del mantello. "Utilizzando una serie di modelli matematici si è andati a ricostruire la configurazione ideale che permette di riprodurre le deformazioni e gli spostamenti osservati in superficie tramite le stazioni Gps". La moderazione eseguita dagli autori dello studio ha rivelato che "è possibile riprodurre questi spostamenti se alla base del mantello superiore (cioè la parte del mantello che arriva fino a 660 chilometri di profondità) abbiamo un livello di un centinaio di chilometri caratterizzato da una viscosità molto bassa. La profondità di 660 km è necessaria per spiegare il fatto che questa deformazione post-sismica sia stata osservata su un’area molto vasta: se la deformazione avviene a bassa profondità ne risentirà solo su un’area molto ristretta in superficie. L’altro aspetto è che la bassa viscosità di questo livello è necessaria per spiegare gli alti tassi di deformazione registrati in superficie", spiega Faccenda.

A cosa può essere dovuta questa bassa viscosità?

Per cercare ricostruire da cosa possa dipendere la bassa viscosità di quello livello alla base del mantello superiore gli autori dello studio hanno avanzato diverse ipotesi. "Sono stati proposti alcuni meccanismi tra cui, per esempio, la presenza di alcune fasi mineralogiche che avrebbero una viscosità molto bassa, anche se sembra che la concentrazione di questi minerali sia troppo bassa per spiegare un indebolimento strutturale dell’intera roccia. Altri meccanismi proposti sono la presenza di magma in concentrazioni che, seppur basse, possono causare un indebolimento strutturale delle rocce molto deciso. Un altro meccanismo può essere dovuto al fatto che ci troviamo in corrispondenza di una zona molto particolare della Terra, dove c'è il fondamento della placca pacifica, ma anche nelle vicinanze di uno dei punti caldi del nostro pianeta che è quello di Samoa. Un punto caldo è dove si hanno fenomeni vulcanici per milioni di anni e altre evidenze geofisiche suggeriscono che in profondità ci sia del materiale caldo che risale per gravità e va a sbattere contro la placca del Pacifico che è in subduzione, più o meno dove avvengono questi terremoti profondi", analizza il professor Faccenda.

"E’ quindi plausibile pensare che il livello a bassa viscosità che causa una risposta post-sismica relativamente veloce in questa area possa essere dovuto alla presenza di questo materiale caldo alla base della placca pacifica. Un’altra domanda posta dagli autori, e che ci possiamo porre anche noi, è se questo livello a bassa viscosità sia diffuso a livello globale, il che avrebbe ovviamente delle conseguenze molto importanti sulla dinamica terrestre, oppure se sia presente solo su scala regionale, come è lecito supporre nel caso in cui si abbia una risalita molto locale del materiale caldo che quindi va ad influenzare una porzione della Terra dell’ordine di alcune migliaia di chilometri".

"Questa è altre domande rimangono ancora aperte, però questo articolo sicuramente fornisce degli spunti molto interessanti per proseguire le ricerche sulla struttura e sulla dinamica interna del nostro pianeta", conclude il docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova.

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