SCIENZA E RICERCA

Nella testa di un gatto

Prima di cominciare a recensire Nella testa di un gatto di Jessica Serra (edito da Carocci) devo confessare una mia debolezza: sono una gattara impenitente, non a livello di quella dei Simpson ma poco ci manca. Il primo libro sui gatti l’ho comprato a 8 anni, quando non sapevo nulla sul concetto di affidabilità delle fonti, e credevo che ogni autore meritevole di finire sugli scaffali di una libreria fosse qualificato per parlare dell’argomento. Non ricordo sulla base di che criterio avessi scelto proprio quel libro, probabilmente mi piaceva il gatto sulla copertina, ma in ogni caso era di Desmond Morris: quando si dice cadere in piedi.
Da allora ci sono stati tanti libri e tanti gatti (miei o degli amici che d’estate me li affidavano), ma anche tante domande più o meno dilettevoli che mi venivano poste. Una di queste mi ha messo un po’ in crisi: ma un gatto d’appartamento riuscirebbe a cavarsela se l’essere umano si estinguesse?

So che molti gattofili (più tecnicamente: ailurofili) risponderebbero che con quegli occhioni qualsiasi felino domestico riuscirebbe a convincere anche un topo a sacrificarsi e trasformarsi in delizioso pranzetto, ma sottovalutare l’istinto di sopravvivenza di altre specie mi sembra francamente azzardato. Bene, nel libro di Jessica Serra ho trovato la risposta, ma ne parliamo dopo.
Serra è un’etologa francese specializzata in cognizione animale che per anni ha condotto il programma televisivo La vie secrète del chats. L’abitudine a frequentare diversi canali di comunicazione risulta evidente dallo stile del libro, da cui emerge la capacità dell'autrice di tradurre concetti scientifici complessi in una prosa accessibile e coinvolgente, rendendo la lettura avvincente per chiunque sia interessato alla mente dei felini, anche se non ha conoscenze etologiche pregresse. Con una combinazione di rigore scientifico e passione per il soggetto, Nella testa di un gatto ci offre un nuovo modo di guardare i nostri amici a quattro zampe, invitandoci a esplorare il loro mondo con occhi nuovi e una mente aperta.

Sono citate anche le ricerche più recenti, e questo spiega perché sono riuscita a trovare informazioni che non conoscevo, anche se sono solita piantonare le pubblicazioni scientifiche sull’argomento. Inoltre lo sguardo di un’etologa molto concentrata sull’aspetto evolutivo e sulla filogenesi permette di fare collegamenti fuori dalla portata dei semplici appassionati come me. Spesso Serra, pur precisando che non ci sono ancora articoli scientifici su determinati temi (i cani sono da sempre più studiati dei gatti perché sono considerati più collaborativi) ci restituisce le sue idee personali, ovviamente motivandole, e queste ipotesi suonano molto plausibili: le prendiamo per buone in attesa che, come lei si auspica, vengano confermate dai ricercatori.

Il titolo suona piuttosto riduttivo, per due motivi: il primo è che non si parla soltanto di gatti, ma anche di ricerche su altri animali, come la storia di Santino, di cui abbiamo scritto anche noi. Molto toccante è il punto in cui Serra cerca di rispondere alla domanda sulla consapevolezza della morte, che il gatto non avrebbe, a differenza dei gorilla. Serra riporta le parole di Coco, una gorilla addestrata a parlare nella lingua dei segni: quando le chiesero dove andavano i gorilla dopo la morte, lei rispose “Buco comodo, addio” e alla domanda su come si sentono i gorilla quando muoiono, nonostante i suggerimenti dell’assistente (“felici, tristi, spaventati”) Coco rispose “assonnati”. Il gatto invece sente la mancanza di umani e altri animali familiari che sono deceduti, ma a differenza dello scimpanzé non riesce probabilmente a comprendere che non torneranno più.

In secondo luogo, il testo si amplia in digressioni storico sociali, raccontando per esempio come è avvenuta la domesticazione, come se la passavano i gatti (non necessariamente neri) negli anni bui del Medioevo, quando erano perseguitati perché associati alle presunte streghe e hanno addirittura sfiorato l’estinzione, altre curiosità storiche come l’assedio di Pelusio, quando i persiani attaccarono 600 gatti ai loro scudi e gli Egizi rinunciarono al combattimento (ma non fatevi ingannare: è vero che per gli Egizi i gatti erano sacri, ma in virtù di questo alcuni di loro venivano allevati appositamente per essere sacrificati a Bastet) e, per finire, incursioni letterarie e cinematografiche (a proposito, se ve lo steste chiedendo, i gatti preferiscono la musica rock, veloce e acuta, rispetto alla musica melodica).

Attraverso una combinazione di ricerca scientifica e narrazione avvincente, Serra ci guida attraverso i complessi meandri del cervello felino, rivelando i segreti nascosti dietro quegli sguardi penetranti e quei comportamenti enigmatici: potrà avere risposta anche chi si chiede se il gatto ci vuole bene davvero, o se siamo solo i suoi dispensatori di crocchette ufficiali. Con una profonda comprensione dell'etologia felina e un tocco di magia narrativa, l'autrice ci mostra che i gatti sono molto più di semplici animali domestici: sono esseri dotati di una ricca vita interiore, densa di emozioni, intelligenza, istinti sorprendenti e sensi molto sviluppati, in particolare quando si parla di olfatto e udito (nel libro ci sono vari esempi, ma facendo delle prove con la complicità dei vicini ho personalmente avuto la conferma che il mio primo gatto percepiva il rumore del coltello elettrico da più di 1km di distanza. Con le finestre chiuse). Dal canto nostro, noi umani avremmo molto da insegnare al felino di casa se si parla di gusto, perché lui non è in grado di riconoscere il sapore dolce.

I cani accorrono quando vengono chiamati. I gatti ascoltano il messaggio e ti richiamano più tardi Mary Bly

Ma veniamo alla domanda dell’inizio, perché qui troviamo il contributo più innovativo di Serra. Partendo dall’inizio, il gatto domestico in migliaia di anni si è evoluto modificando il proprio comportamento per vivere a fianco degli umani, in un’ottica win/win in cui lui cacciava e gli umani lo nutrivano e accudivano. Con il passare del tempo (e l’avvento della chimica contro i topi) il comportamento predatorio si è slegato sempre di più dal bisogno di nutrirsi, perché ci pensavano gli umani, addirittura senza che il gatto dovesse impegnarsi in attività come la caccia (il micio probabilmente non credeva alla sua fortuna!). Man mano che il tempo passava, diventavano altre le caratteristiche che interessavano agli umani: per esempio, ed è il titolo di un capitolo, “il suo musetto ci fa impazzire” soprattutto se è un cucciolo. Non si tratta di percezione, ma di studi supportati da esami strumentali. Capita lo stesso con i visi dei neonati, con cui i gatti condividono alcune caratteristiche, per esempio teste sproporzionate e occhi molto grandi rispetto al corpo. Ma i gatti hanno un’ulteriore arma segreta: le fusa. Dai tempi di Desmond Morris, sapevo che il gatto domestico è l’unico animale che fa le fusa, almeno quelle che conosciamo noi, sia in inspirazione che in espirazione, anche nell’età adulta, ma non mi ero mai chiesta perché. Secondo Serra questo si ricollega a una teoria poco indagata, quella della neotenia, cioè il permanere delle caratteristiche giovanili nell’animale adulto. Secondo molti etologi, il gatto non è soggetto a neotenia, mentre secondo Serra sì, e non solo per le fusa, che hanno un ben documentato effetto calmante: un altro esempio è l’azione di “impastare” l’umano o la cuccia quando il gatto si mette tranquillo, la stessa azione che faceva quando la mamma lo allattava. Anche il miagolio, destinato solo agli umani, è un riflesso del modo che aveva il cucciolo di gatto per comunicare con la madre, mentre non viene mai utilizzato con i conspecifici, ed è molto diverso, per lunghezza e frequenza sonora, da quello dei selvatici.

A questo si ricollega il fatto che molti gatti continuano a cacciare, ma non mangiano mai la preda, nemmeno quando trovano le ciotole vuote: secondo Serra, è perché il gatto riproduce con il suo umano di riferimento ciò che faceva la madre con lui, quando gli portava una preda ancora viva per prepararlo alla caccia (questo non vuol dire che il gatto crede di essere nostra madre, sta solo riproducendo un comportamento appreso nell’infanzia: anche questa sarebbe quindi una manifestazione neotenica). Questo naturalmente non vuol dire che il gatto, in mancanza d’altro, non riuscirebbe a mangiare la preda catturata, e quindi sì, riuscirebbe a sopravvivere anche se ci estinguessimo. A breve, però. Perché se il rapporto tra le nostre specie dovesse proseguire su questa strada, potrebbe anche succedere che l’animale, tra centinaia o migliaia di anni, diventerà così docile e dipendente da mettere da parte anche il comportamento predatorio.

A livello evolutivo, queste caratteristiche hanno favorito la convivenza con l’uomo, che come abbiamo visto è portato ad apprezzare i tratti tipici dei cuccioli (qualcosa di simile è successo anche al cane, che da adulto continua a comportarsi come un cucciolo di lupo, che gioca, scodinzola ed è meno aggressivo). È ragionevole pensare che di secolo in secolo il gatto svilupperà sempre più tratti di tipo docile, perdendo l’autosufficienza insieme a quello che rimane della sua selvatichezza: ci faremo incantare dalle sue fusa, e gli daremo più cibo di quello che avrebbe ottenuto cacciando, cosa che di fatto stiamo già facendo (l’obesità dei gatti domestici è un problema sempre più diffuso). Se nel mentre dovessimo estinguerci, questo renderebbe anche la sopravvivenza del gatto piuttosto complicata.

Al di là delle interessanti teorie evolutive di Serra, Nella testa di un gatto è un libro completo, che ci ricorda l’importanza di mantenere una connessione empatica con il felino di casa imparando a capirlo e a rispettare le sue peculiarità, favorendo una comprensione più profonda di quello che lui pensa di noi (per chi se lo stesse chiedendo: no, non siamo solo degli apriscatole per loro).

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