SOCIETÀ

Wasted Wetlands - una nuova serie sulle zone umide del Mediterraneo

Da indesiderate a protette. Le wetlands, e cioè quelle zone che includono saline, lagune, delta, laghi artificiali, stagni, paludi, foreste di mangrovie, oasi, risaie, bacini acquiferi e così via, sono tornate negli ultimi anni al centro dell’attenzione di chi cerca, anche un po’ disperatamente e in una vera e propria corsa contro il tempo, di sfruttare tutte le possibili strategie per mitigare gli effetti della crisi climatica e del cambiamento globale.

La parola wetland si riferisce ad ambienti molto diversi tra di loro. Ambienti non facilmente definibili, anche da un punto di vista scientifico ecologico, tanto che esistono diversi tipi di classificazione per distinguerli. Una descrizione, assai qualitativa e forse più evocativa, è quella di un ambiente che sta tra terra e acqua, dove l’acqua è presente in grande quantità e in modo permanente o periodico e circonda e abbraccia sparse zone emerse che consentono agli animali terrestri, inclusi noi, di viverci. Ambienti unici, per colori, suoni, luce, vita. 

Nel loro insieme, globalmente, le wetlands occupano ben meno del 10% del totale delle terre emerse. Eppure, anche così giocano un ruolo ecologico ed ecosistemico fondamentale. Perché sono degli efficaci carbon sink, e cioè contribuiscono in modo sostanzioso, soprattutto rispetto alla loro ridotta superficie, ad assorbire i gas climalteranti e in particolare la CO2. Non tutte allo stesso modo, naturalmente. Le torbiere assai più delle paludi, certo. Ma tutte in un modo o nell’altro offrono quelli che con un termine forse troppo improntato alla funzionalità e alla produttività, si chiamano ecosystems services, servizi ecosistemici.

Sono zone di eccezionale biodiversità, luoghi di nidificazione e rifugio di molte specie migratorie. Fanno da cuscinetto nei confronti dell’innalzamento delle acque salate dei mari, proteggendo così i bacini idrici di acqua dolce. E sono una barriera contro l’erosione delle coste. Contribuiscono a rinnovare fertilità e vitalità dei suoli. E sono un fantastico strumento di contrasto alle inondazioni e agli eventi meteorologici estremi e improvvisi. 

Insomma, le wetlands hanno recuperato in anni recenti una reputazione tutta nuova e positiva. Ben diversa da come venivano rappresentate a inizio Novecento, quando il focus era tutto sulla necessità di bonificarle, di eliminare gli ambienti dove zanzare e altri insetti nocivi si moltiplicavano, dove regnava l'acqua stagnante. Quando si volevano recuperare grandi quantità di terre da coltivare o spazi per costruire insediamenti umani, porti turistici, argini e strade, e così via. 

La storia delle wetlands è in larga parte la storia della loro distruzione The history of the countryside, Oliver Rackham

In Italia, le bonifiche tra fine ‘800 e la prima metà del ‘900 hanno coperto, distrutto, eliminato una percentuale molto consistente delle zone umide. Il resto lo hanno fatto lo sviluppo dell’agricoltura intensiva, le costruzioni e l’edilizia di costa, la crescita tumultuosa del turismo di massa, la pesca industriale. Poi, quando gran parte di questi ambienti preziosi era già stata distrutta, sono iniziati i ripensamenti.

Siamo a inizio anni Settanta. Il Club di Roma lavora a un rapporto, che vede la luce nel 1972 e che diventa un pilastro fondativo del ripensamento in chiave più ambientalista dello sviluppo economico, The limits of Growth, i limiti dello sviluppo. A Ramsar, in Turchia, viene approvato un primo strumento di protezione delle zone umide, la convenzione di Ramsar. Firmata ad oggi da 172 paesi, la convenzione non è purtroppo né troppo stringente né troppo rispettata, anche se rimane un punto di riferimento ineludibile nel percorso di protezione delle wetlands.

Nel suo Global Wetland Outlook special edition del 2021, la Convenzione riconosce che la distruzione delle wetlands continua ancora oggi, anche se con tassi diversi a seconda delle zone del mondo, e che questo costituisce un ulteriore elemento di rischio nella strategia di contrasto alla crisi climatica, perché sempre più evidenti sono le connessioni tra perdita della biodiversità e peggioramento della crisi climatica, anche se le due crisi non sono l’una la causa unica e primaria dell’altra. Come abbiamo raccontato e analizzato nel libro Il clima che vogliamo - ogni decimo di grado conta pubblicato dalla nostra redazione a fine 2023, e come cerchiamo di raccontare nei numerosi articoli della serie che porta lo stesso titolo. Però non c’è dubbio, sottolinea il rapporto, che maggiori sforzi vanno attuati per proteggere questi ambienti strategici nel tentativo di mitigare le emissioni, la perdita ulteriore di biodiversità e al tempo stesso per aumentare le opportunità e le possibilità di sviluppo sostenibile in quelle zone. 

Dagli anni Settanta a oggi, da quando sono stati avviati programmi scientifici di monitoraggio, studio e raccolta dati a seguito della ratificazione della Convenzione, sappiamo che un 35% delle wetlands è andato perduto. Ma prendendo in considerazione le bonifiche e la cementificazione che hanno caratterizzato tutto il ‘900 in molte zone, come ad esempio il Sud Europa, è probabile che complessivamente, da metà ‘800 a oggi, abbiamo distrutto ben oltre la metà delle zone umide del pianeta. Altre ne abbiamo create ad hoc, ad esempio creando laghi artificiali o espandendo la risicoltura in modo intensivo, ampliando le zone coltivate a riso di oltre il 230% rispetto a 50 anni fa, sempre secondo il Global Outlook. Ma le zone umide artificiali non sempre offrono quell'insieme di caratteristiche di diversità e di molteplicità di servizi ecosistemici quanto quelle naturali.

Guardando avanti: la Convenzione sulla biodiversità e le wetlands

Gli ultimi anni, quelli dal 2020 a oggi sono anche quelli dove a causa, o grazie, alla pandemia di Covid 19 maggiore consapevolezza abbiamo acquisito, come collettività, sull’importanza del legame tra ambiente e salute, sulla necessità di recuperare e mantenere l’ambiente naturale nella migliore forma possibile non solo per il suo valore intrinseco ma anche per quello che rappresenta per la salute umana e il nostro potenziale futuro. E dunque maggiore impegno dovrebbe essere messo nelle azioni di protezione e di gestione delle zone umide.

In molte zone del mondo le zone umide sono ancora minacciate da diverse azioni umane, magari meno immediatamente distruttive rispetto al passato, ma il solo fatto che l’acqua che arriva sulle coste dalle città e dagli insediamenti umani non sia trattata e pulita, e al contrario sia carica di inquinanti sia organici che da prodotti chimici usati in agricoltura, industria o dai residui farmaceutici e sanitari, per non parlare delle plastiche, fa sì che la salute complessiva di questi ambienti, e di tutte le specie che li abitano e li attraversano, sia compromessa

Tra i 20 target di Aichi, quelli che compongono la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica e che costituivano il Piano strategico per la biodiversità e di cui abbiamo parlato anche su questo giornale nel 2020 - lo puoi leggere qui "Dei 20 obiettivi per proteggere la biodiversità in 10 anni non ne è stato raggiunto nessuno" -  ce n’erano 5 che riguardavano le wetlands. E nessuno di questi è stato raggiunto.

Peggio va per le zone umide mediterranee, sempre secondo il Global Outlook. All’incrocio tra Sud Europa, Nord Africa e Medio Oriente, la regione mediterranea ha perso solo negli ultimi 30 anni tra il 30 e il 50% della sua biodiversità marina, a seconda delle stime, e una specie su tre delle specie tipiche delle zone umide è al momento minacciata di estinzione. Visto che la regione Mediterranea sta registrando un aumento della temperatura molto più veloce del resto del mondo, con proiezioni che indicano che entro il 2040 oltre 250 milioni di persone potrebbero vivere in condizioni di scarsità d’acqua dolce e in zone dove il livello del mare sta crescendo in modo consistente, intensificare gli sforzi sia politici ed economici, ma anche molto pratici, per proteggere le proprie zone umide non è più una questione solo ambientale. È una questione di sopravvivenza

A dicembre 2022, il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, l’accordo finale con il quale si è chiusa la quindicesima conferenza delle parti, la COP15, sulla biodiversità, ha posto come obiettivo il ripristino della biodiversità globale con la realizzazione di quattro importanti obiettivi da realizzare entro il 2050 e una serie di 23 target da raggiungere entro il 2030. Il target 3, quello ritenuto più importante dal punto di vista della conservazione e protezione della biodiversità, prevede l’ampliamento delle aree protette fino al 30% degli ambienti terrestri e marini. 

Leggi anche COP15 di Montreal. Ciccarese: “Accordo storico, ora impegnarsi per realizzarlo

E ora tocca a noi

Il ripristino della biodiversità e l’ampliamento della protezione ambientale devono oggi riuscire a combinare sviluppo e buona gestione dell’ambiente. E devono coinvolgere tutte le parti interessate, dalle popolazioni locali, in particolare quelle indigene che vivono in alcune delle zone a più alto tasso di biodiversità del pianeta, agli attori economici. Il protocollo di Kunmig-Montreal fa riferimento in modo esplicito anche al modo in cui tutti questi attori diversi andrebbero tenuti insieme in un processo partecipativo in cui possano esprimere le proprie necessità e proporre soluzioni e percorsi. E le wetlands, in particolare i sistemi costieri e marini, sono al primo posto tra gli ambienti da proteggere e da gestire.

Il punto dolente, come spesso quando parliamo di convenzioni internazionali e di questioni ambientali, è quello degli investimenti economici. Il divario tra i fondi che vengono oggi destinati alla preservazione della natura e quelli che sono necessari è ancora molto ampio. Nel 2019, secondo il rapporto Financing Nature: Closing the Global Biodiversity Financing Gap, stilato dal Paulson Institute, gli investimenti globali per la biodiversità ammontavano a circa 130-140 miliardi di dollari l’anno. La stima dei fondi necessari per un’efficace protezione della natura è ben più abbondante, e va tra i 700 e i 900 miliardi di dollari annui. Il framework di Kunmig-Montreal propone una strada per colmare almeno parte di questo divario: il target 18 prevede infatti che vengano eliminati i sussidi alle attività dannose per l’ambiente, una cifra stimata in circa 500 milioni di dollari entro il 2030, per reinvestire quei fondi in iniziative a impatto positivo. Ancora non sufficienti, certo, ma una cifra che consente di avvicinarsi all’obiettivo finale.

Dunque, esistono convenzioni e framework. Ci sono impegni economici. E sono stati stilati piani globali ma anche nazionali e regionali. È ora necessario che gli impegni presi sulla carta siano tradotti in progetti concreti e precisi. E che questi progetti siano monitorati e verificati. Dalle varie istituzioni coinvolte, naturalmente, così come dalle comunità che in quelle zone vivono. Ma anche da chi, come noi, pensa che l’informazione giochi un ruolo chiave nel dare alle persone gli strumenti necessari a scegliere che ruolo avere come cittadine e cittadini attivi.

E dunque iniziamo un percorso, una nuova serie, che abbiamo chiamato Wasted Wetland, ma che vorremmo poter un giorno cambiare in Restored Wetlands. Una serie che ci porterà a raccontare alcune delle zone umide più importanti del nostro paese, quelle che giocano un ruolo chiave per le comunità che ci vivono, che sono  più a rischio o che hanno, in qualche caso, già iniziato un percorso di recupero e di miglioramento. Una serie che unirà informazioni storiche, inchiesta e reportage sul campo, dati scientifici e sperimentazione dell’uso di tecnologie che recentemente trovano nuova applicazione anche nel giornalismo come il remote sensing e l’analisi con strumenti basati sull'AI di immagini satellitari per visualizzare lo stato di salute degli ambienti al centro delle nostre storie e i cambiamenti nel tempo. 

Lo facciamo con il supporto di diversi finanziatori, tra cui:

 

  • Il programma “Environmental Investigative Journalism” di Journalismfund Europe, tramite cui abbiamo ottenuto una sovvenzione per l'inchiesta Wasted Wetlands svolta in diversi paesi, assieme ad altri colleghi europei (Maria Delaney e Steven Fox, Irlanda; Guillaume Amouret e Swantje Furtak, Germania)
  • Il lavoro di Giulia Bonelli è partito da un progetto sviluppato nell’ambito della Climate Arena Fellowships 2023, supportato da Arena for Journalism in Europe
  • Il lavoro di Elisabetta Tola è ulteriormente supportato dalla grant di Data Journalism del Laboratorio Interdisciplinare della SISSA di Trieste, con la collaborazione del gruppo di Data Science della SISSA, per uno sviluppo del progetto su tutta l'area mediterranea, lo sviluppo e l’applicazione delle tecnologie di remote sensing e gli strumenti AI per le analisi delle immagini satellitari

E lavoriamo in collaborazione con altri colleghi di testate indipendenti, come Facta, centro no profit di giornalismo scientifico, e Indip, periodico indipendente con sede in Sardegna. 

Wasted Wetlands è un percorso che inizia oggi, su Il Bo Live, ma che continuerà nelle prossime settimane. Iniziamo dalla Sardegna, dove c’è il più alto numero di siti Ramsar italiani. Proseguiremo a Cervia, dove la salina, una tra le più antiche del Mediterraneo, è stata devastata nel maggio scorso dall’inondazione che ha colpito tutta la Romagna. Andremo in Puglia, sulla costa leccese, per vedere come un intervento e un percorso partecipativo possono recuperare e ripristinare un ambiente che aveva vissuto anche l’insulto dell’abusivismo edilizio. E poi continueremo, finché ci saranno dati da raccogliere e storie da raccontare. 

E naturalmente, se volete segnalarci una storia che merita di essere raccontata, una zona umida che dovrebbe rientrare, secondo voi, nella nostra serie potete farlo scrivendoci alla mail di redazione, ilbolive@unipd.it

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