SOCIETÀ

G7 Ambiente. Clima e biodiversità, sfide congiunte: aumentare gli impegni

Il 30 aprile 2024 si è conclusa la riunione dei ministri di clima, energia e ambiente del Gruppo dei 7 (composto da Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America), tenutasi a Torino sotto l’annuale presidenza italiana.

Il risultato della riunione è condensato in un documento (Communiqué) che tocca diversi punti e ha prevedibilmente innescato reazioni opposte tra gli analisti. L’appuntamento era di particolare importanza perché ha rappresentato un primo, reale banco di prova per le sette grandi economie nella traduzione a livello nazionale degli impegni su clima e ambiente sottoscritti alla COP15 di Montréal (dicembre 2022) e alla COP28 di Dubai (dicembre 2023).

Tra i punti principali dell’accordo vi sono molti aspetti legati alla trasformazione del settore energetico. Tra questi: il comune impegno a eliminare gradualmente l’uso del carbone per la produzione di elettricità entro il 2035 o entro una data utile per non superare il limite di 1,5°C di aumento medio delle temperature; puntare decisamente sull’elettrico come principale fonte energetica, investendo sulle infrastrutture necessarie e aumentando significativamente la capacità di stoccaggio; elaborare piani realistici per superare la dipendenza da combustibili fossili in favore di tecnologie pulite per la produzione di energia; ridurre i sussidi ai combustibili fossili e, contemporaneamente, aumentare in modo sostanziale i finanziamenti per il clima, soprattutto in favore dei Paesi in via di sviluppo e di quelli più vulnerabili.

Al di là del settore energetico, vi sono elementi che destano interesse anche per quanto riguarda la tutela ambientale. Gli impegni presi e la terminologia usata in questo documento suggeriscono che «i paesi più industrializzati hrnno interiorizzato l’urgenza di agire per il clima e per la biodiversità», afferma Lorenzo Ciccarese, scienziato ed esperto di diplomazia scientifica, Responsabile dell'area Conservazione di specie e habitat terrestri e sistemi agro-forestali dell'ISPRA, National Focal Point dell’IPBES per l’Italia e autore di diversi rapporti IPCC, che ha partecipato all’incontro ministeriale di Torino in veste di esperto sulla biodiversità per la delegazione italiana.

Il risultato di questa riunione è, secondo lo scienziato, «molto al di là delle aspettative: è stata siglata una serie di impegni che, se attuati – e io spero che lo siano –, garantirà un approccio serio, concreto ed efficace per risolvere la triplice crisi ambientale, costituita da tre problemi (cambiamento climatico, declino della biodiversità, inquinamento) di vasta portata e fra loro intrecciati».

Dal documento emerge «la consapevolezza che questi tre problemi non possono essere più affrontati in isolamento, come purtroppo è avvenuto in passato», prosegue nella sua analisi Ciccarese. «Le cose stanno cambiando, e oggi registriamo l’impegno ad affrontarli in maniera congiunta, e in modo particolare a non trattare più a compartimenti stagni i temi del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità».

Questo cambio di passo, spiega ancora l’esperto, è soprattutto una conseguenza delle decisioni prese nelle sedi della COP15 sulla biodiversità e della COP28 sul clima. La prima, in particolare, ha consentito un importante avanzamento: nel Kunming-Montréal Global Biodiversity Framework (KMGBF), infatti, è presente un obiettivo (l’ottavo) che esplicita la necessità di affrontare congiuntamente la crisi climatica e il declino della biodiversità: l’obiettivo mira, entro il 2030, a «minimizzare l’impatto del cambiamento climatico e dell’acidificazione degli oceani sulla biodiversità e aumentarne la resilienza attraverso azioni di mitigazione, adattamento e riduzione del rischio legato a disastri naturali, facendo ricorso anche a soluzioni basate sulla natura e/o approcci basati sugli ecosistemi, allo stesso tempo riducendo al minimo gli impatti negativi dell’azione per il clima sulla biodiversità e massimizzando quelli positivi».

Le conclusioni del KMGBF sono ampiamente citate nel Communiqué dei ministri dell’ambiente del G7, che si impegnano a metterne in pratica gli obiettivi “in modo rapido, completo ed efficace” attraverso un pieno coinvolgimento delle istituzioni e della società. Inoltre, si fa ampio uso del concetto di “soluzioni basate sulla natura” (Nature-Based Solutions, NBS), che in molti casi, se ben pianificate, garantiscono benefici sia per il clima che per la biodiversità.

Come puntualizza Ciccarese, tuttavia, gli interventi basati sulla natura devono essere applicati con alcune cautele, e devono rispondere a specifici criteri per evitare il rischio che gli effetti per la tutela della biodiversità siano, nella pratica, negativi. «Anche se animati dalle migliori intenzioni, progetti di NBS non elaborati in maniera corretta possono causare danni alla natura, oltre che alle comunità che vivono nelle aree in cui questi progetti vengono sviluppati. Negli scenari peggiori, questa cattiva applicazione del concetto di soluzione basata sulla natura può peggiorare la condizione della biodiversità, eliminando, indirettamente, anche importanti servizi ecosistemici come il controllo dell’erosione, la difesa dai rischi legati ai disastri naturali e agli eventi estremi causati dagli stessi cambiamenti climatici, o addirittura una riduzione della produttività alimentare.

«Un esempio – aggiunge il ricercatore – è rappresentato dai progetti di riforestazione in cui si adoperano specie non autoctone oppure si piantano solo poche specie, in alcuni casi una soltanto: pratiche che rischiano di apportare danni di lungo periodo, perché una volta raggiunto l’equilibrio di queste formazioni forestali monospecifiche, o composte da specie esotiche e/o invasive, il ripristino delle condizioni originarie potrebbe rivelarsi impossibile o troppo costoso in termini economici e di tempo. È importante, dunque, che si seguano criteri quantificabili e riconosciuti a livello internazionale, e che, inoltre, gli interventi di tipo NBS tengano in considerazione – come specificato nella definizione di questo concetto elaborata nella quinta riunione dell’Assemblea per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEA-5) – anche i potenziali benefici economici e sociali, contribuendo al perseguimento di giustizia sociale e ambientale».

Proprio quello della giustizia sociale e ambientale è un altro degli aspetti più interessanti della sezione “Ambiente” del Communiqué di Torino: i membri del G7, infatti, si impegnano a onorare le promesse sottoscritte alle COP della biodiversità e del clima in termini di finanziamenti “nature-positivee di contributi di solidarietà e giustizia ai Paesi in via di sviluppo e a quelli più vulnerabili agli impatti della triplice crisi ambientale. Si riafferma la volontà di adempiere all’impegno, contenuto nel KMGBF, di ridurre di 500 miliardi di dollari l’anno fino al 2030 i sussidi dannosi per la biodiversità e, al contempo, di aumentare di almeno 20 miliardi l’anno entro il 2025 e di 30 miliardi l’anno entro il 2030 gli incentivi per la stessa causa, stabilendo così uno standard d’impegno piuttosto elevato anche per la platea degli altri Paesi, in particolar modo quelli del G20.

A tal proposito, Ciccarese mette in luce che «il fallimento degli obiettivi di tutela di biodiversità che i 196 Paesi aderenti alla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) si erano dati per il decennio 2011-2020 (i cosiddetti Aichi Targets) ha reso evidente il fatto che per invertire questo drammatico declino della biodiversità servono molti fondi. Fondi che devono essere tratti soprattutto dai finanziamenti che vanno a detrimento della biodiversità, e che devono essere destinati ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto a quelli meno sviluppati e più vulnerabili. Questi ultimi, infatti, sono spesso “megadiversi”, cioè comprendono le aree del pianeta più ricche di biodiversità: è il caso della Papua Nuova Guinea, di molti paesi dell’America centrale, oppure della Repubblica Democratica del Congo, paesi molto estesi e ricchi di biodiversità».

Un passo ulteriore per la ‘messa a terra’ di questi buoni propositi consiste nella creazione di adeguati sistemi di certificazione, gestiti da organismi terzi e indipendenti, per l’elaborazione e la gestione di Nature-Based Solutions che affrontino in modo congiunto e risolutivo i problemi climatici e di biodiversità. «Questi organismi – specifica Ciccarese – dovranno innanzitutto certificare che i progetti realizzati rispondano a specifici criteri, come quelli messi a punto dalla IUCN, che ha definito uno standard già applicabile».

Inoltre, bisognerà lavorare per trovare dei compromessi laddove si paleseranno interessi contrastanti. Ad esempio, il famoso obiettivo “30x30” definito nel KMGBF, che prevede di porre sotto protezione il 30% delle aree marine e terrestri del pianeta entro il 2030, non potrà essere realizzato solo mediante i criteri – ad oggi molto stringenti – delle aree protette tradizionalmente intese. In questo caso, una soluzione c’è già, ed è incarnata nel concetto di “Other Effective Area-Based Conservation Measures” (OECMs): «Una parola difficilissima – scherza Ciccarese – che sta ad indicare altre misure di conservazione efficaci basate sul territorio, di cui propongo due esempi: le aree agricole che sono state gestite con sistema biologico da almeno vent’anni possono essere qualificate come OECMs; lo stesso vale per le servitù militari, oggi riconosciute come OECMs a livello internazionale, di cui l’Italia è disseminata». Si tratta di un approccio più elastico e più realistico alla conservazione, che consente di conciliare le diverse esigenze e dimostra quanto le necessità umane e quelle della natura non siano affatto diverse, ma al contrario coincidano nella maggior parte dei casi.

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