UNIVERSITÀ E SCUOLA

Certificazione di competenze e gusto del sapere. Una riflessione sul sistema scolastico italiano

Più di 11.000 studenti italiani sono stati testati, classificati e valutati per mezzo delle prove INVALSI per il rapporto ocse-pisa 2018, un'indagine internazionale che viene condotta ogni tre anni per valutare le competenze in comprensione del testo, matematica e ragionamento scientifico dei ragazzi di 15 anni. Tra i 79 paesi che hanno partecipato, l'Italia si colloca in tutti e tre gli ambiti al di sotto della media ocse. Dal rapporto nazionale risulta, per esempio, che il 23% dei 15enni italiani, specialmente quelli che frequentano istituti tecnici e scuole professionali, “non raggiunge quello che è individuato come il livello minimo di competenza in lettura”; il che significa che tali studenti hanno difficoltà a comprendere appieno un testo scritto su un argomento che non conoscono bene, in particolare a “distinguere i fatti dalle opinioni” e a individuarne la tesi di fondo.

Lo scopo del rapporto ocse-pisa è quello di stimare se e quanto i giovani di un determinato paese sono pronti per diventare cittadini indipendenti e consapevoli, valutando cioè se “possiedono conoscenze e abilità essenziali per la piena partecipazione alla vita economica e sociale” e se sono in grado di “cogliere le opportunità che la loro società offre loro”.

Questi risultati portano dunque la riflessione sul funzionamento del sistema scolastico in Italia, considerata soprattutto la grande disuguaglianza tra nord e sud e tra licei e istituti tecnici. Se volessimo fare un confronto con i paesi scandinavi – i quali godono di una certa fama a livello europeo come modelli da seguire in quanto a metodi formativi innovativi e organizzazione scolastica efficiente – allora vedremmo che Finlandia, Svezia, Danimarca e Norvegia si trovano tutte al di sopra della media ocse.

Cosa ci dicono, quindi, i risultati dell'indagine Ocse-pisa sul sistema scolastico nel nostro paese? Ne abbiamo parlato con il professor Mino Conte, docente di filosofia dell'educazione all'università di Padova.

“Quello della scuola è sicuramente un tema attualissimo ed è sempre molto delicato trattarlo perché tocca le corde profonde di un'istituzione fondamentale per qualunque società democratica contemporanea”, spiega il professore. “Ci sono rapporti, come quello ocse-pisa che abbiamo potuto leggere recentemente, che ci fanno comprendere quali possono essere oggi alcuni problemi, ma quella che purtroppo è venuta a mancare è una riflessione generale sul senso e sulle finalità dell'istruzione, che dovrebbe essere compiuta in sedi appropriate e con un dibattito aperto tra esperti rappresentanti del mondo della cultura, della scienza, e non solo. Nel libro bianco, una dichiarazione dell'Unione europea del 1995, firmata dalla commissaria delegata per la formazione e la cultura Édith Cresson, compare la tesi secondo la quale l'età delle grandi discussioni dottrinali sull'istruzione è tramontata, come se la discussione generale sulle finalità dell'istituzione appartenesse al passato e fosse solo un residuo novecentesco.

Questo dibattito invece andrebbe riaperto, perché a decidere il compito della scuola non dovrebbe essere solo il meccanismo del mercato. Oggi la finalità della scuola è quella di essere una fabbrica di capitale umano e un luogo di certificazione di competenze per rispondere alla domanda delle imprese e dal mercato del lavoro. Questo è un orizzonte riduttivo, che impoverisce il senso proprio dell'istituzione scolastica. Nessuno nega che la scuola dovrebbe dare forma e soggettività in grado di operare attivamente nel mondo, ma c'è anche molto altro. L'insegnamento non dovrebbe porre eccessiva enfasi solo su aspetti strumentali, tecnici e tecnologici, i quali sono necessari ma non sufficienti per mettere a fuoco l'intero di un rapporto come quello didattico, che deve realizzarsi tra docenti e studenti. Bisognerebbe quindi riaprire la molteplicità di opzioni didattiche senza ridurre tutto alla programmazione per competenze. È necessaria una didattica della disciplina ma la didattica non deve diventare una forma di disciplinamento”.

Cosa intendiamo, quindi, quando parliamo di molteplici opzioni didattiche?

“Parliamo per esempio di modalità finalizzate non solo a insegnare una serie di “istruzioni” mirate alla risoluzione di problemi, ma che spingano anche a porre il problema, a valutarlo, a metterlo in questione e a vederlo da differenti angolature. In questo modo la didattica dà la possibilità di formare una coscienza e una capacità di pensiero critico. Ripensare alle modalità di insegnamento significa anche riabilitare gli stessi contenuti culturali, senza subirne passivamente l'autorità, ma imparando a sviluppare un giudizio a riguardo. Una didattica dovrebbe fornire inoltre delle modalità di insegnamento che possano portare a un'esperienza fondamentale: quella dell'altro rispetto a sé stessi, ai propri schemi mentali e ai contenuti culturali stessi”.

Si sente spesso parlare di sperimentazione e di pratiche innovative nel modo di fare didattica in alcuni paesi esteri, come la Finlandia, la Svezia e la Norvegia. Di cosa si parla (o si dovrebbe parlare) quando si ragiona di innovazione nella didattica?

“Si tratta di pratiche forse messe un po' in disparte da un certo predominio di una razionalità strumentale, utilitaristica, che mira al “problem solving”, all'“efficacia”, all'“innovazione per l'innovazione”. Il campo sperimentale, nella scuola, dovrebbe quindi aprirsi non solo per mobilitare le conoscenze, ma anche per portare ad amare la ricerca e le conoscenze come tali, riscoprendo “il gusto del sapere” anche non immediatamente finalizzato all'efficacia di un'applicazione. Bisognerebbe poi ricordare che il tempo della formazione non è detto che debba avere la stessa velocità dei processi di produzione industriale o delle comunicazioni di massa. Dorrebbe stabilirsi un'asincronia, una forma di impossibile adattamento alla velocità, che nell'ambito della formazione ha bisogno di un suo tempo e di una sua lentezza. Credo che sia questo il modo per realizzare una vera innovazione”.

I paesi del nord Europa sono davvero vincenti in questo settore? Possiamo prendere spunto da loro?

“Sì, anche se io credo che siano delle modalità perfettamente funzionali e capaci di generare cambiamenti positivi proprio perché inserite in una storia specifica delle istituzioni scolastiche; quindi non è detto che esportare le “buone pratiche” da un ambiente a un altro generi automaticamente gli stessi risultati positivi. In ogni contesto culturale, pur nella nostra società globalizzata e interconnessa, si deve capire cosa può meglio rispondere alle esigenze specifiche dei giovani e in generale delle persone che si preparano per diventare protagonisti nel mondo. Tuttavia credo che anche noi potremmo migliorare da questo punto di vista, possiamo prendere spunti e idee ma sempre facendo i conti con la nostra propria storia, perché non è pensabile ragionare su questi temi al di fuori di coordinate storico-sociali ben precise”.

Tornando allora alla situazione italiana, il rapporto ocse-pisa ha evidenziato dei risultati abbastanza diversi tra le scuole del nord Italia e del sud Italia, nelle quali la media raggiunta dagli alunni è decisamente più bassa. A cosa è dovuta questa disuguaglianza?

“Quando consultiamo questi rapporti di studio e ricerca, partiamo dal presupposto che siano sempre attendibili e affidabili, ma bisogna sempre vedere come sono condotte le rilevazioni. Sono da leggere tenendo conto che possono esserci vizi metodologici o quant'altro che possono determinare esiti di un certo tipo. Se i dati sono veri, possono stare a significare una diversa distribuzione di risorse pubbliche. Si tratta di una questione molto attuale quella del divario tra nord e sud, perché se noi decidiamo di rimanere un paese unito, sviluppare forme di autonomia differenziata può essere deleterio. Bisognerebbe impegnarsi a far viaggiare alla stessa velocità tutti i comparti fondamentali che costituiscono il Paese, tra i quali la scuola”.

“Quando parliamo di scuola, parliamo di tante variabili intrecciate, perché facciamo riferimento all'ambito culturale, scientifico, pedagogico, educativo, didattico, ma anche politico, economico istituzionale e sociale. La multidimensionalità del discorso scolastico deve perciò essere affrontata nella sua interezza, non per parti o per segmenti, come se isolando il singolo aspetto si possa poi affrontare la questione compiutamente. Non è tanto una questione di come migliorare la singola tecnica educativa: il discorso dev'essere ben più complesso”, conclude il professor Conte.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012