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L'Egitto e quella richiesta di verità mai sopita per Regeni

Sono passati quattro anni dal giorno in cui i familiari e gli amici hanno potuto dare l’ultimo saluto a Giulio Regeni. Giulio era un ragazzo di 28 anni quando è stato arrestato, torturato ed ucciso in Egitto. I mandanti non sono ancora stati trovati ed è proprio per questo che i familiari ed associazioni come Amnesty International non stanno abbassando la voce.

In questi giorni una nuova vicenda, sicuramente diversa, ma dai contorni similari a quella di Giulio sta accadendo in Egitto. Patrick George Zaky, un ragazzo egiziano di 27 anni che sta frequentando un master a Bologna è stato arrestato e, secondo quanto dichiarato dal suo avvocato, anche torturato. Anche in questo caso la vicenda presenta contorni poco limpidi e, per evitare che possa finire come la storia di Giulio Regeni, è bene ripercorrere i fatti che hanno portato il ragazzo italiano alla morte. Per fare ciò ci viene in aiuto un prezioso libro, intitolato Giulio fa cose e scritto da Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori di Giulio.

La storia di Giulio Regeni

Giulio Regeni è nato a Trieste il 15 gennaio 1988 e cresciuto a Fiumicello Villa Vicentina, un piccolo paese in provincia di Udine. Nel 2007 consegue un baccalaureato, cioè il titolo accademico ecclesiastico rilasciato delle università e facoltà pontificie, mentre nel 2011 si laurea in Arabic e Politics all’università di Leeds. Dal 2012 in poi Giulio si trasferisce a Cambridge, dove fa un master in Development Studies ed un dottorato, percorso che lo porta proprio in Egitto per fare delle ricerche per la sua tesi.

Regeni quindi si trovava in Egitto, e più precisamente al Cairo quando, il 25 gennaio 2016 alle 19:41, sparì nel nulla. Secondo quanto riferito nel libro Giulio fa cose, il ricercatore si stava dirigendo verso la fermata della metropolitana per raggiungere un amico. L’ultimo luogo in cui il cellulare di Giulio ha agganciato delle celle è stata la fermata della metropolitana El Dokki, che distanziava solo pochi metri dalla sua abitazione. Solo poche ore dopo, alle 21, gli amici di Giulio avvisarono l’ambasciata italiana in Egitto della scomparsa del ragazzo.

Regeni si trovava in Egitto, e più precisamente al Cairo quando, il 25 gennaio 2016 alle 19:41, sparì nel nulla

Di Giulio non si hanno più notizie per alcuni giorni, nei quali la console Alessandra Tognonato avvisa la famiglia della scomparsa e l’ambasciatore Maurizio Massari cerca di mettersi in contatto ufficialmente con il governo egiziano. Il tentativo dell’ambasciatore non va a buon fine e la notizia della scomparsa del ricercatore italiano viene resa pubblica alla stampa il 31 gennaio 2016.

Il ritrovamento

Il 3 febbraio, sul ciglio della strada desertica che dal Cairo porta ad Alessandria, viene ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Le condizioni in cui è stato ritrovato il ricercatore non lasciavano dubbi: era seminudo, con evidenti segni di tortura e privo di ogni documento. Nonostante questo le autorità egiziane lo riconoscono ed avvisano l’ambasciatore Massari. La sera stessa l’ambasciatore e l’allora ministra dello sviluppo economico Federica Guidi, che era al Cairo per una missione commerciale, vanno a casa di Giulio, a dare la notizia ai genitori, che nel frattempo il 30 gennaio erano arrivati in Egitto.

I depistaggi

Solo un giorno dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, iniziano i tentativi di depistaggio. Il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza parla di un banale incidente stradale ma a fugare ogni dubbio ci pensa l’autopsia effettuata il 7 febbraio al rientro della salma in Italia. “Giulio Regeni è morto in seguito ad una frattura della vertebra cervicale, provocata da un violento colpo al collo”. Sul corpo inoltre sono stati confermati i segni di tortura. Paola Deffendi, madre di Giulio disse: “Ho riconosciuto mio figlio dalla punta del naso. Ho visto sul suo volto tutto il male del mondo. Giulio non era in guerra, faceva ricerca e l’hanno torturato”.

Solo un giorno dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, iniziano i tentativi di depistaggio

Giulio Regeni era in Egitto per effettuare una ricerca sui sindacati egiziani. Questo lavoro sarebbe dovuto essere parte integrante della sua tesi di dottorato che sta facendo a Cambridge con la professoressa Maha Abdelrahman. La ricerca aveva portato Giulio ad interfacciarsi con molte persone in Egitto, alcune delle quali sembra abbiano fatto il doppio gioco e siano state l’inizio della fine per il ragazzo di Fiumicello. Un nome da tenere a mente e su cui torneremo dopo è Mohammed Abdallah.

Fine che per le autorità egiziane sembra essere avvenuta nei modi più disparati, ma inizialmente sempre senza paventare una minima ricerca della verità. Dopo l’imbarazzante ipotesi dell’incidente stradale, alcuni media vicini al governo di Al-Sisi, iniziarono a parlare di omicidio “maturato nel mondo della droga” (ipotesi smentita anche questa dall’autopsia in quanto Giulio non risultò positivo ad alcuna sostanza stupefacente). C’è poi il responsabile egiziano delle indagini sulla morte di Giulio, Khaled Shalabi, cioè colui che parlò nel giornale filogovernativo Youm7 di "incidente stradale e di nessuna traccia di proiettili o accoltellamenti" e su cui, secondo l’attivista per i diritti umani Mona Seif, pende anche una condanna penale di un anno di carcere, poisospesa, per aver falsificato un rapporto di polizia e torturato a morte un uomo. Lo stesso Khaled Shalabi che nel 2017 fu promosso da capo dell’ufficio di sicurezza del distretto della capitale Giza a capo della sicurezza di al Fayyum, una provincia egiziana con oltre tre milioni di abitanti.

Continuando con lo sviluppo dei fatti, solamente il 2 marzo arrivano i primi documenti all’ambasciata italiana al Cairo. Sono però altamente incompleti, nonostante la richiesta giunta dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, dopo che dal ministero dell’Interno egiziano uscì la notizia che il movente dell’uccisione dell’italiano fosse quello di una “vendetta personale”. La Procura di Roma giudica i documenti giunti dall’Egitto “incompleti ed insufficienti” mentre, nel gioco di forza irrompe il procuratore aggiunto di Giza, Hassam Nassar, che ribadisce il concetto che le indagini devono essere condotte da loro

Indagini che il 24 marzo 2016 portarono all’uccisione di cinque sequestratori legati alla morte di Giulio Regeni. Queste almeno, le motivazioni del ministero dell’Interno egiziano, che pubblica anche la foto dei documenti di Giulio ben posati su un vassoio con vicino un pezzo di hashish. La Procura di Roma parla subito di fatti “non idonei a fare chiarezza sulla morte”. Era l’ennesimo tentativo di depistaggio egiziano, questa volta costato la vita ad altre cinque persone.

Il gioco di forza tra Italia ed Egitto continua in aprile con il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo, e con le pressioni italiane sia su Cambridge, rea di non collaborare alle indagini, sia sul governo di Al-Sisi. Il 10 settembre uno dei nomi che abbiamo già incontrato in questa vicenda viene ufficialmente segnalato come un collaboratore dei servizi segreti egiziani. Si tratta di Mohammed Abdallah, l’ambulante con cui Giulio aveva contatti. I magistrati egiziani hanno ammesso che l’uomo era un loro informatore. Un’ulteriore conferma arriva da un video girato dallo stesso ambulante a capo del sindacato degli ambulanti egiziani e pubblicato da una tv egiziana il 23 gennaio 2017.

Il 14 agosto 2017 dall’Egitto arrivano nuovi documenti su alcuni verbali di interrogatori a persone coinvolte nella morte di Regeni. Lo stesso giorno l’Italia decide di inviare nuovamente l’ambasciatore, che nel frattempo è cambiato in Giampaolo Cantini, al Cairo.

Il 23 agosto 2017 un lungo articolo del New York Times, a firma di Declan Walsh parla di come l’intelligence statunitense avesse sentito di “prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana”. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo - continua l’articolo -. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni”.

Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni Declan Walsh - New York Times

Dopo una serie di fermi da parte di autorità egiziani a persone vicine alla famiglia Regeni, di incontri pubblici di ministri italiani con rappresentanti governativi egiziani, tra cui quello prima dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e poi del premier Conte con Al-Sisi, la verità sulla morte di Giulio Regeni non è ancora stata trovata. 

Le notizie degli ultimi giorni, con l’arresto dello studente del master GEMMA dell’università di Bologna e le presunte torture egiziane al ragazzo per conoscere eventuali collegamenti con Regeni, fanno capire che la situazione è ancora tanto complicata quanto imbarazzante per le autorità italiane ed egiziane. Sempre più spesso capita che la figura del ricercatore friulano diventi campo di battaglia di ideologie politiche, con la scelta di togliere o esporre l’oramai conosciuto striscione giallo con la scritta nera “Verità per Giulio Regeni”. 

Togliere quello striscione però significa togliere un presidio e dire ad una famiglia di propri connazionali che in fondo, di ciò che è accaduto al loro ragazzo, ad un’eventuale amministrazione non interessa molto. 

Giulio Regeni però era un ragazzo normale, un cittadino comune, un ricercatore universitario di meno di 30 anni con la passione per le ricerche e la voglia di scoprire qualcosa in più sul mondo che ci circonda. La voglia di conoscenza, il desiderio di scoperta è ciò che muove il mestiere del giornalista, dello scienziato, del ricercatore, e di tutti coloro che cercano, nel loro piccolo, di far progredire passo dopo passo questa società, senza voler essere degli eroi, ma dei semplici cittadini: come Giulio, come Patrick.

“Spesso tra eroe e vittima c’è l’espressione se l’è andata a cercare - ha scritto Paola Deffendi sul libro Giulio fa cose -. No, Giulio non se l’è andata a cercare. Giulio non era nè un santo, nè un eroe. Era un ricercatore e non era andato inEgitto a fare altro che svolgere la sua ricerca”

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