SCIENZA E RICERCA

Tutto quello che sappiamo sulle neuroscienze è falso. O quasi

Come si rapporta effettivamente la scuola alla scienza contemporanea nel quotidiano? Almeno per le neuroscienze, uno dei settori della ricerca di cui maggiormente si parla e i cui risultati coinvolgono il campo dell'apprendimento da vicino, si direbbe che la situazione non sia delle migliori. La distanza – sorprendentemente ampia – fra gli effettivi risultati di queste e il mondo della scuola è stata infatti recentemente messa a nudo in un articolo scientifico pubblicato nella Nature Reviews Neuroscience e centrato sulle scuole in Gran Bretagna.

Secondo il paper, scritto da Paul Howard-Jones, docente di neuroscienze e formazione presso l’università di Bristol, sembra che una serie di veri e propri neuromyths, ovvero miti neurologici, abbiano ampio credito fra gli insegnanti inglesi e finiscano così per essere alla base di metodi  di insegnamento inefficaci e irrazionali nelle scuole. Nonostante l'apparente "scientificità" infatti, queste idee sul funzionamento della memoria, dell'apprendimento, dei meccanismi di attenzione e comprensione e in generale del cervello risultano completamente errate, rileva Howard-Jones. Basarsi su di esse, sostiene lo studioso nel suo lavoro, rischia di compromettere le strategie formative verso gli studenti messe in campo degli insegnanti che vi danno credito.

Nello specifico, i miti neurologici sono idee non scientifiche che sembrano essersi insediate nel sistema educativo e sono largamente credute, nonostante le prove contrarie. Fra questi neuromiti c’è, ad esempio, l’affermazione che usiamo solo il 10% del cervello; che i bambini sono meno attenti dopo aver consumato spuntini dolci o che il cervello "si restringa" se beviamo meno di sei bicchieri d’acqua al giorno. Per gli scienziati queste idee sono semplicemente assurde; la ricerca dimostra però che molti docenti non solo vi danno credito, ma a volte le incorporano nel loro insegnamento.

Molti dei miti indentificati da Howard-Jones hanno delle radici scientifiche, ma le conclusioni alle quali giungono sono lontanissime da quello che dimostrano le prove e la ricerca. Per esempio, gli studi mostrano che la disidratazione può compromettere l'apprendimento, e l’affermazione che bere fra sei e otto bicchieri d’acqua al giorno è necessario non è senza ragione. Ciò detto, non esistono  prove per suggerire che ci sia un collegamento fra la minore abitudine di bere acqua durante la giornata e gli alunni che restano indietro a scuola. Tuttavia, poter far risalire questo mito all’origine scientifica ci aiuta a capire perché più di un quarto degli insegnanti britannici crede che il cervello di chi non beve sei bicchieri d’acqua al giorno "si restringa".

Un’altra convinzione errata è che le bibite o gli spuntini dolci abbiano un impatto negativo sulla concentrazione di un bambino. Scrive Howard-Jones: "La ricerca dimostra che i bambini sono più attenti dopo aver consumato bibite o spuntini dolci. Questi tipi di bibite e spuntini fanno male ai denti, e l’aumento della concentrazione non dura tanto, ma nonostante questo, l’effetto immediato dello zucchero in termini di più energia, in effetti, aumenta la funzione cognitiva." Dunque, c'è una correlazione fra variazioni del livello di attenzione e l'assunzione di zuccheri, ma la ragione è opposta a quanto comunemente creduto.

 È invece completamente destituita di fondamento l’affermazione che si usi soltanto il 10% del cervello, aggiunge Howard-Jones analizzando questa convinzione che in realtà non ha nulla a che fare con le neuroscienze, benché ad esse venga comunemente assimilata, perfino al cinema. Un'idea tanto diffusa quanto, però, priva di senso, ricorda lo scienziato: "In realtà si usa tutto il cervello, sempre, purché non esista una condizione patologica".

Un aspetto importante nella distanza fra le neuroscienze e l’insegnamento riguarda le differenze culturali e di impostazione fra i due mondi, la corretta interpretazione della terminologia impiegata e il differente linguaggio adottato, che favoriscono le incomprensioni. Nel suo paper Howard-Jones sostiene che la ragione per cui i miti neurologici continuano a convincere è almeno in parte riconducibile alla difficoltà che hanno gli insegnanti nell’avere accesso a strumenti adeguati – buone fonti d’informazione che consentano un approccio corretto, per esempio – per capire i periodici neuroscientifici. È qui infatti che si trovano esposti in modo adeguato i risultati della ricerca e che è possibile verificare la fondatezza delle idee che ci si è fatti e smascherare i neuromiti.

Le convinzioni sbagliate causate da un’insufficiente capacità di comprendere adeguatamente le neuroscienze sono del tutto evidenti nella teoria secondo la quale il cervello avrebbe "una parte dominante". Questa teoria sostiene che le persone imparano diversamente a seconda della prevalenza dell'una o dell'altra parte del loro cervello. Una persona con un emisfero sinistro dominante avrebbe un'intelligenza di tipo più analitico e logico-matematico, mentre una con un emisfero destro dominante una di tipo più artistico-letterario. Questa idea è spesso discussa sulla base di ricerche che dimostrano che alcuni tipi di processi cognitivi sono collocati in una parte del cervello, e anche sulla base di immagini del cervello ottenute grazie alle tecnologie di neuroimaging che mostrano distribuzioni particolari dell'attività neurologica.

A dispetto dell'apparente fondatezza, si tratta però un altro mito neurologico. Ed è preoccupante che molti testi educativi – libri e manuali che si supporrebbe abbiano avuto una revisione scientifica ove si appoggiano a risultati della ricerca, mentre con ogni evidenza non è stato così – incoraggino gli insegnanti a scoprire se i loro alunni hanno cervelli logico-matematici o artistico-letterari, affinché possano adattare i loro metodi di insegnamento per controbilanciare questa presunta prevalenza.

Quali le cause e le possibili soluzioni? "Nessuno pensa che gli insegnanti siano stupidi", ha tenuto a precisare il professor Howard-Jones in una conversazione con il magazine dell'università di Bristol, Epigram. La ragione principale di tutto ciò è che "la loro formazione non li prepara a pensare in modo critico alle idee che riguardano il cervello, e per loro è spesso difficile avere accesso ad informazioni attendibili sull’argomento". Per contribuire a risolvere il problema sarebbe importante includere le neuroscienze nei programmi di formazione all'insegnamento. Un’idea promossa anche dalla Royal Society, particolarmente per quanto riguarda i fondamenti neurobiologici della dislessia e dell’Add, la sindrome da deficit di attenzione, e che l’università di Bristol ha raccolto avviando l’anno scorso una delle prime lauree specialistiche in "Neuroscience and education".

Il governo britannico riconosce l’importanza delle neuroscienze nelle politiche educative. Il problema è conseguire una formazione che sia valida e scientificamente rilevante, aprire un dialogo fra il campo dell’istruzione e le neuroscienze a cui contribuiscono entrambi. "È importante che ci informiamo su queste cose, perché le stesse forze che avevano creato i miti neurologici storici ora stravolgono molti dei messaggi attuali che i neuroscienziati cercano di trasmettere agli insegnanti. Se vogliamo idee neurologiche che siano scientificamente valide e formativamente rilevanti, gli scienziati e gli educatori dovranno lavorare insieme nel produrle e nel comunicarle", afferma Howard-Jones.

I neuromiti si possano eliminare. Quello di cui c’è bisogno, secondo il paper, è un nuovo campo che colleghi le neuroscienze e la formazione, capace di produrre messaggi costruiti con cura e basati su informazioni attendibili.

Zaki Dogliani Ben Parr

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