UNIVERSITÀ E SCUOLA

All’università chiediamo una Terza Missione

Negli Stati Uniti è nota, da almeno tre decenni, come Third Mission, terza missione. In Gran Bretagna la chiamano anche Third Stream, terzo flusso. In Danimarca è, da qualche anno, prevista da una legge dello stato. L’università deve darsi un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici humboldtiani della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte.

La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata.

Questa necessità nasce mentre l’università vive una crisi strutturale, di lungo periodo, che coinvolge gli atenei di tutto il nostro continente e forse dell’intero mondo occidentale. La crisi del modello ottocentesco di università. Che è poi parte della crisi che vive l’intera società industriale, così come si è venuta sviluppando nell’Ottocento. Una società fondata sulla produzione, industriale appunto, di beni materiali e sull’idea di stato nazionale. In cui all’università era assegnata la specifica funzione di formare i tecnici e le classi dirigenti, tutto sommato ristrette di numero, di cui avevano bisogno il sistema produttivo e la nazione. Con un sapere, sempre più diviso in ambiti disciplinari ben definiti, e una scienza che ancora non avevano conosciuto Kurt Gödel e la crisi dei fondamenti in matematica e ancora non avevano conosciuto la nuova rivoluzione fisica con la meccanica relativistica di Albert Einstein e, soprattutto con la meccanica quantistica nell’interpretazione “non realista” di Niels Bohr, di Max Born e di Werner Heisenberg che hanno imposto un ripensamento profondo del concetto di certezza anche nello studio della realtà fisica.

Era, quella ottocentesca, un’università che non aveva conosciuto neppure il “pluralismo dei valori” che oggi caratterizza la nostra società e la nostra cultura. Era un’università «per maschi» e non ancora aperta alle donne. Era «un’università per pochi» e non ancora «un’università per molti».

Era un’università superba, lontana dalla società.

Da qualche tempo la richiesta sempre più pressante è che l’università ottocentesca, immersa ormai in una società diversa, cambi definitivamente. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nel XIX secolo, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali.

Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in sola dimensione, di «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. Un obiettivo decisivo, ma non semplice da raggiungere. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno tre decenni esistono leggi, come il Bayh-Dole Act del 1980, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice.

In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati.

Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene da molti anni il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società.

In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle “eticamente sensibili”. Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale.

In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga come una “nuova agorà”, una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso).

Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. È reale e costituisce spesso un forte arricchimento (culturale, d’immagine e anche economico) per le istituzioni scientifiche che ne sono protagoniste. In ogni caso sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca, come abbiamo detto, la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India, Brasile e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società».

Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercano di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi).

Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca.

In Italia c’è una domanda sociale (ma sarebbe meglio dire economica) ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Anche se non mancano, come a Padova, significative azioni che vanno nella giusta direzione, l’università italiana nel suo complesso non è ancora strutturalmente attrezzata per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.

Occorre creare, come ha scritto il matematico Settimo Termini, una multiversitas. Soprattutto in Italia. Tuttavia non lo si può fare, come succede tra troppo tempo nel nostro paese, con riforme a «costo zero» o addirittura con riforme che riducono il budget. Occorre farlo con poche regole – il numero di leggi e la burocrazia soffocano l’università italiana, senza peraltro garantire nessuno – ma con un netto aumento delle risorse finanziarie e umane a disposizione delle università.

La domanda sociale di conoscenza e di cittadinanza scientifica in questa direzione è molto forte. O viene soddisfatta dalle università, oppure troverà altre fonti e altre forme. Non tutte pubbliche e non tutte trasparenti, forse.

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